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sabato 20 giugno 2020

Rischio vulcanico ai Campi Flegrei: la geotermia d'assalto... di MalKo



Foto tratta dal Corriere del Mezzogiorno web- 2020 - Perforazione a Scarfoglio (Pozzuoli).


Le operazioni di trivellazione che stavano interessando qualche giorno fa la cittadina di Pozzuoli in località Scarfoglio, pur nel dichiarato impegno degli autori di limitarsi a perforare solo per alcune centinaia di metri, non hanno evitato un certo allarmismo tra la popolazione, atteso che la zona è vulcanica e come tutto il comprensorio è in una condizione di livello di allerta tarato sullo stato di attenzione.

Gli scopi di questa attività di scavo meccanico, pare siano legati a sperimentazioni sull’utilizzo della risorsa geotermica in una misura residenziale, che in quel determinato punto si avvale di temperature dei fluidi già produttivi a bassa profondità. La società che gestisce l’operazione usufruisce della consulenza dell’INGV e delle maggiori università campane, che sono interessate a nuove tecnologie e sistemi non convenzionali per sfruttare la risorsa geotermica onde produrre elettricità e calore. Presumibilmente, secondo le convinzioni dei progettisti, lo scavo poco profondo ancorché supportato scientificamente da molte rinomate strutture statali come l’Osservatorio Vesuviano, necessitava della sola autorizzazione della Regione Campania, ente erogante incentivi, senza bisogno di procedere a valutazioni più ampie circa l’impatto ambientale e le perturbazioni eventualmente che si sarebbero cagionate agli equilibri complessivi e puntiformi in quel sito. In una zona calderica ancorché soggetta a bradisismo e allerta gialla, non coinvolgere l’autorità comunale è stato un errore, e bene ha fatto il sindaco di Pozzuoli a bloccare i lavori, a prescindere dalla bontà del progetto che andava in ogni caso pubblicizzato e approvato.

Ben pochi sanno che un grande progetto di trivellazione prevedeva nel 2011 di carpire la risorsa geotermica ad alta entalpia, direttamente dai fianchi del vulcano sommerso Marsili. Se l’iniziativa supportata da un cast scientifico di tutto rispetto (INGV) fosse andata avanti, l’Italia avrebbe forse potuto vantare la più grande centrale geotermica offshore del mondo, in mare aperto ma a ciclo aperto, e lontana decine di miglia dai centri abitati. Un progetto francamente affascinante, ma che partiva col piede sbagliato, in quanto i proponenti ritenevano che i circa 80 chilometri che separavano il vulcano dal centro abitato più vicino, fosse una distanza garantista per l’incolumità delle genti, e quindi da non necessitare di una procedura di valutazione d’impatto ambientale (VIA) a cura della commissione del Ministero dell’Ambiente.

Il vulcano Marsili

La società proponente ebbe a scrivere che il rischio geologico vulcanologico connesso alla perforazione, dai dati acquisiti non sembra presentare livelli di rischio importanti. La commissione ritenne che la parola sembra non poteva essere accettata nella definizione di un rischio. Il problema serio infatti, era rappresentato dai materiali poco coesi in deposito sui versanti acclivati del Sea Mount tirrenico che potevano franare. Le operazioni di trivellazioni che avrebbero potuto cagionare sollecitazioni ma anche esplosioni di vapore, potevano causare disequilibri e vibrazioni forse sufficienti per innescare un massiccio movimento franoso dai pendii. In tal caso si sarebbe generato uno tsunami molto pericoloso per le isole Eolie e la terraferma peninsulare interessando più regioni. Il progetto Marsili in assenza di certezze fu dichiarato assoggettabile alla procedura ministeriale di valutazione d’impatto ambientale (VIA): da allora non è stato più ripresentato. L’elemento importante di questo iter, è racchiuso nella necessità di valutare a cura delle società votate all’energetico, ogni conseguenza diretta o indiretta che possa discendere dalla manomissione del territorio, anche in tempi diversi e a notevole distanza dal centro produttivo.

Il progetto “Campi Flegrei Deep Drilling Project”, prevedeva che lo scalpello rotante doveva raggiungere da Bagnoli e verso il porto di Pozzuoli, i 4 Km. di profondità, per fungere da “periscopio” nel sottosuolo calderico più ingobbito della zona. Il sindaco di Napoli Iervolino si oppose bloccando i lavori. Sarebbe il caso che lo Stato pretendesse e applicasse anche agli organismi scientifici (INGV) che intendono trivellare, la necessità di assoggettarsi a una completa valutazione d’impatto ambientale (VIA), in modo che la salute e la sicurezza pubblica dei cittadini siano in tutti i casi assicurati da soggetti terzi. Occorre aggiungere che non è la finalità del progetto o la natura pubblica o privata del richiedente a rendere immuni pericoli e processi di alterazione del territorio, bensì la rinuncia a procedere, quando sussistono elementi d’incertezza che dovrebbero suggerire ampi margini di precauzione.

Nella valutazione d’impatto ambientale del progetto geotermico di Serrara Fontana (Ischia), nonostante le assicurazioni basate sul supporto scientifico dell’INGV, rimaneva concretamente e di fatto la scarsa conoscenza del sottosuolo ischitano. Un vero azzardo allora presentare un piano di scavo capace di apportare modifiche o inquinamento alle collaudate acque idrotermali di superficie, che da secoli garantiscono una rinomata attività termale fondamentale per l’economia dell’isola. Pure la notevole moltitudine di massi che costellano il Monte Epomeo potevano trasformarsi in pericolo a seguito delle attività di trivellazione e reiniezione dei liquidi emunti dal profondo. Nel caso di Ischia quindi, l’impossibilità di classificare adeguatamente il rischio sismico indotto e le sollecitazioni al sistema vulcanico in un quadro di notevoli criticità idrogeologiche anche subacquee, alla stregua del Marsili, hanno convinto la commissione tecnica del Ministero dell’Ambiente ad esprimersi negativamente per l’industria del geotermico sull’isola.

Un business interessante fu individuato da una società operante nel geotermico, in località Scarfoglio a Pozzuoli, dove in loco le temperature dei fluidi idrotermali che schizzano anche dal sottosuolo sono industrialmente molto interessanti. Il problema è che tale centrale pilota si pensava di realizzarla a ridosso della Solfatara, in un settore dove le quantità di emanazioni gassose che si riversano in atmosfera sono veramente tante, in un contesto di allerta gialla e un bradisismo areale che sta mettendo a secco alcune zone del porto puteolano. Pure nel caso di Scarfoglio, le perplessità sul rischio sismico naturale e indotto e le possibili sollecitazioni al sottosuolo vulcanico saturo di gas, hanno fatto propendere la commissione tecnica ministeriale, a chiedere analisi e documentazione supplementari alquanto complesse, che non sono arrivate, comportando di conseguenza l’archiviazione del progetto.
    
Nella Tuscia e lungo i territori del lago di Bolsena e dei monti Vulsinii invece, un’autorizzazione a procedere col geotermico è già arrivata a Castel Giorgio. Un gruppo di sindaci sta cercando di far revocare tale autorizzazioni facendo ricorso al TAR: il pronunciamento potrà risultare deludente, perché non essendo una struttura tecnica, l’analisi dei giudici amministrativi verterà praticamente sui documenti esistenti. D’altro canto pare che alcuni primi cittadini si siano rivolti pure al Dipartimento della Protezione Civile, secondo logiche di prevenzione delle catastrofi, perché l’attività perforativa e di reiniezione dei fluidi idrotermali, proprio non li rassicura. D’altro canto neanche la scienza ha ancora elementi per dare certezze conclusive sulla possibilità di danno derivanti dalle attività invasive proprie del geotermico. La Protezione Civile in seguito a questa richiesta, dovrà presumibilmente assumere il parere della commissione grandi rischi congiunta per il rischio sismico e vulcanico, che probabilmente dovrà fare un grosso lavoro pure di distinguo sulle zone dov’è possibile lo sfruttamento geotermico.

