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venerdì 13 settembre 2013

Rischio Vesuvio: il fantomatico piano di evacuazione della zona rossa...di Malko

La valeriana rossa traguarda l'orlo calderico del Mt. Somma dal Vesuvio. Al centro la valle dell'inferno
            
Il fantomatico piano di evacuazione della zona rossa Vesuvio” di MalKo

Il vulcanologo giapponese Prof. Nakada Setsuya dell’Università di Tokyo, ospite ad Ascea nel Cilento, ha dichiarato: " Il Vesuvio prima o poi erutterà perché è un vulcano attivo, anche se non si può prevedere quando. Gli italiani devono discuterne e preparare un piano per gestire la situazione…”.
Il piano d’emergenza Vesuvio come spesso abbiamo avuto modo di sottolineare nei nostri articoli, dovrebbe contenere anche il piano di evacuazione della zona rossa. Nel nostro caso i due piani dovrebbero addirittura fondersi in un tutt’uno perché non ci sono più pericoli da vagliare, ma solo uno (eruzione) che è stato ampiamente analizzato a cura della comunità scientifica che ha individuato nella tipologia sub pliniana, secondo un calcolo storico statistico, l’evento massimo atteso, cioè nel medio termine l’eruzione di riferimento su cui deve essere tarato il piano d’emergenza.
Un’eruzione sub pliniana non è mitigabile o arginabile e contempla varie fenomenologie distruttive come quella micidiale dei flussi piroclastici. In questo caso non c’è ombrello che tenga e l’unica strategia di difesa è quella di non farsi trovare nei territori esposti in caso di eruzione. All’occorrenza, l’evacuazione preventiva della popolazione e degli stessi soccorritori dal settore a rischio è una necessità indifferibile.
I prodromi eruttivi, riferisce il Prof. Nakada, possono manifestarsi e precedere l’eruzione con larghissimo anticipo ma è anche vero il contrario. Il Vesuvio, come i terremoti, in termini di previsione ancora oggi  rappresenta un’insondabile incognita geologica.
Il piano d’emergenza Vesuvio nella parte iniziale contiene il capitolo concernente gli scenari eruttivi e i livelli di allerta vulcanica. Negli scenari sono stati individuati e tracciati e delimitati i territori su cui possono abbattersi gli effetti deleteri dell’eruzione assunta a campione, secondo un livello di pericolosità crescente a partire dal centro eruttivo. Questo ha portato alla definizione di una zona nera (R1) circoscritta dalla Linea Gurioli; una zona rossa 2, una gialla e poi la blu suscettibile tra l’altro a dilaganti fenomeni alluvionali.
Il Dipartimento della Protezione Civile ha la responsabilità della pianificazione nazionale d’emergenza Vesuvio, dovendo garantire per questo documento particolarmente importante e di valenza nazionale, un’opera coordinatrice dei comuni vesuviani, ma anche delle regioni e delle province e delle istituzioni competenti che fanno parte appunto del servizio nazionale.
Nella pianificazione d’emergenza i tecnici dipartimentali hanno definito sulla scorta degli argomenti precedenti (scenari e allerta) le fasi operative, cioè le azioni da compiere all’incalzare dei livelli di allerta vulcanica, secondo un trend al rialzo comprendente una fase di attenzione e poi di preallarme e allarme. L’allarme dovrà essere diramato a cura del Dipartimento della Protezione Civile, secondo le disposizioni governative che dovranno assumersi una buona dose di responsabilità. Una responsabilità che la parte politica dovrà o dovrebbe condividere con la stessa popolazione che ha il diritto di conoscere esattamente il livello di rischio a cui è sottoposta.
Prima di arrivare al massimo livello di allerta, le fasi intermedie già prevedono e forse in modo addirittura soverchiante rispetto alle reali necessità, la composizione e l’insediamento di troppi centri di coordinamento dell’evacuazione e dei soccorsi, compreso la direzione di comando e controllo con la nomina di un commissario governativo ad hoc (DICOMAC).
E’ surreale che a fronte di cotanta organizzazione di emergenza manchi la cosa più importante: il piano di evacuazione. Alla stregua,quella cartina a tema che siamo abituati a vedere affissa dietro le porte degli alberghi, delle cabine delle navi, nei corridoi di scuole, ospedali, teatri, cinema, fabbriche, ecc. 

