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domenica 28 ottobre 2018

Rischio Vesuvio e comitati scientifici...di MalKo

Il Vesuvio da Napoli 


Il Vesuvio, specialmente nell’ultimo periodo con l’insorgere di alcuni sciami sismici localizzati all’interno dell’apparato vulcanico, ha suscitato attenzione ma solo in quella piccola fetta di popolazione che, in qualche misura, vive la plaga vesuviana con ansia, e quindi, seppur alla lontana, tenta di seguire le problematiche legate al rischio Vesuvio. La grande massa dei vesuviani invece, il pericolo lo intravede più che nella natura, nell’incertezza sociale: nell’area vesuviana non si progetta il futuro e si vive il presente senza badare all’imponderabile…

Eppure non c’è nessuno pronto a giurare che il Vesuvio abbia trovato la sua pace geologica: di conseguenza e fino a prova contraria, prima o poi il vulcano si cimenterà in una eruzione che sarà tanto più violenta quanto maggiore sarà il periodo di quiescenza che l’ha preceduta: su questo gli scienziati sono tutti d’accordo.

Come i terremoti che di tanto in tanto sferzano la catena appenninica, anche le eruzioni sono l’aspetto eclatante e pirotecnico di una Terra dinamica, che, se da un lato produce a volte rilasci di energia molto violenti, d’altra parte è proprio il dinamismo terrestre che ci consente la biodiversità e la nostra stessa esistenza, che dovrà necessariamente svilupparsi tra le pieghe pericolose di un Pianeta in perenne auto rigenerazione…

Per poter pianificare le azioni necessarie per la salvaguardia dei vesuviani in caso di ripresa eruttiva del Vesuvio, è stato necessario procedere innanzitutto alla definizione di uno scenario eruttivo di riferimento, e quindi di una taglia eruttiva da cui far discendere le varie zone pericolose (rossa 1, rossa 2, zona gialla, zona blu).

Le riflessioni e le deduzioni e le scelte operate dal mondo scientifico e istituzionale, confluite nell’assunzione di un’eruzione media da porre a base degli scenari eruttivi futuri, contengono elementi necessariamente di approssimazione nella elaborazione di teorie volte a contabilizzare “l’economia” complessiva di carico e scarico magmatico dalla camera o dalle camere sotterranee, con stadi di deposito intermedi a volte chiamati in causa senza precisazioni di sorta.

Nel 1990 il prof. Franco Barberi nella pubblicazione “Scenari eruttivi del Vesuvio”, stimava un volume di magma tra i 50 e i 100 milioni di metri cubi ubicato a 8 -10 Km. di profondità. La stima fatta nel 1998 dal prof. Roberto Santacroce invece, tocca i 200 milioni di metri cubi di magma insinuatisi, secondo il ricercatore, nella camera magmatica del Vesuvio dopo l’eruzione del 1944.

Nel 2012 Il dott. Giovanni Macedonio e il dott. Marcello Martini, coordinatori del Gruppo di lavoro “A”, hanno stimato in 200 - 800 milioni di metri cubi di magma la massa incandescente presente nel sottosuolo vulcanico.  I due ricercatori vennero incaricati dal Dipartimento della Protezione Civile di produrre una relazione ad oggetto “Scenari eruttivi e livelli di allerta vulcanica per il Vesuvio”.
Nel documento elaborato si accenna alle tomografie sismiche effettuate per carpire i segreti dell’arcinoto monte, dove emergerebbero evidenze che lasciano supporre la presenza di un serbatoio di fusi o fluidi magmatici in una matrice porosa, con dimensioni orizzontali di circa 20 Km per 20 Km, ad una profondità di 8-10 Km. Le dimensioni verticali di questa superficie sotterranea di 400 Kmq. mancano del tutto: probabilmente per difficoltà oggettive dei metodi di prospezione sismica. Su questi aspetti si può solo teorizzare alla lontana quindi, ma senza nessun elemento di attendibilità numerica certificata. Non è da escludere che attraverso muografie dell’apparato vulcanico, si riuscirà nel prossimo futuro, a determinare con buona precisione l’ubicazione e i volumi di magma stipati nel sottosuolo.

Come accennavamo in precedenza, la relazione del Prof. Franco Barberi del Gruppo Nazionale di Vulcanologia (GNV), ebbe a indicare per il Vesuvio, che l’eruzione da introdurre per stabilire gli scenari eruttivi nel breve e medio termine, spaziava da ultra stromboliana tipo 1906 o, nella peggiore delle ipotesi, sub pliniana tipo 1631.

Il Prof. Roberto Santacroce confermò il dato precedentemente indicato dal collega: l’eruzione massima attesa nel breve e medio termine sarebbe stata al massimo una sub pliniana, alla stregua di quella che sconvolse l’area vesuviana nel 1631. Santacroce ebbe pure ad inserire nello scenario complessivo di pericolo la zona blu.