La produzione di energia elettrica sfruttando i fluidi idrotermali profondi ovviamente, è il fine delle progettualità pilota in itinere, che intendono operare col metodo binario. Rispetto alle più vecchie centrali che rilasciano vapori nell’atmosfera ma non solo, i sistemi di nuova concezione risultano meno inquinanti per la parte atmosferica, ma più problematici per la parte sotterranea. Detti impianti emungono fluidi termali fino alla superficie, carpendone il calore che viene ceduto a un altro liquido organico (scambiatore di calore) che opera direttamente nel sistema di produzione dell’elettricità.  

I liquidi idrotermali raffreddatisi nei processi di scambio, vengono reiniettati nel sottosuolo a distanza dal punto di captazione, per consentire attraverso un percorso pseudo orizzontale negli interstizi del sottosuolo, il reriscaldamento del geo fluido che ripeterà daccapo il ciclo iniziale: il sistema rinnovabile andrebbe avanti finché sono assicurati acqua e calore. Il tutto avverrebbe secondo logiche da circuito chiuso, alla stregua di un impianto di raffreddamento utilizzato negli autoveicoli. Purtuttavia occorre precisare che il sottosuolo non è un radiatore, e quindi non è confinato dalla lamiera metallica in nessuna direzione.

Il problema di fondo del geotermico binario, pare sia dettato dal fatto che le operazioni di trivellazione e quindi di emungimento e poi di reiniezione dei fluidi, possono generare una sismicità indotta e anche subsidenza e sovrappressioni nei pozzi. Occorre poi dire che in ogni caso le perforazioni chilometriche trapasserebbero gli strati contenenti i giacimenti idrici potabili, che semmai e malauguratamente dovessero inquinarsi per effetto di quegli elementi tossici che la natura ha ritenuto necessario stipare nel profondo sottosuolo, causerebbero un grande danno per la salute pubblica e per le attività irrigue.

Ritornando alla questione iniziale della trivellazione a Scarfoglio, ricordiamo per offrire analogie, che nella località salernitana di Oliveto Citra, da una buca ubicata in mezzo alla campagna, fuoriusciva e fuoriesce a permanenza un flusso di gas freddo visibilmente deleterio per la vegetazione limitrofa, ma anche per gli animali di bassa taglia che stramazzano se si avvicinano troppo al pertugio, e certamente anche per gli esseri umani se si chinano sui bordi del fosso. La nostra investigazione campale con kit chimici, consolidò l’ipotesi iniziale che da quel buco fuoriusciva anidride carbonica (CO2) e idrogeno solforato (H2S) e tracce di altri elementi tossici. L’anidride carbonica è un gas asfissiante più pesante dell’aria, che diventa particolarmente pericoloso soprattutto in assenza di vento e con temperature fredde che ne aumentano la densità, dando al prodotto gassoso un comportamento simile alle sostanze liquide, stagnando così sul terreno avvallato o riversandosi in buche e anfratti. L’idrogeno solforato invece, è un elemento tossico più leggero dell'anidride carbonica ma un po' più pesante dell'aria, che produce effetti irritanti alla gola inducendo tosse, e agli occhi la lacrimazione, già a concentrazioni minime di 50/100 parti per milione. In quantità dieci volte superiore è letale.

Oliveto Citra - Emissioni mefitiche (Il drappo è spinto in alto dal flusso gassoso).


Nel caso di Oliveto Citra, ritenemmo necessario relazionare al sindaco il potenziale pericolo della sorgente mefitica, e questi provvide a recintarla con transenne e cartelli che avvisavano del rischio rappresentato dalle emissioni gassose. Alcuni coloni ci dissero pure che a più riprese tentarono il riempimento a terriccio dell'anfratto, ma senza nessun esito risolutivo. Alla stregua, anche nel caso di questa trivellazione estemporanea a Scarfoglio, il sindaco dovrebbe intervenire, cosa che sicuramente avrà già fatto, facendo analizzare i gas, valutandone poi le concentrazioni anche a quote prossime al piano di campagna per poi decidere in qualità di autorità locale di protezione civile il da farsi. Con risultati alla mano potrà assumere decisioni protettive, imponendo ai misurati trivellatori l’obbligo di eliminare il pericolo qualora lo si accertasse, anche perché i gas insiti nei vapori che fuoriescono dal foro, possono variare la loro concentrazione nel tempo o in seno a sommovimenti sismici e rimescolamento dei fluidi idrotermali, e non sono per loro natura contenibili dalla recinzione del cantiere…

Dal punto di vista della sicurezza, il geotermico, fino a quando non si accerterà l’assenza di correlazione con la sismicità, dovrebbe essere non demonizzato o bandito ma posto in stand by, in attesa che la scienza chiarisca i rischi e la tecnologia individui strumenti per procedere con sempre maggiore sicurezza e controllo in un ambiente che non ha un orizzonte visibile. Tra l’altro parliamo del geotermico quale risorsa rinnovabile, e quindi non c’è l’urgenza dettata dalla possibilità che il “business” scappi di mano, a meno che il business non lo si inquadri nell'incentivo statale: questo sì che può variare con un nuovo quadro politico. Ci sono   giacimenti di petrolio che vengono congelati in attesa di un mercato più redditizio o sistemi di captazione più economici: niente di strano quindi a ritardare certi sfruttamenti, soprattutto in assenza di condizioni da fame energetica che potrebbero condizionare fortemente le scelte politiche.   

D’altra parte il progetto TAP (Trans Adriatic Pipeline) consolida l’utilizzo del metano in Italia, magari rendendolo meno costoso e più usufruibile e sicuro, così da convertire a gas pure le centrali elettriche di Brindisi e Civitavecchia i cui impianti funzionano ancora a carbone, e almeno fino al 2025. Il fotovoltaico non sostituisce ancora la lattina di benzina, mentre l’eolico deturpa il paesaggio e annienta l’avifauna e soprattutto i rapaci notturni. L’idroelettrico è fenomenale ma limitato a poche stazioni sul territorio nazionale. L’energia dalle onde è ancora sperimentale e il nucleare è troppo pericoloso. I biocarburanti pare che tolgano troppo spazio all’agricoltura per fini alimentari… Esiste poi un'altra energia che è quella degli incentivi statali, capace di mettere insieme e movimentare progetti e promesse per trarre elettricità finanche dalle cozze…


Il sottosuolo è un ambiente sconosciuto, e in alcune località del mondo le perforazioni in qualche caso hanno causato danni catastrofici, come quelle che nel 2010 caratterizzarono l’inquinamento nel Golfo del Messico. Fuoriuscirono dal fondo marino 8000 barili al giorno, perché la valvola di sicurezza non riuscì a entrare in funzione: occorsero cinque mesi per tappare la falla in testa di pozzo e le richieste di risarcimento furono 390.000.
Anche in Italia si annoverano incidenti, come quello che si verificò nel 1994 nel novarese, a causa di un’eruzione di petrolio dal pozzo di Tricate con violenta fuoriuscita di gas e greggio per due giorni. L’inconveniente fu arginato da una fortuita frana che si verificò all’interno del pozzo. Il 13 ottobre del 1991 invece, durante la fase di perforazione del pozzo Agip nel tenimento di Policoro in Basilicata, si ebbe un’eruzione di fango dalle aste senza che si potesse intervenire in qualche modo, poi seguita da emissioni gassose che presero fuoco con un boato che asperse petrolio tutt’intorno: la cronaca racconta del ribollire di pozzi d’acqua nelle vicinanze evidentemente perché i gas in pressione avevano raggiunto attraverso fratturazioni e interstizi delle rocce, i siti d’accumulo del prezioso e vitale liquido. A Giava una banale trivellazione (2006) fu all’origine di inarrestabili eruzioni di fango che fanno temere oggi fenomeni di subsidenza particolarmente accentuati dell’ordine delle decine di metri. Problemi sismici indotti si sono avuti pure alle Canarie e in Svizzera e in California e in Emilia Romagna e in altri siti che contano gli effetti diretti e indiretti provocati dalle trivellazioni e dalla pratica di reiniezione dei liquidi in profondità.  