Una mappa  schematica, che nel nostro caso dovrebbe essere redatta da ogni singolo comune della zona rossa e consegnata agli abitanti. Un vademecum contenente istruzioni e il tracciato rotabile o alternativo (nave?) per raggiungere e allacciarsi ai tronchi principali di mobilità che dovrebbero essere già stati individuati dal dipartimento della protezione civile.
In caso di allarme, oggi si muoverebbero contemporaneamente migliaia e migliaia di autovetture in quello che potrebbe essere definito un esodo modernamente biblico. I motori delle auto stracariche ruggirebbero per impegnare, a cura del capo famiglia, ogni direzioni ritenuta utile in quel momento per uscire dal budello vesuviano. Una corsa che si rivelerà di pura contrapposizione destinata a fallire sul nascere. Sarà un coro di clacson, di gesti, di grida e pianto e scene di panico che accompagneranno alfine una popolazione appiedata.
Ovviamente non è facile mettere mano a un documento che ha nelle premesse il primato di essere il più complesso piano d’evacuazione del Pianeta… In base all’esperienza che abbiamo maturato nell’ambito delle emergenze, abbiamo prospettato anche nelle sedi opportune il nostro punto di vista su come dovrebbe essere concepito questo fantomatico piano di evacuazione. Un piano che, per avere margini di successo, dovrà essere snello, rapido e autoportante. Bisogna rifuggire già nella pianificazione dagli appesantimenti dettati dalla burocrazia e dalle catene di comando con gradi che si vantano e ruoli che si sovrappongono e si pretendono come spesso succede anche nei frangenti più drammatici.
Un margine di successo potrebbe offrirlo e senza alternative valide, solo la rete autostradale e non la viabilità ordinaria assolutamente inadeguata.  Le autostrade a nord e a sud del Vesuvio, dovranno essere aree di prima accoglienza e di attesa per i moduli abitativi provvisori chiamati “autovetture”. Di là da Napoli inibendo l’accesso in entrata ai caselli ubicati sull’A1 Napoli Roma, il tracciato autostradale diverrebbe un’enorme area di ammassamento per i veicoli da incolonnare provenienti dal vesuviano. La stessa cosa andrebbe fatta a sud sull’A3 Salerno Reggio Calabria. In questo modo si avrebbero a disposizione due eccezionali aree di accoglienza veicoli a nord e a sud.
L’autostrada Napoli Salerno per le finalità del piano sarebbe troncata in due all’altezza di Torre del Greco. Ovviamente il normale traffico extra provinciale ed extra regionale transiterebbe su direttrici a est dello Stivale.
Il tracciato autostradale vogliamo appena ricordare che non interseca la viabilità ordinaria: è recintato, non ha incroci, è a circuito obbligato,consente salti di carreggiata, è video sorvegliato ed è normalmente manutenuto. E’ anche meno vulnerabile sismicamente parlando così come in seno ad una corretta pianificazione può essere costellato da servizi di rifornimento, presidi medici, d’assistenza e d’igiene, magari utilizzando corsie del senso opposto, aree di sosta o di servizio o spazi prestabiliti nella pianificazione.
L’uscita dalle due autostrade fuori dal perimetro a rischio sarebbe possibile per le famiglie che possiedono la seconda casa in un luogo in linea con la direzione di marcia e con il casello che s’intende impegnare.
La Caserta Salerno (A30) sarebbe utilizzata come anello di congiungimento per convogliare verso le macro aree di raccolta autostradali le auto dei paesi ubicati a est del Vesuvio o invertire il senso di marcia cardinale per raggiungere la seconda abitazione. L’autostrada ha poi il vantaggio di avere un reticolato chilometrico precisissimo con apposita cartellonistica stradale di progressiva metrica e ponti numerati. Una sorta di griglia stradale che non lascerebbe dubbi o incomprensioni sul dove intervenire, anche utilizzando l’apporto operativo del personale autostradale e dell’Anas particolarmente competente in tema di viabilità, compreso le ditte di soccorso autorizzato provviste di carro attrezzi e radio.