Il gruppo di lavoro “A” invece, formato in larga parte da ricercatori dell’INGV, ebbe ad introdurre il concetto di classificazione delle eruzioni per indice di esplosività vulcanica (VEI), e non per similitudini con eventi del passato che hanno un nome o una data e una loro storia eruttiva caratterizzante.




Il Gruppo di lavoro presentò quindi una relazione, dove sostanzialmente si riconfermava ancora una volta che lo scenario eruttivo massimo atteso di riferimento per i piani d’emergenza, doveva essere di taglia VEI4. In realtà le conclusioni anche in questo caso concordano con l’evento proposto da Barberi, la cui relazione del 90’ ci sembra che rappresenti ancora oggi il solco principale entro cui tutti gli altri ricercatori istituzionalmente consultati si sono mossi.

Nella relazione a sostegno di questa tesi, il maggiore contributo congetturale sembra racchiuso nelle statistiche probabilistiche elaborate dal dott. Marzocchi (INGV). Il ricercatore ha presentato due tabelle, frutto di comparazioni mondiali fra vulcani simili al Vesuvio, che partono entrambe da un limite temporale inferiore fissato su un tempo di quiescenza di 60 anni: la tabella A però, non ha un limite superiore, mentre la tabella B stabilisce un tetto fissato a 200 anni. 

L’ex assessore regionale alla protezione civile, il Prof. Edoardo Cosenza, alla presentazione romana della nuova zona rossa, riferì che nell’odierno la probabilità di un’eruzione pliniana era dello 0,5%. La scelta quindi, era caduta sulla tabella B…


La tabella A si differenzia enormemente dalla tabella B, esclusivamente per la probabilità statistica assegnata all’eruzione pliniana (VEI5): nell’ordine proposto abbiamo una probabilità dell’11%, mentre nel caso della tabella B la percentuale assegnata è dell’1%. Se si fosse adottata la tabella A, il piano nazionale d’emergenza Vesuvio doveva essere, obtorto collo, tarato sull’eruzione massima conosciuta (VEI5) e non su quella massima attesa (VEI4).

Il gruppo di lavoro “A”, ebbe ad addurre le seguenti motivazioni per argomentare l’adozione della tabella B:

1) L’eruzione VEI4 ha una probabilità condizionata di accadimento di poco inferiore al 30%.
2) L’eruzione VEI 4 corrisponde a una ragionevole condizione di rischio accettabile, considerato che l’eruzione pliniana ha un indice probabilistico dell’1% per i prossimi 140 anni.
3) I dati geofisici non rivelano la presenza di una camera magmatica superficiale con volume sufficiente a generare un’eruzione pliniana.
4) Lo scenario VEI4 copre anche lo scenario VEI3 e le problematiche alluvionali.

Il punto 3 ci sembra discutibile, perché il Prof. Raffaele Cioni, membro della commissione grandi rischi, in una sua relazione scientifica ebbe a sancire dallo studio dei cristalli rinvenuti nei reperti petrologici, che l’eruzione pliniana del 79 d.C. attinse magma direttamente dalla camera magmatica ubicata a 8 – 10 chilometri di profondità: per intenderci, quella dei 20 Km per 20 Km, di cui non si conoscono le dimensioni verticali e quindi i contenuti per quanto stimati di magma…

I due ex direttori dell’Osservatorio Vesuviano citati in precedenza, giudicano un rischio accettabile quello di adottare come salvaguardia progettuale una eruzione (VEI4). In realtà si tratta di media ponderata del pericolo vulcanico, dove il peso è statistico, perchè un’analisi del rischio comporta multidisciplinarietà di valutazioni che vanno ben oltre il dato puramente scientifico.

La Commissione Grandi Rischi (CGR), organo scientifico consultivo del dipartimento di protezione civile, presieduto nel 2012 per il rischio vulcanico dal Prof. Vincenzo Morra, dopo aver esaminato le tesi formulate dai vari comitati scientifici, concordò con le conclusioni del gruppo di lavoro “A”: cioè avallò la VEI 4 come taglia dell’eruzione massima di riferimento da adottare per la stesura dei piani d’emergenza.


La CGR non menzionò la statistica della tabella B, ma l’eruzione pliniana (VEI5) non è mai più comparsa nei documenti di pianificazione d’emergenza Vesuvio: in altre parole è stata totalmente obliata dalle carte ma anche dai media…  Per capire se la comunità scientifica ha ponderato bene questa scelta relativa all’eruzione di riferimento, dobbiamo aspettare l’anno 2150
In realtà tutte le disquisizioni ad oggetto la taglia eruttiva dell’eruzione che verrà, interessano poco i vesuviani della zona rossa 1, che in ogni caso e a prescindere dovranno evacuare il settore altamente pericoloso e devono quindi attenersi a regole di prevenzione.