Per concludere, i Campi Flegrei sono un territorio calderico caratterizzato da un sottosuolo in perenne metamorfosi, con un calore che si diffonde in superficie insieme a una gran quantità di acqua che circola dissipando quei gas che sono propri dei distretti vulcanici. Il passato della zona tra l’altro lo conferma, tant’è che il Lago d’Averno ha questo nome che sottintende senza uccelli. I volatili evidentemente morivano quando passavano sulla superficie del lago per imbeccare insetti, in una condizione di forti emanazioni mefitiche che creavano strati assolutamente irrespirabili. D’altra parte anche il tragico incidente che capitò alla Solfatara nel 2017, causò, purtroppo, la morte accidentale di tre turisti, scivolati in un buco saturo di anidride carbonica: una vera trappola mortale.

Dal giornale online La Repubblica . Solfatara di Pozzuoli: la micidiale buca.


Nei Campi Flegrei c’è “irrequietezza” nel sottosuolo, e questo consiglia di muoversi con prudenza, evitando di interessare con trivellazioni una zona dove persiste la possibilità di eruzioni freatiche e quella di emissioni di anidride carbonica in un settore territoriale che già ne produce naturalmente una quantità industriale.
Per le attività geotermiche, i comuni che cercano di battersi per evitare insediamenti intesi a sfruttare le acque calde idrotermali, come quelli della Tuscia e dei territori dei Monti Vulsini che ricadono a ridosso del lago di Bolsena, sarebbe opportuno che le loro osservazioni vadano in una direzione diversa, e formulate anche al Ministero dell’Ambiente, per conoscere se il rischio sismico ed eruttivo freatico e inquinante che accompagna i progetti geotermici, devono essere inseriti nell'analisi dei rischi che incombono sui territori comunali. Chiedere ad esempio che vengano fornite  pure le istruzioni per intervenire in caso di inquinamento delle falde di acqua potabile, è un modo per evidenziare i rischi connessi a una insostituibile risorsa per la vita ordinaria e per le attività produttive agricole.

D’altra parte ed è intuitivo che la risorsa idrica potabile ha una indiscutibile priorità conservativa, e non può essere minacciata nella sua salubrità da una pratica perforativa ed estrattiva dei fluidi idrotermali per produrre elettricità e calore in presenza di alternative accettabili come il metano, fonte purtroppo o per fortuna non rinnovabile, ma certamente nell’attualità meno inquinante dei confratelli liquidi e solidi. 

Il Prof. Giuseppe Mastrolorenzo, primo ricercatore dell’INGV, Osservatorio Vesuviano, conosce benissimo sia le problematiche delle trivellazioni in area vulcanica che quelle che si prefigurano nei territori toscani e del Lazio per lo sfruttamento del geotermico.

Prof. Mastrolorenzo, questa recentissima trivellazione a Scarfoglio e più in generale quelle che si volevano realizzare nei Campi Flegrei, presentano delle criticità insuperabili?

Certamente lo zona della Solfatara nel suo bordo orientale è quella a massima fragilità e criticità, perché è ubicata al centro della zona rossa dove ci sono le più forti manifestazioni termiche e sismiche con epicentri sufficientemente localizzati e associati al fenomeno bradisismico. Un fenomeno quest’ultimo in atto e che ha avuto diverse fasi a partire dagli anni ‘70. Nella zona ad est della Solfatara, vengono rilasciate naturalmente dal sottosuolo, alcune migliaia di tonnellate di anidride carbonica al giorno, insieme a una enorme quantità di vapore acqueo. Negli ultimi anni si è assistito tra l’altro in questa zona, a un notevole aumento della temperatura delle fumarole, e l’insieme dei fenomeni ha portato ad elevare da diversi anni il livello di allerta vulcanica che è passato nel 2012 da base ad attenzione. Prospezioni geofisiche hanno rivelato che l’area è interessata da forti discontinuità superficiali e profonde che interessano le varie falde idrotermali a diverse profondità che nella zona si sovrappongono fino alla superficie. Questa è anche l’area che in diversi modelli sviluppati dai vari gruppi di ricerca risulta a maggiore probabilità di aperture di bocche eruttive in caso di ripresa dell’attività vulcanica. Una ulteriore criticità è data dalla morfologia del territorio: infatti, l‘estesa piana di Agnano si estende proprio al di sotto del bordo orientale della Solfatara prolungandosi fino all’area densamente popolata di Bagnoli e Fuorigrotta. Questo implica che in caso di fenomenologie esplosive o di drastiche modificazioni del campo fumarolico con dati quantitativi al rialzo, la conca di Agnano potrebbe essere interessata da concentrazioni anomale di anidride carbonica e altre sostanze nocive, soprattutto nelle condizioni di prevalente circolazione dei venti verso i quadranti orientali. Le modificazioni dei parametri geofisici e geochimici hanno fatto ritenere a molti ricercatori che sia in atto una possibile evoluzione verso uno stato critico e potenzialmente eruttivo. Per tutte queste motivazioni ebbi a denunciare in passato contrarietà alla realizzazione di una centrale geotermica a Scarfoglio. Qualsiasi attività di trivellazione anche superficiale nell’area indicata soprattutto se caratterizzata dalle pratiche di estrazione e reiniezione dei liquidi idrotermali, può innescare terremoti oltre che favorire la dispersione in atmosfera di gas e altre sostanze nocive, senza escludere il rischio di eruzioni freatiche che causerebbero danni a centinaia di metri di distanza dai siti di perforazioni. Le trivellazioni sono processi intrinsecamente irreversibili e dagli effetti imprevedibili che possono alterare l’equilibrio del sistema crostale zonale, con innesco di processi non lineari e di natura caotica tali da trasformare piccole perturbazioni in drastiche modificazioni del sistema in profondità. Essendo l’area sede di siti cruciali nel sistema di monitoraggio, le modificazioni artificiali potrebbero comportare significative alterazioni dei parametri monitorati, non discriminabili rispetto all’azione antropica dell’uomo.

Nella cosiddetta Tuscia e nel territorio dei Monti Vulsini che si affacciano sul lago Bolsena, vogliono realizzare alcune centrali geotermiche per la produzione di elettricità, attraverso sistemi binari che necessitano di pozzi profondi per l’emungimento e la reiniezione di fluidi idrotermali. Lei è contrario a questa pratica almeno in questi luoghi?

L’esteso territorio che comprende il distretto vulcanico Vulsino e il lago di Bolsena, e caratterizzato da un rischio sismico medio alto con magnitudo max attesa prossima al 6° grado della scala Richter. Geologicamente parlando, i vulcani non più attivi del distretto Vulsino e più a nord dell’Amiata, si sviluppano all’interno di una estesa struttura tettonica, in un bacino tettonico definito il graben di Siena-Radicofani. Questo come altri bacini tettonici che sono intercalati ai rilievi della catena appenninica, sono dovuti a processi distensivi attivi controllati da faglie dirette che bordano la catena appenninica. L’attivazione di queste faglie storicamente ha generato forti terremoti che, data la bassa profondità ipocentrale, in genere compresa entro i 10 chilometri,  hanno creato non pochi danni ai centri storici. Oltre a queste importanti strutture tettoniche, più in superficie, nei primi chilometri, sono presenti poi, strutture vulcano tettoniche associate all’evoluzione di apparati vulcanici tra i quali i più rilevanti sono la vasta caldera che ingloba il lago di Bolsena, e il complesso vulcanico del monte Amiata.

Il Lago di Bolsena - Foto Mastrolorenzo

Come ho rilevato nelle mie osservazioni alla Regione Toscana relativamente a un progetto geotermico da 10 MW in Val di Paglia, le centrali geotermiche in questo contesto geologico sono assolutamente da evitare, perché i processi di trivellazione estrazione e reiniezione di fluidi geotermici, a tassi dell’ordine di centinaia di tonnellate l’ora, possono indurre terremoti anche di magnitudo superiore al 4° grado Richter in prossimità dei pozzi, e addirittura innescare terremoti della max magnitudo attesa nelle faglie attive a maggiore profondità. Tali effetti dell’attività geotermica, sono stati ampiamente documentati a livello mondiale, e anche in Italia la commissione Ichese, costituita a seguito della sequenza sismica in Emilia nel 2012, non escluse la possibilità che i terremoti di elevata magnitudo fossero stati innescati da attività antropiche. L’elevata discontinuità difficilmente indagabile nei dettagli, del sottosuolo e in particolare delle estese falde idrotermali, può comportare induzione e innesco di terremoti, così come non si può escludere il mescolamento delle falde a diversa quota, con conseguente risalita in superficie di fluidi geotermici carichi di sostanze nocive come l’arsenico e l’anidride carbonica. Il rischio più temuto e che tali sostanze possano disperdersi all’interno delle falde idropotabili superficiali e nello stesso lago di Bolsena con gravi conseguenze per le popolazione e l’ambiente. A tali criticità va aggiunto il rischio esplosione sempre presente in perforazioni che attraversano orizzonti ad alta pressione e temperatura, quali eventi che già si sono manifestati in passato per effetto di trivellazioni nel settore nord del Bolsena. Altre problematiche denunciate riguardano i danni alla cultura artistica, storica e paesaggistica, in un’area che conta tremila anni di storia.