A una certa distanza da Napoli o da Salerno, il traffico poi, sarebbe preincanalato nelle corsie secondo la regione di destinazione attraverso i cartelloni a messaggio variabile che possono anche visualizzare informazioni suppletive agli  automobilisti in transito.
Il Prof. Nakada probabilmente senza uscire dalla cortesia orientale, ha cercato di dire la sua in un modo pacato con una cristallina semplicità. Il Vesuvio è un vulcano attivo, quindi dovrà eruttare, non si sa quando e in che modo. Prepararsi è un ragionevole atto di civiltà che va nella direzione del principio di precauzione e del diritto alla sicurezza.
Mettere a punto un piano d’evacuazione che tuteli il tutelabile in attesa di migliorie che possono provenire sola da una riconversione del territorio nel senso della sicurezza, è un obbligo morale,istituzionale  ma forse anche giuridico per le inadempienze e per la cattiva informazione che fino a oggi è stata fatta e si continua a dare sullo stato del rischio e sugli strumenti di tutela come il piano di evacuazione inesistente eppure pubblicizzato…
Si eviti allora di rilasciare dichiarazioni che vanno nella direzione di assumersi l’onere non contrattuale di rassicurare a tutti i costi, ritenendo unilateralmente giusto che la popolazione non vada allarmata…La sentenza dell’Aquila avrebbe dovuto insegnarci molto, anche a proposito delle rassicurazioni che, se poggiano sul niente, possono portare solo danno.