Chi dovrebbe dire ai cittadini che dimorano contiguamente alla zona rossa che un'eruzione pliniana è dieci volte superiore a un'eruzione sub pliniana, e i suoli che oggi bordano la zona rossa e che in tutta fretta vengono consumati dall'edilizia residenziale potrebbero in futuro essere spazzati via? La prevenzione delle catastrofi, che nessuno attua, comporterebbe ampie fasce di rispetto dalla Linea nera Gurioli e una diversa organizzazione del territorio....

La Commissione Grandi Rischi ha tra i suoi compiti anche quello di indicare le misure preventive per difendere le comunità future dai grandi cataclismi; certamente le dimensioni della zona rossa pliniana sono enormi, ma non è detto che attraverso misure strutturali di prevenzione non si riesca a limitare i danni... Intanto chiarire questi aspetti è un dovere delle istituzioni politiche e scientifiche e istituzionali…



domenica 21 ottobre 2018

Rischio Vesuvio:la conventio ad excludendum...di MalKo



Vesuvio da Torre Annunziata

Il Vesuvio è un famosissimo vulcano che per il passato ha dato vita a eruzioni di diversa intensità, anche di tipo esplosivo (pliniana), come quella che nel 79 d.C. devastò e seppellì le città di Pompei, Ercolano, Stabia e Oplontis: oggi siti archeologici d’importanza mondiale.

Quando un vulcano come il Vesuvio produce un’eruzione esplosiva, forma una colonna eruttiva che spara letteralmente in aria una gran quantità di prodotti piroclastici di varie misure, misti a gas e vapori, che possono raggiungere nelle tipologie pliniane anche i 30 Km. di altezza.


Da questa colonna scura e minacciosa che s’innalza nel cielo accompagnata da scariche elettriche, in genere e dopo poco, si staccano masse di prodotti che, ricadendo lungo i fianchi del vulcano, si trasformano in colate piroclastiche: una sorta di valanghe travolgenti, con ammassi che scorrono velocemente con temperature oscillanti tra i 300° e i 600° Celsius.
Alcune simulazioni hanno consentito di stimare in meno di dieci minuti il tempo occorrente a una colata piroclastica per raggiungere sul versante sud occidentale del Vesuvio il mare.

Pericolosissimi sono anche i lahar, cioè colate rapide, in questo caso di fango, che si sviluppano quando l’acqua espulsa dall’eruzione sotto forma di vapore, condensa e si mescola alla cenere vulcanica, scivolando impetuosamente lungo i valloni erosivi che segnano il monte, per poi dilagare a valle con impeto, dando così spazio agli alluvionamenti melmosi.

La terza e non meno pericolosa manifestazione vulcanica, è quella della pioggia di cenere e lapilli, che andrebbe a interessare soprattutto la zona posta sottovento al vulcano, con potenze di deposito inversamente proporzionali alla distanza dal cratere. La cenere, con la sua componente vetrosa, oltre a creare difficoltà alla respirazione e alla circolazione dei veicoli e velivoli, riduce anche la visibilità. Accumulandosi poi in gran quantità sui tetti non spioventi, potrebbe determinare lo sprofondamento dei solai di copertura e a seguire quelli di piano. Inoltre, gli accumuli di prodotti piroclastici nella parte più alta degli edifici, potrebbero rendere i fabbricati maggiormente vulnerabili alle oscillazioni indotte dai terremoti, a causa dell’anomalo sovrappeso in sommità.

Le lave si presentano raramente nelle eruzioni esplosive; in ogni caso non rappresenterebbero un problema per l’incolumità delle persone, ma solo per le case e altri manufatti che si trovano lungo il percorso. Tra l’altro i flussi lavici sono praticamente incontenibili e difficilmente deviabili.

La cartina che vi mostriamo in basso, evidenzia quelle zone vesuviane e provinciali a differente pericolosità, a iniziare da quella più problematica in assoluto: la zona Rossa 1 (R1). Trattasi della prima area concentrica all’apparato vulcanico, che può essere invasa dalle colate piroclastiche, dai surges piroclastici, dalle colate di fango, e inoltre il settore diventerebbe bersaglio di imponenti ricadute di blocchi, bombe e lapilli. 



La zona Rossa 2 (R2) invece, è quella parte del territorio vesuviano ubicata a est del cono vulcanico, dove, per effetto dei venti dominanti spiranti, secondo elementi statistici, prevalentemente in quella direzione, è maggiore il rischio di massiccia ricaduta di cenere e lapilli con tutti i problemi che ne concernerebbero per la sicurezza, la visibilità e la mobilità dei cittadini.