Ringraziamo il Prof. Giuseppe Mastrolorenzo, noto vulcanologo e ricercatore, per averci consentito di conoscere il suo parere personale ancorchè scientifico su aspetti attuali e molto rilevanti che interessano i territori del nostro impareggiabile Paese. Il suo istituto di appartenenza (INGV) ha ricevuto in ogni caso relazioni su questo argomento, essendo tra l'altro centro di competenza della Protezione Civile nazionale.












mercoledì 13 maggio 2020

Rischiovulcanico ai Campi Flegrei: le incognite e il sopravvivere... di MalKo



Campi Flegrei

Il 26 aprile nel distretto vulcanico dei Campi Flegrei, a ridosso del punto strategico di Pisciarelli, si è manifestato uno sciame sismico misurato in 41 eventi localizzati a profondità oscillanti tra 1.0 e 2.7 km. L'evento delle ore 02:59 di Md. 3.3, è stato il più forte mai registrato dal 1985 (dati Osservatorio Vesuviano). In contemporanea la notte del 27 una serie di sismi a bassa magnitudo ha interessato il Vesuvio. Il 10/05/2020, un ulteriore sciame sismico ha colpito la zona dei Campi Flegrei, con scosse protrattesi per una decina di minuti, non intense ma continue, con i diagrammi che suggerivano una sorta di tremore litosferico localizzato… 
Essere un abitante dei Campi Flegrei ci rendiamo conto che non è semplice. Fino a quando il problema tellurico lo si associava al solo fenomeno bradisismico, vivere lontano dal rione Terra poteva sembrare una misura sufficiente per ritenersi al sicuro dal dissesto dei fabbricati collocati sulla gobba litosferica. Successivamente ci si è resi conto che tutta l’area flegrea è sottoposta a un rischio ben maggiore che è quello vulcanico: una scoperta un po’ tardiva. D’altra parte se avessero riflettuto bene sul dato geologico, non avrebbero costruito complessi residenziali per spostare la popolazione dalla zona rossa bradisismica alla zona rossa vulcanica. Così come non avrebbero collocato la sede dell’Osservatorio Vesuviano all’interno del recinto calderico.
Le operazioni di messa in sicurezza dei Campi Flegrei hanno richiesto la necessità di stabilire un’eruzione massima di riferimento da cui difendersi. A tal proposito alcuni ricercatori dell’INGV hanno elaborato un prospetto statistico assegnando percentuali probabilistiche ad ogni specifica tipologia eruttiva: da questa tabella gli scienziati della commissione grandi rischi hanno concluso che una eruzione sub pliniana (VEI4), alla stregua di quanto è stato deciso per il Vesuvio, è l’eruzione massima di riferimento.
Statistica tipologia eruttiva Campi Flegrei

Sull’ipotesi di pericolo appena formulata, è stata quindi circoscritta la zona rossa flegrea e sono stati elaborati i piani di emergenza e di evacuazione. Un evento vulcanico VEI 4 in ogni caso non è una passeggiata e comporterebbe la produzione di colate piroclastiche che potrebbero colpire entro un raggio di 7 - 10 chilometri dal centro eruttivo, con qualche rallentamento offerto dalla barriera di fabbricati e orli collinari. Quale sia questo centro eruttivo non è dato saperlo, e non si può neanche escludere matematicamente che possano essere più di uno. Sempre nel campo delle incognite, precisiamo ancora una volta che non si sa quando si verificherà la prossima eruzione e con quale intensità si presenterà.  
In tutti i casi l’Osservatorio Vesuviano prevede di prevedere l’approssimarsi di una eruzione con almeno 72 ore di anticipo, anche se non ci sono elementi deterministici su cui fondare questa certezza. In controtendenza, un articolo pubblicato sulla rivista focus il 30 settembre del 2015 aveva questo titolo: Eruzioni vulcaniche: i Campi Flegrei non "avvisano".  Nel lavoro alla base di questa affermazione, in linea generale c’è il concetto che un’eruzione può essere il frutto di combinazioni chimiche dettate da differenti magmi che s’incontrano, e che danno vita a quelle reazioni che promuovono in poche ore spinte in alto della massa incandescente.
Il fatto che non ci sia un apparato montuoso che sovrasti il magma e che la superficie crostale flegrea sia in qualche modo e nei secoli provata nella compattezza dalle intrusioni magmatiche, dai sismi, dai moti bradisismici e ancora dall’azione chimica degli acquiferi surriscaldati, se non da tutti questi elementi messi insieme, potrebbe essere un fattore importante che si offrirebbe a diverse interpretazioni. Alcune pubblicazioni accennano a questi elementi snervanti che cagionerebbero una minore resistenza del coperchio calderico. Non è chiaro però, cosa comporti questa condizione, in quanto tutti gli studi raccontano di questi processi, ma senza riportare nel merito alcuna conclusione.
Nei Campi Flegrei un’eruzione manca da circa 500 anni: un periodo sufficientemente lungo da rendere probabilmente possibile qualsiasi congettura sul pericolo vulcanico. D’altra parte quello che ci sembra fondamentale nei processi eruttivi, è quello che succede nel dinamico sottosuolo chilometrico: luogo madre di tutte le eruzioni. Riuscire a cogliere nel futuro prossimo una immagine tridimensionale della camera magmatica flegrea, consentirebbe di avanzare ipotesi maggiormente corrispondenti alla realtà geologica di questa particolare area calderica.  
La buona riuscita di un piano di emergenza comprende due fattori fondamentali: il primo è senz’altro la previsione dell’evento vulcanico. Si raggiunge questo risultato in genere facendo affidamento sulle notizie che ci pervengono dagli annali delle eruzioni precedenti, soprattutto per la parte prodromica degli eventi. Un database contenente la misura fisica e chimica di tutti i fenomeni pre eruttivi del passato aiuterebbe moltissimo, perché sarebbe maggiormente agevole la comparazione e l’intreccio dei dati: in una parola il processo si chiamerebbe esperienza... Al superamento di quelli che si ritengono misure strumentali limite, scatterebbe un crescente allarme che non è mai meccanico ma umano, ancorché frutto delle interpretazioni e dei consulti che nel nostro sistema operativo avvengono all’interno della commissione grandi rischi. L'allarme scientifico non corrisponde all'allarme civico, perchè il pulsante dell'evacuazione è nelle sole competenze del Presidente del Consiglio.
In realtà per i Campi Flegrei non c’è un database pregresso, e la caldera presenta diecine di bocche eruttive monogeniche, con l’ultima eruzione datata 1538, cioè 250 anni prima della rivoluzione francese. Si comprende bene allora, che gli elementi su cui basare proiezioni predittive non ci sono, o quantomeno sono estrapolate da altre realtà calderiche esistenti sul Pianeta, ma non da quella che abbiamo sotto i piedi.
Il secondo elemento fondamentale per la pratica di salvaguardia della popolazione è l’organizzazione nazionale, regionale e comunale di protezione civile, che, in caso di pericolo, deve essere capace di allontanare il più presto possibile gli abitanti del flegreo dalla zona rossa. I piani di emergenza che servono nel nostro caso a definire modi e mezzi di trasporto per evacuare in 72 ore i circa 550.000 residenti dei Campi Flegrei, presentano ad oggi strategie molto discutibili, che sembrano frutto di un mero esercizio aritmetico piuttosto che una reale formula per assicurare nel concreto la salvaguardia dei cittadini.
A titolo esemplificativo e non esaustivo, in un contesto di allarme vulcanico pensare di organizzare un servizio navetta che dalle aree di attesa del centro di Pozzuoli trasferisca circa la metà della popolazione puteolana alla stazione di Napoli per prendere posto sui treni freccia rossa, è una strategia non impossibile ma decisamente traballante. Infatti, dal caos allarmistico comunale si procederebbe verso il caos urbanistico napoletano, soprattutto se tale movimentazione di genti avverrebbe in un contesto di prodromi pre eruttivi come quelli sismici. Riteniamo probabile una rivisitazione di questo piano, dove la metropoli napoletana si vedrà collocata in buona parte nella zona rossa, comprendente anche la stazione ferroviaria di Piazza Garibaldi che non può essere un punto d’incontro ma solo di attesa per i partenopei che orbitano in quella zona. Quindi, la strategia oggetto dell’esercitazione Exe Flegrei 2019 a nostro avviso è più che discutibile…
Zona Rossa Campi Flegrei
Pozzuoli è il comune flegreo più popolato ed è anche quello soggetto alle manifestazioni di vulcanesimo più evidenti. Escludere come è stato fatto per Torre del Greco nel vesuviano, l’utilizzo dei mezzi marittimi a basso pescaggio come i catamarani e le monocarene per evacuare la zona porto e il circondario, è una scelta operativa francamente incomprensibile. L’ipotesi di un rigonfiamento del fondale marino diverso dal bradisismo, che è un fenomeno lento, qualora dovesse presentarsi non sarebbe così repentino da cogliere alla sprovvista il sistema di sorveglianza scientifica. Diversamente, l’Osservatorio Vesuviano dovrebbe restituire le apparecchiature super tecnologiche disseminate in ogni dove in terra e nel mare calderico, perché promettevano con questi strumenti anche spaziali, precisioni estreme, tali da rilevare le sollecitazioni dovute al passaggio dei Paguro Bernardo sui fondali di Bacoli. Quindi è molto difficile, si presume, essere colti alla sprovvista.
La caldera flegrea ha un raggio medio tra i 12 e i 15 chilometri. Premesso che un’eruzione dalla potenzialità sub pliniana (VEI4) può creare problemi seri entro i 7 -10 chilometri dal centro eruttivo e sottovento ad esso, tutta la circonferenza flegrea a questo punto è da considerarsi a rischio ed è quindi zona rossa.  Per spostare la popolazione dal pericolo vulcanico, i tecnici delle emergenze generalmente preferiscono tenere aperti tutti i possibili canali di trasporto senza stroncature preventive. Le orme che lasciarono circa quattromila anni fa i nostri avi del bronzo antico sulla cenere appena depositatasi nella zona a nord del Vesuvio, lasciano intendere quale sia l’ultima risorsa disponibile per allontanarsi dalla minaccia vulcanica. Migliaia di anni fa, essere runners era l’unica, e non l’ultima risorsa disponibile per mettersi al sicuro…  
Un uomo in discrete condizioni fisiche riesce a percorrere una distanza di circa 5 chilometri ogni ora. Ne consegue e come ultima ratio ai sistemi di mobilità previsti, che in 2 ore…diciamo 3, dovrebbe essere possibile porsi in salvo.  Ovviamente per i vecchi e i bambini, e gli allettati e i malati, questa opzione non è perseguibile. Questo spiega perché, semmai la fase di attenzione dovesse acuirsi, spostare le persone più deboli in luogo sicuro fuori area calderica, è la premessa necessaria per garantirsi una maggiore possibilità di manovra. La seconda è di non curarsi dei beni materiali. La lapide posizionata nel 1632 sulla strada principale di Portici, esattamente l’anno successivo alla devastante eruzione VEI4 del Vesuvio, recita appunto questo salutare principio…