La zona gialla è quella parte piuttosto estesa del territorio esterno alla zona rossa nel suo complessivo, dove in caso di eruzione si concretizzerebbero problematiche da accumulo di cenere in una misura presumibilmente minore rispetto alla zona R2. In ogni caso le conseguenze per la popolazione sarebbero rapportate alla distanza dal centro eruttivo e dalla direzione e intensità del vento in quel momento. Eventuali provvedimenti cautelativi, secondo le strategie adottate dalle autorità competenti, andrebbero assunti durante l’eruzione, dopo che si sia avuta contezza del settore territoriale maggiormente coinvolto dalla pioggia di cenere e lapilli.

Nella foto sottostante, il campo d’aviazione americano di Terzigno durante l’eruzione del Vesuvio del 1944. La pioggia di piroclastiti rese impraticabile l’aeroporto e danneggiò seriamente gli aerei che non ebbero il tempo di decollare.

1944 - Terzigno - Campo di volo americano "bombardato" dal Vesuvio


La zona blu comprende quei territori in zona gialla a nord del Vesuvio, altimetricamente classificabili depressi (conca di Nola), che in seguito all’eruzione potrebbero essere allagati e sommersi da oltre 2 metri d’acqua e fango. Non c’è ancora una chiara strategia operativa a difesa delle popolazioni che dimorano in zona blu, tra Acerra e Nola. L’entità del fenomeno comunque, avrebbe uno stretto rapporto con i depositi di cenere sottili capaci di impermeabilizzare i suoli. Anche in questo caso quindi, la direzione dei venti e l’entità della pioggia di cenere e lapilli condizionerebbe la vulnerabilità di questo settore, purtroppo in scarsa evidenza nei piani d’emergenza.

Un ulteriore elemento di pericolo intrinseco alle eruzioni, è dettato dai terremoti. Infatti, le eruzioni di solito sono precedute da sussulti sismici di tutto rispetto, con scosse e tremori che si manifesterebbero sia nella fase prodromica ma anche in modo piuttosto acuto durante l’eruzione.

La previsione delle eruzioni

Occorre subito dire che non è possibile prevedere sul lungo termine quando ci sarà un’eruzione del Vesuvio. A detta degli esperti, auspicabilmente i segnali geofisici e geochimici che si manifesteranno e anticiperanno l’approssimarsi del fenomeno eruttivo, possono essere immediatamente colti, grazie a una sorveglianza vulcanica diuturna, e potrebbero consentire di formulare, in una chiave probabilistica che andrebbe a perfezionarsi con il passare delle ore, una previsione corta o cortissima del fenomeno, cioè sul breve e brevissimo tempo. Nella fattispecie del discorso, possiamo parlare di ore, giorni e forse settimane.

Il tempo intercorrente tra l’insorgere degli indicatori di variazione dello stato di quiete del vulcano e la ripresa eruttiva, rimane quindi una incognita di fondamentale importanza per la componente tecnico politica deputata alla diramazione dell’allarme, e quindi alla salvaguardia delle popolazioni.

È opportuno precisare che la previsione anche corta come innanzi dicevamo, avrà sempre un taglio probabilistico e mai deterministico, perché la certezza dell’eruzione ci sarà data solo dall’effettiva e tangibile ripresa del fenomeno in tutta la sua virulenza energetica.

In altre parole, il rischio del mancato allarme o del falso allarme sono fattori che non è possibile azzerare in quello che è un ambito disciplinare scientifico (geologia) zeppo di incognite derivanti da un ambiente senza un orizzonte di visibilità, purtuttavia dinamico e in ogni caso inesplorabile direttamente dall’uomo. Le perforazioni hanno raggiunto con grande difficoltà i dieci chilometri di profondità che sono ben poca cosa rispetto a un raggio medio terrestre di 6370 km.

Prima di lanciare l’allarme eruzione quindi, anche alla luce della grande quantità di persone da mobilitare, bisognerà attendere qualcosa di più concreto delle prime avvisaglie di irrequietezza vulcanica, perché talune variazioni potrebbero essere sintomi di ripristino degli equilibri interni dell’apparato vulcanico, magari dettati da semplici sommovimenti o modeste intrusioni magmatiche in profondità.

D’altra parte le filosofie della sicurezza inducono ovviamente a ritenere maggiormente accettabile un falso allarme, anche se il medesimo non è scevro da rischi, perché metterebbe in moto un gran numero di cittadini, in un contesto ambientale fatto di assetti stradali modesti e non congeniali alla movimentazione rapida della popolazione vesuviana. Da questo punto di vista la fascia litoranea che è anche quella ad alta densità abitativa, presenta le maggiori criticità perché la popolazione è stretta tra mare e monte.