sabato 9 maggio 2020

Rischio Vesuvio: l'eruzione vista da Miseno... di MalKo

Campi Flegrei - Bacoli

Probabilmente gli stranieri ma anche i connazionali di altre regioni che conoscono l’arcinoto Vesuvio, si chiederanno spesso come si faccia a vivere nel raggio d’azione del vulcano esplosivo più famoso della storia. D’altra parte nonostante si sappia che la situazione intorno a questo apparato è alquanto caotica e antropizzata, si dà per scontato che molto è stato fatto per la salvaguardia delle popolazioni, perché la nostra civiltà occidentale garantisce salute e sicurezza, grazie anche a regole che dovrebbero affondare nei principi della elementare prudenza. Quindi, avere per il vesuviano un collaudato piano di emergenza è il minimo auspicabile.

In realtà il piano di evacuazione che è l’allegato più importante del piano di emergenza, è un documento in itinere, mancando ancora di indicazioni operative da parte di alcune ritardatarie municipalità della zona rossa. Quando sarà pronto questo documento che in tutti i casi ha previsto misure di protezione solo per eruzioni medie VEI 4, dovrà poi essere ben conosciuto e diffuso alle popolazioni esposte, in modo che le azioni di salvaguardia consentiranno all’occorrenza di porsi con la distanza guadagnata con l’evacuazione (d), fuori dalla portata dell’eruzione.


L’ipotesi che il Vesuvio possa produrre un’eruzione pliniana (VEI5), alla stregua di quella che si materializzò nel 79 d. C. è stata letteralmente obliata dalla scienza e dai media e dalla politica. I ricercatori hanno generalmente e sostanzialmente annullato la precedente e annosa tesi, che quanto maggiore sarà il tempo di quiescenza tanto maggiore sarà l’intensità eruttiva che verrà. Questa affermazione se non poggia su consolidate basi scientifiche porterà con sé conseguenze dannose per i posteri, che erediteranno da noi risorse e pericoli in un territorio antropizzato oltre misura. Nell’odierno, tale concetto passato per deterministico, intanto offre riparo alle omissive scelte politiche e amministrative che avrebbero dovuto contemplare la necessità di estendere la zona rossa. L'iniziativa avrebbe consentito di dare maggiore spazio alla prevenzione del rischio vulcanico, per evitare di farsi cogliere impreparati dalle imprevedibili energie esplosive del sottosuolo chilometrico.

D’altra parte l’attuale assenza di direttive che vadano nel senso della prevenzione delle catastrofi, sono un elemento che dimostra con gli strumenti della logica che questa teoria della: indifferenza temporale sulla intensità eruttiva al Vesuvio, sia di fatto e nei fatti quella seguita dagli organi preposti. In realtà è talmente formidabile questa notizia, che i giornalisti divulgatori della scienza dovrebbero interessarsene, magari scrivendo sulle riviste specializzate la novella. Una novità che offre una miracolosa e inaspettata  liceità a quanti disattendendo a tutti i livelli l’attuazione di misure di prevenzione del rischio vulcanico, perseverano nel ritenere l'edilizia residenziale il volano inalienabile per la rinascita dell'economia nel vesuviano, anche ai limiti della modesta zona rossa.

Il Vesuvio è un vulcano che ha dato origine nel corso dei millenni ad eruzioni di varia intensità e portata, come quelle minimamente stromboliane che potevano semplicemente dare vita a un fenomeno turisticamente avvincente, ed altre altamente pericolose come quelle pliniane, che pur nella loro rarità hanno letteralmente sconquassato i territori ubicati intorno al vulcano per un raggio di decine di chilometri.

L’eruzione esplosiva del Vesuvio del 79 d.C., un evento di taglia VEI5, fu narrato da un giovane spettatore comasco, che ammirò lo spettacolo dell’eruzione da un’altra area vulcanica non meno pericolosa della prima come quella dei Campi Flegrei. Plinio il Giovane dimorava nella zona di Bacoli, essendo nipote di Plinio il Vecchio, ammiraglio della flotta navale romana stanziata a Miseno. Il giovane scrittore su richiesta dello storico Tacito, narrò dello zio e dell’eruzione, in due epistole: lettera VI 16 - VI 20.

L’eruzione in questione avvenne durante l’impero di Tito. Plinio il Vecchio, ammiraglio della flotta romana a Miseno, stava rielaborando i suoi appunti dopo essersi esposto al Sole e poi bagnato e ristorato. Nel mentre il nipote Plinio il Giovane leggeva alcuni passi di Tito Livio, la madre di quest’ultimo ebbe a segnalare ai due scrittori che una nube insolita scura gravava in direzione est. Plinio il Vecchio notò questa nuvola a forma di pino e decise, da buon naturalista, che occorreva andare in quei luoghi per verificare il fenomeno da vicino. Chiese che si preparasse una liburna, e nel mentre arrivò un biglietto della nobildonna Rectina che implorava il suo aiuto per essere tirata fuori dal lungomare vesuviano devastato dall’eruzione. L’ammiraglio allora, fece mettere in armo alcune quadriremi per portare soccorso alle popolazioni.   



Durante la navigazione, più le navi si avvicinavano al traverso di Ercolano, più sulle tolde cadevano i prodotti dell'eruzione. Alcuni bassofondi non consentirono l’approdo nella cittadina votata ad Ercole: Plinio allora, spronando l’equipaggio che non si sentiva al sicuro, ordinò di procedere senza indugi per la villa di Pomponiano ubicata a Stabia. Su questa riva il naturalista sbarcò e abbracciò il suo amico che attendeva venti favorevoli per prendere il largo con la sua barca già carica. In attesa che le condizioni meteorologiche mutassero, andarono nella villa del senatore dove cenarono e si riposarono in una condizione di terremoti frequenti. La pausa non durò a lungo, perché la pioggia di cenere e lapilli stava bloccando le porte col rischio di intrappolarli. Il gruppetto riparatosi la testa con dei cuscini fissati al meglio con delle fettucce, si allontanò in un contesto di buio vulcanico martellati dai piroclastici di caduta. Aiutati da torce, giunsero in prossimità del mare: l’ammiraglio si distese su un lenzuolo poggiato da un servo sulla coltre di cenere chiedendo acqua. Il terzo giorno dall’approdò, lo rinvennero come dormiente tra i lapilli vulcanici ma era morto. Probabilmente la causa del decesso doveva addebitarsi alla cenere inalata che ricordiamo ha una componente vetrosa e acida molto irritante, e alcuni gas vulcanici che in genere, come l’anidride carbonica e l’anidride solforosa ristagnano al suolo.

Plinio il Vecchio sulla spiaggia di Stabia (dal sito Asciacatascia)

Intanto il giovane Plinio rimasto a Miseno con la madre, dormì poco a causa dei terremoti che poi divennero particolarmente intensi. Madre e figlio titubavano a prendere decisioni e s’interrogarono sul da farsi. Sopraggiunse intanto un amico dello zio che li rimproverò perché tardavano a mettersi in salvo. Alle prime ore del giorno, l’atmosfera opaca che gravava sulla casa tremolante, li spinse ad allontanarsi dal caseggiato dove i carri pur fermi su terreno piano venivano sballottati a destra e a sinistra dai terremoti, addirittura mettendosi in moto. Il mare si ritrasse abbastanza da mettere al secco dei pesci sulla spiaggia oramai più estesa. Dalla parte opposta invece, videro una grande nube nera percorsa da saette che, dopo aver percorso la terra, si adagiò sul mare. Madre e figlio furono invitati ancora una volta a correre per mettersi al sicuro. Usciti dalla casa, lasciarono la strada principale per evitare schiacciamenti e resse. Poco dopo si sedettero per riposare, e a quel punto la cenere li avvolse e con essa la più nera delle notti. La gente che scappava si chiamava tra loro a gran voce essendosi persa in quel buio vulcanico. Il fuoco sembrò correre da lontano nella loro direzione ma poi si arrestò, in un turbinio di polveri cineree che sopravanzarono imbrattandoli, e quindi cercarono di scuotersela di dosso: l’idea che si faceva largo era che sarebbero presto periti. Ritornati nella casa di Miseno, nonostante i sussulti decisero di restare in quel luogo familiare in attesa di notizie dello zio che poi funeste arrivarono...

L’eruzione pliniana del 79 d.C. che devastò il vesuviano, è stata valutata con un indice di esplosività VEI 5. In quei frangenti drammatici, come si evince dagli scritti di Plinio il Giovane, una nuvola di cenere raggiunse anche la zona di Miseno portando una profonda oscurità che accrebbe la paura tra gli abitanti. Occorre dire che tra il centro eruttivo del Vesuvio e Miseno corre una distanza di circa 30 chilometri. I residenti dell’agglomerato urbano localizzato nei pressi della flotta navale romana, fuggirono per sottrarsi all’avanzata di questa nuvola scura che si avvicinava e che scatenò il panico anche per i sismi che scuotevano la terra. I fuochi che sembravano avvicinarsi, ma che poi si fermarono come narra Plinio, potrebbero essere stati degli incendi nelle case distanti causati dai terremoti: le fiamme a seconda dell’intensità della cenere, diventavano più o meno visibili dando l’idea del movimento che in realtà non c’era. Tra i principali effetti del terremoto, quello degli incendi è un danno collaterale abbastanza frequente.

Rimane il dato che a 30 chilometri di distanza è arrivata cenere vulcanica nella direzione opposta  a quella che ha favorito l’introduzione della zona rossa 2 (Est - Sud- Est): quale fenomeno l’ha portata lì? E i terremoti vulcanici al Vesuvio potevano risultare copiosi e intensi anche a 30 chilometri di distanza dal centro eruttivo? Per risolvere questi dubbi ricorriamo alle competenze del Prof. Giuseppe Mastrolorenzo, noto vulcanologo dell’Osservatorio Vesuviano (INGV) che qui chiarisce:

<< Nelle due lettere di Plinio il Giovane a Tacito, è riportata senz’altro la prima descrizione dettagliata di un’eruzione esplosiva di grande portata. Il termine eruzione pliniana, è stato assunto nella letteratura vulcanologica per descrivere gli eventi esplosivi analoghi a quello narrato da Plinio il Giovane, ed è stato utilizzato per descrivere eventi come quello del Monte St. Helens, avvenuto nel 1980 o del Pinatubo del 1991.

Le ricerche vulcanologiche hanno rivelato come la descrizione dell’eruzione del 79 A.D. fosse adeguatamente dettagliata e priva di forzature letterarie. Ciò nonostante resta impossibile verificare con grande attendibilità scientifica alcuni elementi rilevanti dell’eruzione, quali ad esempio la durata e la tipologia degli eventuali fenomeni precursori, nonché l’entità della sismicità associata all’evento eruttivo. Resta inoltre non verificabile l’orario di inizio e la durata dell’eruzione.  
Circa la sismicità in fase sin-eruttiva non esistono evidenze oggettive, ma si può fare riferimento ad eruzioni pliniane analoghe, avvenute in tempi recenti a livello mondiale. In tali casi si è osservata un’attività sismica di magnitudo media, in genere non molto superiore al quinto grado Richter, e solo molto raramente associata a effetti al suolo di grande portata, se non nelle aree immediatamente prossime al centro eruttivo.

Quanto descritto da Plinio il Giovane relativamente al centro abitato di Miseno che sarebbe stato interessato da scosse di notevole intensità (come indicato dallo spostamento di carri), sembrano non compatibili con quelle potenzialmente associate a una possibile crisi sismica con magnitudo non elevate e ipocentri a distanze di circa trenta chilometri.

Per quanto riguarda il passaggio di una fitta nube alla fine dell’evento eruttivo sull’abitato di Miseno, questa è compatibile con l’ultima fase eruttiva del Vesuvio, caratterizzata dalla generazione di flussi piroclastici a bassa concentrazione con fronti di grande spessore e con elevata mobilità che ne consentiva l’espansione radiale fino a distanza dell’ordine di alcune decine di chilometri dalla bocca eruttiva.