Va ricordato inoltre, che la diramazione dell’allarme eruzione non è a cura dell’autorità scientifica ma di quella politica ai massimi livelli (Presidenza del Consiglio).

La zona rossa sancita da un apposito decreto, è rappresentata dall’insieme delle zone R1 e R2 (vedi immagine sottostante): trattasi dell’area di totale evacuazione della popolazione, ma anche dei soccorritori in caso di allarme vulcanico. La differenza sostanziale tra le due zone non sono le modalità di allontanamento preventivo, ma la disomogeneità delle attività di prevenzione delle catastrofi...



 Le strumentazioni di monitoraggio vulcanico

Le strumentazioni ipertecnologiche e super sofisticate di monitoraggio del Vesuvio, gestite dall’Osservatorio Vesuviano (INGV), aiutano nella decifrazione dello stato del vulcano, ma non sono la soluzione dell’incognita previsionale. La tecnologia da terrestre a satellitare, serve ad anticipare la cattura dei sintomi di irrequietezza vulcanica, ma nessun strumento è in grado di dire a che cosa porteranno quelle variazione dei parametri vulcanici così precocemente captati dagli strumenti.

Una strumentazione di alto o altissimo livello infatti, può solo anticipare lo stato di attenzione vulcanica, ma non aiuta ad anticipare la valutazione sulla dichiarazione dello stato di allarme, che sarà un’azione decisionale complessa ma necessariamente tutta umana, presumibilmente frutto di pareri interdisciplinari e di analisi del rischio nella sua complessità.
 
Campi Flegrei - Solfatara - Strumentazioni di monitoraggio


A corredo del discorso, occorre segnalare pure un’ulteriore incognita di non poco conto che ha sparigliato i teoremi della prevenzione delle catastrofi collegate al Vesuvio. Nonostante riteniamo che sia auspicabilmente abbordabile la previsione corta del fenomeno eruttivo, in realtà nessuno è in grado di stabilire dai sintomi captati o anche percepiti direttamente dall’uomo, quale sarà la taglia eruttiva (VEI) dell’eruzione che verrà! Cioè quante energie diromperanno dal sottosuolo vesuviano... Nel caso del Vesuvio, che nella sua storia eruttiva annovera range di manifestazioni energetiche molto diverse fra loro (VEI3, VEI4 e VEI5), definire la portata dell’eruzione prima dell’eruzione è puro azzardo, soprattutto se teniamo presente che la differenza tra i vari indici di esplosività vulcanica è a progressione logaritmica.

La pianificazione d’emergenza ruota prima ancora che sull’eruzione di riferimento sulla poco citata previsione ad excludendum dell’eruzione massima conosciuta, che è una VEI5 (pliniana). Una teoria, quella dell’esclusione, non supportata da premesse deterministiche ma solo probabilistiche su un’analisi molto ridotta di dati disponibili.





sabato 20 ottobre 2018

Rischio Vesuvio: l'eruzione del 1631 terrorizzò Napoli... di MalKo

Eruzione Vesuvio 1631 


L'eruzione che accese il Vesuvio il 16 dicembre del 1631, fu un evento vulcanico sub pliniano. Un fenomeno eruttivo che è stato contemplato come evento massimo di riferimento* che potrebbe presentarsi nel breve medio termine qualora il Vesuvio ponesse fine alla sua gradita quiescenza.  

Certamente quella del 1631 è stata un’eruzione molto distruttiva per la plaga vesuviana. Una catastrofe, che se dovesse piombarci addosso, in quello che è oggi un settore territoriale fortemente antropizzato, le conseguenze sarebbero pesantissime, con effetti dieci volte superiori a quelli riscontrati 387 anni fa…

Le avvisaglie che qualcosa si stava modificando nel ventre del monte si ebbero il 10 dicembre del 1631… Carpendo e assemblando un po' di notizie dagli archivi storici e dalle varie pubblicazioni esistenti su questo evento di spicco, si percepisce il polso della situazione che pervase le popolazioni vesuviane ma anche i napoletani in quei frangenti di assoluto pericolo.

Si legge che la notte del 15 dicembre del 1631, s'udirono nelle vicinanze del Vesuvio più di 30 scoppi simili a quelli procurati dai moschettoni, e ognuno di questi s’accompagnava a terremoti brevi e leggeri.

La mattina di martedì 16 dicembre 1631, l'Arcivescovo di Napoli Francesco Buoncompagno che soggiornava per convalescenza in una villa a Torre del Greco, dopo aver poco dormito per i sussulti litosferici della notte, si ritrovò col fuoco alla radice del monte, praticamente di fronte casa, e decise quindi di lasciare Torre per rientrare frettolosamente a Napoli, anche perché i terremoti incominciavano a incalzare paurosamente. Ad ogni scossa usciva precipitosamente all’aperto, per poi rientrare al cessare dei tremori perché fuori faceva freddo...

L’alto prelato decise di andarsene, ma non per la porta principale che dava proprio su quel temuto fuoco vulcanico che scivolava nella sua direzione, ma dal lato opposto.  Con l'aiuto del seguito che lo assisteva, si fece calare da un muro dalla parte del mare, dove stanziava una feluca con un equipaggio, che né per soldi, né per devozione, volle attraccare per consentirgli l’imbarco. L’Arcivescovo impaurito incominciò a camminare lungo la spiaggia per allontanarsi il più possibile dal fuoco vulcanico, finché non incontrò una barca di pescatori che acconsentì di condurlo a Napoli a forza di remi.

Nella città partenopea, intanto, la fibrillazione del popolo era alle stelle, perché come dicono le cronache del tempo, l’eruzione del Vesuvio fu spaventosa e immediatamente interpretata come un’apocalisse in itinere in danno dei peccatori continuamente minacciati dai terremoti… Tale eruzione tra l’altro, proprio perché fu intesa come un castigo divino, fece riscontrare un gran numero di conversioni religiose soprattutto da parte delle meretrici.

Nella prima mattina del 16 dicembre gli scuotimenti tellurici furono più intensi, e l’aria ancora nitida consentì di vedere sopra il Vesuvio in un crescendo strepitoso, un fumo denso che assumeva la forma di un pino.  Si sentì per due volte un terribile rimbombo seguito da un incremento della nuvola vulcanica lì in cima, con dentro, dicono, globi rumorosi di fuoco cocenti che segnavano la grande furia della montagna.
Occorre aggiungere che il 16 dicembre le ceneri raggiunsero anche la città di Benevento, dove il popolo spaventato passò poi la notte nell'Arcivescovato in preghiera…

Nel vesuviano i morti si contarono a migliaia ad opera delle colate piroclastiche:<<S'hebbe novella che il fiume che serpeva per terra haveva bruciati e huomini, e armenti, e poderi, e case>>.

G. Passeri - Vesuvio: l'eruzione del 1631

Per più giorni la cenere espulsa dal Vesuvio appestò l'aria ed oscurò la luce del giorno, tanto da far scrivere allo scrittore Eliseo Danza <<che uno non vedeva l'altro>>…

Nella città di Napoli lo sgomento fu enorme, dando così spazio a una frenesia religiosa senza precedenti. La gente sciamava per le strade gridando e piangendo accalcandosi nelle piazze, incurante del freddo proprio della stagione e della notte e neanche di un vento di tramontana che soffiava gelido. Ma il popolo non voleva stare nelle case per paura delle continue scosse di terremoto. Così anche quella notte, come per la precedente, per le vie ci furono processioni di uomini e di donne che con calde lacrime tentavano di smorzare quell'ira divina manifestatasi attraverso l’eruzione del Vesuvio. Per tale motivo, quella notte fu di veglia per tutta la città, come il passato giorno… anche se fu un giorno che diventò presto notte per la caligine che calò implacabile.

Il mercoledì mattina si vide verso il vulcano l'aria oscurata e il fuoco più dilatato: crebbe l'orrore, perché quando sorse il Sole sopra l'orizzonte non si vedeva il suo lume, essendo quella gran nuvola immanente e cresciuta di molto, occupare tutto il cielo ed era talmente densa da risultare impenetrabile ai raggi solari.

Piovve cenere su Napoli: erano coperte finestre e balconi, ma anche strade e piazze. Gli strati di cenere ricordavano col loro colorito biancastro la neve, ed emanavano un cattivo odore, e il vento sollevando il materiale cinereo creava un’aria pestilenziale poco adatta alla respirazione. La caligine sprigionava fetori di Zolfo…

Nel pomeriggio incominciò a piovere, e la pioggia, sebbene avesse in buona parte diradato l'oscurità abbattendo la cenere in sospensione nell’aria, produsse colate torrentizie, infangando le strade al punto da renderle impraticabili… Si accrebbe così la paura ma anche i disagi per la gente che non poteva né ripararsi e né prepararsi spiritualmente alla vicina sciagura. L'acqua piovana accelerò la discesa della lava verso il mare: quest’ultimo si ritirò allargando il lido, in modo che le navi quasi restassero in secca. Intanto sull'arena si potevano osservare pesci morti. Nel racconto del Danza si legge: <<fu sì impetuoso un torrente d'acqua, che quel monte buttò a guisa di bitume, e pece, che dopo d'havere disradicati arbori, che il suo corso impedivano, diede nel mare, che si vidde in certa parte essiccato, tanti pesci morti, simbolo del castigo d'Iddio>>.