Per la bassa densità, la scarsa concentrazione di particelle, la bassa temperatura e la bassa velocità di avanzamento, queste ultime nubi piroclastiche, a parte lo spavento non erano in grado di causare danni o mettere a rischio le comunità nell’abitato di Miseno. Cosa diversa invece, hanno appurato le mie ricerche negli abitati di Ercolano, Oplonti e Pompei, dove i residenti che si attardarono nella fuga morirono all’istante per effetto di temperature comprese fra 300° e 500° Celsius.  A fronte delle numerose ricerche pubblicate sull’eruzione del 79 A.D., restano ancora molte incognite, in particolare proprio sulla sua durata totale e sui precursori che hanno preceduto a medio e a lungo termine l’evento>>.


Ringraziamo il Professor Giuseppe Mastrolorenzo primo ricercatore dell’Osservatorio Vesuviano (INGV) per i preziosi chiarimenti che ci ha fornito.















domenica 5 gennaio 2020

Rischio Vesuvio: fino a prova contraria... di MalKo



Vesuvio

Occorre dire che per anni tutte le componenti che s’interessano di protezione civile, hanno ripetuto come mantra che i piani di emergenza erano una realtà operativa pronta a garantire la sicurezza dei vesuviani. C’è voluto molto tempo e impegno per spiegare dalle nostre pagine che il piano d’emergenza esistente è ancora orfano del piano di evacuazione. Trattandosi di un piano di emergenza che tratta un solo grande pericolo (l’eruzione), con una sola grande risposta operativa (l’evacuazione), in assenza di strumenti pianificatori atti a garantire un ordinato e rapido allontanamento dal vulcano, non possiamo definirci a tutt'oggi tutelati.

Il 2020 può darsi che sarà l’anno della svolta, anche se bisogna annotare che la prima bozza del piano di emergenza Vesuvio risale al 1995. Quest’anno ricorre quindi il venticinquennale del chiacchierato e monco documento…

Per rendere maggiormente intuitivo il discorso, si tenga conto che il comune di Boscoreale pur essendo una delle municipalità maggiormente esposte al pericolo vulcanico, solo qualche giorno fa, il 27 dicembre 2019, ha  definito e approvato l'individuazione delle aree di attesa, anche se manca il piano complessivo entro cui inserire questa informazione e che in ogni caso non è stato pubblicato…

Il Comune di Scafati invece, mentalmente si ritiene fuori dal problema e, nonostante un lungo periodo di transazione con i commissari prefettizi e un finanziamento mirato e approvato nel 2015, non ha ancora un piano di evacuazione quale parte integrante di un serio piano di emergenza che, alla stregua di Boscoreale, non sembra sia stato pubblicato.

Il limitrofo Comune di Pompei pur non avendo ancora realizzato e pubblicato il piano di emergenza corredato da quello di evacuazione a fronte del rischio Vesuvio, è stato scelto come capofila per le politiche internazionali di resilienza ai cambiamenti climatici avviato dalle Nazioni Unite. Nel merito il rappresentate della protezione civile pompeiana, ebbe a dichiarare proprio presso il Dipartimento della Protezione Civile e in seno ad un ampio consesso di esperti e amministratori, che la cittadina mariana aveva problemi per accedere ai finanziamenti regionali necessari per l’aggiornamento del piano di emergenza comunale. Il 25 maggio 2019 anche il Comune di Pompei ha finalmente ricevuto 74.225 euro per procedere con la pianificazione che probabilmente e nella migliore ipotesi oggi sarà in itinere.

Il Dipartimento è ben visto dalla stampa e dall’opinione pubblica in genere, grazie anche alla simpatia che inducono i volontari. In qualche occasione però, i vertici del dicastero si sono tolti la veste buonista e hanno minacciato denunce per procurato allarme indirizzate a chi manifestava opinioni diverse da quelle governative.  È stato questo il caso del Prof. Mastrolorenzo, che dalle pagine del prestigioso National Geographic, ebbe a pubblicare un articolo che segnalava dal suo punto di vista una sottostima dello scenario eruttivo adottato al Vesuvio. 

Anche gli allarmi al radon del tecnico Giuliani che preannunciò un forte sisma all'Aquila nel 2009, fu motivo di denuncia e successivamente di assoluzione soprattutto perché il terremoto si presentò ahimè e per davvero il 6 aprile del 2009, schernendo la commissione e salvando il tecnico da una condanna. 

Il Dipartimento difese a spada tratta le conclusioni della cosiddetta commissione grandi rischi, riunitasi nel capoluogo abruzzese una settimana prima del rovinoso terremoto; un conclave scientifico che profferì conclusioni o micidiali silenzi che non valsero a scongiurare al vice capo dipartimento una condanna penale a due anni per negligenza e imprudenza. 

In termini di previsione dell’evento vulcanico, l’Osservatorio Vesuviano continua a ripetere che nell’area vesuviana e flegrea ci sono imponenti sistemi di sorveglianza che sono una garanzia predittiva. Appare allora strano che con cotanta tecnica lo stesso Osservatorio non fu in grado di assegnare un epicentro al terremoto di Ischia del 21 agosto 2017. In quel caso non bisognava predire ma classificare geograficamente un evento già avvenuto. Occorsero circa quattro giorni per arrivare a una precisa collocazione del fuoco sismico.... Può succedere certo, ma i piani di evacuazione si basano su un preavviso eruttivo di appena tre giorni.

Anche nelle pagine web del Dipartimento alla voce dossier dettaglio ad oggetto il rischio Vesuvio, si registra un refuso di una certa importanza. Questo:

La nuova zona rossa, a differenza di quella individuata nel Piano del 2001, comprende oltre a un’area esposta all’invasione di flussi piroclastici (zona rossa 1) anche un’area soggetta ad elevato rischio di crollo delle coperture degli edifici per l’accumulo di depositi piroclastici (zona rossa 2). La ridefinizione di quest’area ha previsto anche il coinvolgimento di alcuni Comuni che hanno potuto indicare, d’intesa con la Regione, quale parte del proprio territorio far ricadere nella zona da evacuare preventivamente. 


Senza entrare nei dettagli, in realtà la zona rossa 2 alla stregua della zona rossa 1 è totalmente da evacuare in caso di allarme vulcanico. In questo caso i cittadini di San Gennaro Vesuviano, Palma Campania, Poggiomarino e Scafati, dovranno lasciare immediatamente i propri territori e recarsi rispettivamente nelle regioni Umbria, Friuli Venezia Giulia, Marche e Sicilia secondo le modalità previste dai rispettivi piani di evacuazione. 



Nella zona gialla invece, le attuali indicazioni prevedono che nel corso dell’eruzione possa presentarsi la necessità che alcune porzione del territorio poste sottovento al vulcano e sottoposte alla pioggia di cenere e lapilli, precauzionalmente potrebbero essere  temporaneamente evacuate.Modalità per fronteggiare le problematiche della zona blu non sono ancora all'ordine del giorno regionale. 


Il dovere di produrre ogni utile azione capace di favorire il riordino dei territori e quindi di ridurre la vulnerabilità del tessuto abitativo e produttivo del vesuviano, doveva essere un atto di lungimiranza politica dovuta ai posteri. Il problema grosso però, è che i posteri non votano…

Le logiche di prevenzione, come abbiamo avuto più volte modo di scrivere, avrebbero voluto che i territori vulcanici fossero diversamente e urbanisticamente meglio organizzati e meno abitati, evitando così gli errori del passato, perché un’auspicata e lunga quiescenza potrebbe introdurre il pericolo pliniano (VEI5), e quindi una diversa e più estesa perimetrazione della zona rossa sarebbe risultata fondamentale per frenare la spinta antropica residenziale. 

Lo scenario di riferimento adottato per la determinazione della zona rossa invece è sub pliniano con un indice di esplosività vulcanica VEI4. Secondo le indicazioni riportate a supporto di questa tesi nella pagina web del Dipartimento si legge: 
  1. sulla base degli studi statistici, per il Vesuvio risulterebbe più probabile (di poco superiore al 70%) l’evento di minore energia (VEI=3), tuttavia gli esperti hanno ritenuto che lo scenario di riferimento da assumere dovesse essere un’eruzione esplosiva sub-Pliniana con VEI=4 per le seguenti motivazioni:
  2. ha una probabilità condizionata di accadimento piuttosto elevata (di poco inferiore al 30%);
  3. corrisponde ad una scelta ragionevole di “rischio accettabile” considerato che la probabilità che questo evento venga superato da un’eruzione Pliniana con VEI=5 è di solo l'1%;
  4. dati geofisici non rivelano la presenza di una camera magmatica superficiale con volume sufficiente a generare un’eruzione di tipo Pliniano.
In realtà la commissione incaricata di produrre gli scenari eruttivi di riferimento, ha offerto due tabelle da cui evincere statisticamente la probabilità che possa manifestarsi un'eruzione di una certa intensità, in base a due archi di tempo così come riportato nella legenda sottostante che vi invitiamo a vagliare.