Quel pomeriggio la terra verso le 16 fu scossa da un violento terremoto così gagliardo e lungo, riferiscono le cronache, che si temeva di soccombere, ma non parve al principio tanto crudele, quanto fu poi benigno in darci qualche tregua>>. Altre scosse telluriche seguitarono per tutta la notte con frequenza tale da sembrare continue e con tale violenza che, temendo la rovina delle case, gran parte delle persone preferirono permanere all'aperto o, nel caso dei nobili, nelle proprie carrozze.

San Gennaro
Sempre mercoledì, l'Arcivescovo decise, nonostante la salute ancora cagionevole e la pioggia battente, visto il contesto di estremo pericolo fisico e spirituale, d'anteporre il pubblico beneficio alla propria salute. Indisposto come stava, s'alzò dal letto e diede ordine alla Città di fare una processione per condurre parimenti la testa e il sangue di S. Gennaro alla chiesa dell'Annunziata. Così fu fatto, e al tramonto, nonostante la pioggia fosse ancora intensa, la processione si snodò regolarmente…

Il padre Ascanio Capece, nella sua lettera scritta il 20 dicembre di quell'anno al fratello Antonio, narra: <<per le strade non si vedono altro che processioni di fedeli che si battono a sangue, ma anche religiosi scalzi con vari strumenti di penitenza, così come molte erano le donne scapigliate. La processione fu un insieme di sospiri e invocazioni e flagelli, pianti a dirotto e in molti gridavano a Dio misericordia e perdono.

Analoghe descrizioni sono fatte sempre dal Danza: molti buoni servi di Dio per le strade, chi con catene al collo, altri con funi, molti con crocifissi nelle mani, altri con pietre pubblicamente ad alta voce infervorati, andavano confortando tutti a chiedere misericordia, e al prepararsi alla morte. Più avanti si vedevano donzelle verginelle molta delle quali scalze, mani giunte, crini distesi e disciolti, che ad alta voce gridavano piangenti e acclamanti: Misericordia Signore! È certo che vi era qualche ragione di sperar bene dalla divina Misericordia; poiché s'è fatta tale commozione da tutta la città, che non so se si sia mai più vista o udita una cosa simile. Per le strade altro non si vedeva, così di giorno come di notte, processioni di Religiosi e di Secolari e delle confraternite tutte scalze, che o si battevano a sangue, o portavano alcune insegne funeste di dolore e pentimento.

Riguardo alle manifestazioni rituali di quei giorni, Giovan Battista Manso scrisse:<< in tutte le chiese è il Santissimo Sacramento esposto, le confessioni e le comunioni son state fatte a tutti finanche alle donne, pubbliche peccatrici. Per tutte le strade sono continue processioni e il Cardinale e il Vice Re uniti ne fecero ieri, giovedì, un'altra anche solennissima con la medesima testa e sangue di San Gennaro a S. Maria di Costantinopoli; i preti gesuiti condussero al Duomo, nello stesso tempo con una sontuosa processione, la reliquia di S. Ignazio... >>.

Il terzo giorno dell'eruzione, cioè giovedì 18 dicembre 1631, la cenere continuò a tal punto ad oscurare la luce del sole che furono necessari dei lumi come se fosse notte. Nel pomeriggio prima il vento e poi la pioggia rischiararono un poco l'aria. Verso sera, causa ancora la pioggia, dallo stesso monte torrenti impetuosi in poco tempo inondarono d'acqua Marigliano e Pomigliano e altre terre vicine. I danni che il profluvio delle acque provocò a Pomigliano e ai casali vicini sono descritti in un avviso del 20 dicembre del 1631: <<Verso la sera si videro venire da Pomigliano d'Arco e da altri casali situati nel piano delle falde di detta Montagna, distanti dal fuoco più di 4 miglia, gli abitanti particolarmente spaventati perché erano riusciti a fatica a scampare alla morte che stava per sopraffarli a causa del pericolo dettato dall’acqua che, scendendo dalla montagna, aveva portato con se tanta di quella cenere da seppellire letteralmente le case più basse mentre di quelle più alte a malapena si scorgevano i tetti>>.

Durante la notte si sentirono nella città deboli terremoti, mentre la mattina seguente si mitigò la tempesta e si diradò alquanto l'oscurità dei giorni precedenti: allora si poteva vedere il disco del sole e le falde della montagna, che in parte consumata verso la cima presentava un'ampia apertura il cui labbro, perché era tutto coperto di cenere, pareva fosse di marmo, simile a quello delle fonti, e da mezzo il monte in luogo di zampilli d'acqua salivano fumi neri di caliginose ceneri. Il sabato e i successivi giorni si videro esalare vapori dal cratere del Vesuvio con molto meno impeto e in minor quantità rispetto ai giorni precedenti, tuttavia il cielo fu sereno solo fino al pomeriggio, durante il quale tornò a turbarsi provocando, come aveva fatto il mercoledì e i giorni seguenti, una fittissima pioggia; ma nel frattempo le scosse di terremoto cominciarono ad attenuarsi fino ad esaurirsi del tutto.

La distruzione dei paesi intorno al Vesuvio provocò un grande esodo verso Napoli: il Danza scrive:<< che le genti degli bruciati paesi fuggite in Napoli, e in necessità ridotte, s'esponevano al pubblico mendicare per aver perduto in sì poche ore quanto nel corso de' tanti, e tanti loro Antenati, avevano acquistato […]>>.

Nel territorio del Regno si cercò di dare almeno la prima assistenza a quelle persone, offrendo loro un luogo in cui ricoverarsi e ristorarsi o inviando provviste nei paesi che ne necessitavano. Per dimora si assegnò ai forestieri, che erano scampati alla furia del vulcano ricoverandosi nella città, le case di S. Gennaro provviste di tutto il necessario.  Furono mandati soldi ai rifugiati che si accamparono a S. Maria dell'Arco, ma quest’ultimi rifiutarono l’offerta perché lì non c’erano viveri da comprare: il Vice Re allora fece acquistare una gran quantità di provviste e li mandò << subito con ogni caritatevole diligenza>>.

Nei giorni successivi al giovedì, diminuito il pericolo, ci s'impegnò a portare in salvo le popolazioni di quei paesi che l'eruzione, provocando enormi danni, aveva isolato da Napoli. Pertanto furono inviate galere e altri vascelli a Torre e altri luoghi convicini per salvar quella gente che non poteva fuggir per terra per scampare dalle fiamme.  Inoltre, le navi servirono anche a:<<mettere buone guardie per difesa delle robe, acciò non fossero rubate, havendo ogn'uno lasciato quanto haveva>>. Furono, anche, mandate molte compagnie addette alla sepoltura dei cadaveri e alla manutenzione delle strade, sia per scongiurare il pericolo di epidemie sia per evitare l’isolamento reciproco di Napoli e le altre città del circondario.

Nella Relatione si racconta:<< venerdì il Vice Re mandò lì 500 guastatori per far seppellire i morti di quei villaggi che sono in gran numero o di fuoco, o di terremoto, o dalla cenere affogati, che poi sono stati trovati tra le medesime ceneri sepolti, de' quali alcuni erano così sfatti che con ogni facilità se ne scendevano a pezzi le membra>>…

Dal poema << Il Vesuvio fiammeggiante>> si ha idea di un allontanamento dallo sterminator Vesevo di fuggitivi segnati e sconsolati che lasciarono le loro case senza nulla da mangiare e con l’anima in pena per aver perduto ad opera delle fiamme vulcaniche, chi il figlio, la moglie e chi la casa che era l’unico bene… Chi si rifugiò ad Aversa, chi a Salerno, ed altri ancora a Castellammare, chi nella nobile Gaeta o a Pozzuoli; altri nuclei di fuggitivi vanno a Sessa, altri ancora a Sorrento, a  Teano, a Caserta, a Benevento. Capua, recitano le cronache, fu la Città maggiormente impietosita dalla catastrofe che aveva colpito quegli sventurati...tra questi una compagnia di soldati spagnoli scalzi e sporchi come se fossero sopravvissuti all'inferno.

Da un documento antico ritrovato e tradotto dal dott. Giovanni Ricciardi dell’Osservatorio Vesuviano si legge: << Di tutti gli incendi del monte Vesuvio che tante volta ha reso la Campania disgraziata, nessuno è stato più funesto di quello del 16 dicembre 1631, compresa quella che ebbe luogo sotto Tito Vespasiano e di cui Plinio il giovane e Dione Cassio fanno una scrupolosa descrizione. Si ebbero allora, difatti due città, Ercolano e Pompei, distrutte per il fuoco; questa volta non sono solamente Torre del Greco e Torre dell'Annunziata, le due città che sorsero dalle ceneri di Ercolano e di Pompei, ma tutti i borghi e villaggi giacenti intorno al Vesuvio che vediamo incendiati e distrutti, quali i villaggi di Trocchia, di Massa, di Pollena, di S. Sebastiano, di S. Anastasio, di Palma, di Bosco, di Resina, di Cremano, questo bruciato per la seconda volta, dei borghi di Somma, di Ottaiano, di Lauro. In quanto al borgo di Marigliano, al villaggio di Saviano e all'antica città di Nola, inondati dalle acque sgorgate di recente dalla montagna, non hanno sofferto molto meno degli altri>>...


° l'evento massimo di riferimento è la taglia eruttiva adottata per poter mettere a punto la pianificazione d'emergenza nell'area vesuviana.