Gli esperti non hanno tirato delle conclusioni univoche per la definizione dello scenario eruttivo, altrimenti non avrebbero riportato due possibilità statistiche, ma hanno rimandato al Dipartimento della Protezione Civile la scelta maggiormente garantista per le popolazioni. Sono state indicati dicevamo, indici probabilistici lasciando all'organo dipartimentale la decisione di scegliere l'arco di tempo da adottare, e quindi gli stili eruttivi da fronteggiare: la tabella B è stata ritenuta più adatta con l'1% di possibilità pliniana a differenza della tabella A col suo ragguardevole 11%. 
Dobbiamo quindi concludere che l'incertezza scientifica si è avvalsa delle decisioni politiche, alla stregua del concetto di rischio accettabile che non può essere una valutazione scientifica ma anch'essa squisitamente politica.

Anche il concetto di camera magmatica superficiale con poco magma che è stato chiamato in causa dal gruppo di lavoro per sostenere la scelta dello scenario sub pliniano è fumoso, perché il magma dell’eruzione pliniana del 79 d.C., l’eruzione di Pompei per intenderci, è saltato fuori dalle profondità e non dalle superficialità del sottosuolo.  

Quando nei primi mesi del 2019 ci è stata offerta la possibilità di interloquire con i vertici della Protezione Civile nazionale e regionale ed ancora con la direttrice dell’Osservatorio Vesuviano, abbiamo rimarcato il concetto che forse circoscrivere anche un'area oltre la zona rossa dove applicare nel tempo le regole della prevenzione, sarebbe stata una iniziativa saggia. La letteratura scientifica infatti, afferma che quanto maggiore sarà la quiescenza del Vesuvio, tanto maggiore sarà l’energia dell’eruzione che verrà, e quindi pianificare azioni volte a mitigare la vulnerabilità dei territori, ci sembra e ci sembrava un atto dovuto a quelli che verranno dopo di noi.

La direttrice dell'Osservatorio in quella sede lasciò intendere che non c’era una correlazione tra i tempi di quiescenza e l'intensità eruttiva. In verità rimanemmo interdetti perché il rapporto tra tempo di quiescenza e potenza dell'eruzione ci sembrava addirittura un luogo comune particolarmente diffuso nella letteratura scientifica vulcanologica... Evidentemente non è così.

Ebbene recentemente ci è capitato di leggere un’intervista al prof. Luongo che nel merito degli scenari eruttivi  ha detto ancora di più, cioè che questi non cambiano col passar del tempo, ma si modificano solo con l’avvento di nuove scoperte scientifiche. In altre parole le cose rimangono così come sono e fino a prova contraria. Del resto anche la commissione grandi rischi nel verbale del 27 giugno 2012 auspicava che lo scenario di riferimento venisse rimodellato con l'acquisizione di nuove scoperte scientifiche senza citare alcuna criticità dovuta al passare del tempo. Il problema di fondo però, rimane la coerenza tra interviste, relazioni scientifiche, video, eloqui pubblici e pubblicazioni di servizio e stampa, dove si dice tutto e il contrario di tutto. 

In tutti i casi occorre anche che si capisca che i territori vulcanici devono essere sede di pianificazione della prevenzione delle catastrofi. La scienza non può dopo un certo numero di anni continuare a ridisegnare i confini delle zone rosse perché non si è ritenuto opportuno adottare l'eruzione massima conosciuta come eruzione di riferimento. 
  
Se fosse vero che la protratta quiescenza ci porta verso un’eruzione sempre più energetica, avremmo forse il tempo necessario anche se secolare  per riqualificare i territori vulcanici. Se il tempo non ha nessuna incidenza sull'intensità eruttiva invece, allora bisogna resettare tutte le nostre considerazioni sul pericolo vulcanico, focalizzando gli interventi all’interno della linea nera Gurioli, (vedi figura sottostante), cioè quella linea che definisce i limiti di scorrimento delle colate piroclastiche in seno ad eruzioni non eccedenti l'indice di esplosività vulcanica prescelto che è VEI4.


In realtà ai comuni della vecchia zona rossa, soprattutto quelli costieri, interessa poco la scelta dello scenario eruttivo, perché i loro problemi non cambiano con la potenza eruttiva sub pliniana o pliniana: in entrambi i casi sarebbero coinvolti. Certamente ci sono altre municipalità che non possono ritenersi al sicuro da una pliniana, come ad esempio le tre municipalità di Napoli, oppure Volla o anche Poggiomarino e Scafati e Striano e Saviano. 
Tra l'altro si è anche in presenza di una situazione paradossale dove, in caso di un evento vulcanico VEI 3, cioè il più basso auspicabile, Poggiomarino e Scafati e Striano sarebbero statisticamente quelli più svantaggiati al di là della linea Gurioli.

Riteniamo che il motivo principale che ha caratterizzato la scelta dipartimentale e regionale, di una eruzione di riferimento medio bassa in luogo di quella massima conosciuta, ha avuto probabilmente come riferimento guida la mediazione tutta politica e non dichiarata basata sulla formula dei costi benefici. In linea di principio il concetto potrebbe avere una sua logica anche se poco condivisibile, ma bisogna dichiararlo e chiarirlo, perché è un atto dovuto ai cittadini soprattutto a quelli che vivono ai limiti della zona rossa e che si ritengono mentalmente al sicuro da un'eruzione a prescindere dalla potenza. 

In conclusione vorremmo chiarire che nel campo delle emergenze va da sé che non si può aprire un dibattito nazionale su cosa è meglio fare perché sarebbe dispersivo e inconcludente e non si riuscirebbe a mettere un punto fermo ai discorsi e alle congetture. Però, neanche si può ridurre la questione a un così è se vi pare...  

Il concetto che a fronte di un mastodontico piano di evacuazione tarato su alcuni milioni di abitanti per fronteggiare un evento pliniano che qualcuno si è assunto la responsabilità di minimizzarlo al punto da estinguerlo, potrebbe avere anche motivazioni di ordine territoriale e sociale. Occorre in ogni caso tenere aperti i canali dell'informazione corretta e puntuale, in modo da consentire l'autodeterminazione ai cittadini che in tutta autonomia potrebbero decidere di lasciare questi luoghi per sottrarsi ai rischi. Argomentare darebbe trasparenza a un pericolo naturale tra i più energetici e rischiosi al mondo. In tutti i casi la diatriba sullo scenario scientifico intanto non giustifica il lassismo e il pressapochismo delle amministrazioni coinvolte, che allo stato attuale non sono in grado neanche di fronteggiare un incendio della pineta sul Vesuvio... 

Il Dipartimento della Protezione Civile forse dovrebbe evitare di dare l'idea dei men in black, calando da Roma per raggiungere il vesuviano o il flegreo organizzando e dirigendo magari le esercitazioni per poi ritornare alla base senza neanche la necessità di far scattare la penna anti ricordo, perché il giorno dopo le amministrazioni hanno già dimenticato tutto…

L'Osservatorio Vesuviano destinatario della clausola di riservatezza che è visto con sfavore dall’opinione pubblica informata sull'argomento, è auspicabile che mantenga alto un profilo operativo senza sentire il dovere non contrattuale di puntellare altre strutture dello Stato. Alle Prefetture andrebbe completamente tolta ogni forma di competenza sull'organizzazione e sulla pianificazione dei soccorsi, perché questa struttura periferica dello Stato vive di affanni già sull'oggi con i problemi diuturnamente fuori dalla porta; quindi, è lontana mille miglia dalle tematiche preventive ancorché futuribili dell'eruzione che verrà. 

Ovviamente i Campi Flegrei rientrano interamente nelle logiche complessive che abbiamo appena esposto.