martedì 3 settembre 2013

Rischio vulcanico Campi Flegrei: il Deep Drilling Project (CFDDP)...di Malko

La spianata di Bagnoli (Campi Flegrei) sede del CFDDP

“Campi Flegrei: quale futuro per il Deep Drilling Project?”
di MalKo

ll famoso Deep Drilling Project dei Campi Flegrei (CFDDP), cioè il progetto di perforazione profonda avviato nel sottosuolo di Bagnoli (NA), è passato un po’ nella sordina mediatica probabilmente perché la trivella ha cessato di ruotare da dicembre 2012, dopo aver raggiunto come da programma quota meno cinquecentodue metri.
Lo scalpello litosferico con tutte le polemiche che hanno accompagnato la prima fase di perforazione del pozzo pilota, dovrà essere latore di ben altre autorizzazioni prima di continuare la sua corsa nelle profondità calderiche del supervulcano flegreo, per raggiungere i circa quattromila metri di profondità.
Il piano di scavo inizialmente pubblicizzava un tornaconto geotermico che sarebbe scaturito dal foro di Bagnoli e dall’acqua calda sottostante. L’insistente propaganda iniziale sull’energia pulita e a basso costo, scemò a seguito delle proteste di alcuni comitati cittadini che vedevano nella geotermia in loco profitti tuttalpiù per le industrie del ramo, ma non per la popolazione a cui toccavano solo i rischi dell’operazione.
La pubblicità allora dirottò sulla previsione delle catastrofi. Il Deep Drilling Project divenne quindi un’opera fondamentale per monitorare con tecniche di previsione l’area vulcanica flegrea, con strumentazioni ad alta tecnologia ubicate sul fondo del pozzo pilota, pronte a cogliere sul nascere qualsiasi indizio foriero di eruzioni, come i sollevamenti, che in verità lì si contano a metri.
La trivella di Bagnoli dovrebbe ripartire al termine della valutazione dei dati fin qui raccolti, per inoltrarsi poi chilometricamente nel cuore calderico del supervulcano, con il fine di scandagliare scientificamente le coltri di materiali e investigare sulla genesi del bradisismo. L’interesse della cittadinanza non è stato catturato da quest’argomentazione, perché gli abitanti non reputano necessario indagare il sottosuolo se questo comporta un pur piccolo rischio ancorché se tali dati già esistono grazie alle numerose prospezioni profonde che si fecero negli anni ’80. L’Agip, infatti, scandagliò il sottosuolo puteolano e quello dei laghi d’Averno e di Licola e le contrade di Mofete e Cigliano, con pozzi come quello di S. Vito, che si spinse fino a 3.038 metri di profondità. Fu anche tentata una sortita nella parte pedemontana del Vesuvio, a Trecase, con una trivellazione da 2.064 metri senza alcun esito produttivo.
L’Osservatorio Vesuviano (INGV) in simbiosi con il comitato CFDDP e il Comune di Napoli, si sono spesi moltissimo nell’ambito di convegni e interviste su quest’iniziativa internazionale, dichiarando in tutte le sedi che il progetto è assolutamente innocuo, soprattutto per il sistema di perforazione provvisto di congegni innovativi che lo rendono  più sicuro di altri.
Il ruolo dell’Osservatorio Vesuviano nell’intera vicenda del Deep Drilling Project ai Campi Flegrei però ci sembra un tantino di parte. Se le operazioni di perforazione profonda in area calderica sono o non sono pericolose, non lo dovrebbe dire chi ha correlazioni con la proposta e il coordinamento e lo sviluppo dell’opera. Altrimenti si corre il rischio, secondo la metafora tutta napoletana, che lo storico ente faccia la parte dell’acquaiolo e l’opinione pubblica quella del cliente a proposito dell’acqua fresca come la neve…>>.
Intanto Il 21 luglio 2013 il Corriere della Sera ha pubblicato un articolo dal titolo: “La perforazione geotermica scatena il terremoto: stop al progetto”. Nel pezzo si racconta di un sisma di 3,6 della scala Richter verificatosi a San Gallo, nella zona del Lago di Costanza in Svizzera. La scossa è stata provocata dai lavori di perforazione per la realizzazione di una centrale geotermica.
Il direttore del cantiere, ha spiegato che era stata scoperta una fuga di gas ad alta pressione nel foro di trivellazione. Per arginare il pericolo era stata pompata acqua e fango nel condotto. L’operazione di pompaggio si era resa necessaria, spiega il dirigente, per evitare guai peggiori. A Basilea un progetto simile era già stato abbandonato nel 2006 sempre per l’innescarsi di scosse sismiche. Il caso svizzero destò apprensioni pure nel governo americano che bloccò per precauzione i progetti di perforazione geotermica della AltaRock Energia sulle colline a nord di San Francisco, per timore che si innescassero terremoti.
Sul giornale online Avvenire invece, nell’articolo datato 12 agosto 2013 si legge: <<All’indomani del terremoto di Modena, l’assessore alle attività produttive dell’Emilia-Romagna ha sospeso l’iter di ogni nuova concessione nei comuni del cratere. «…Non so se le attività di perforazione – ha spiegato Gian Carlo Muzzarelli – possano essere messe in relazione con la sismicità di un’area, saranno gli scienziati a dirmelo, ma fino ad allora si aspetta».. 
<< …Si delibererà solo quando si sarà fatta chiarezza: è un atto di responsabilità verso il territorio e le popolazioni». <<… Usiamo il principio di precauzione e il buon senso: il sottosuolo non è un limone da spremere».
Sono interessanti anche gli articoli pubblicati a proposito del vulcano Lusi in Indonesia, da sette anni in attività. Ubicato a Sidoarjo nella parte orientale dell’isola di Giava, è il più grande vulcano di fango al mondo. Le sue origini sono da ascriversi con tutta probabilità a una trivellazione esplorativa petrolifera.
Uno studio dell’Università di Bonn pubblicato su Nature Geoscience, sostiene la stessa tesi della società responsabile della perforazione, la Lapindo Brantas, cioè che fu il terremoto che occorse a Yogyakarta qualche giorno prima del 29 maggio 2006 a causare l’eruzione.Di tutt’altro avviso la relazione scientifica dell'Università di Durham (Inghilterra), pubblicata sulla rivista Geological Society of America, dove le responsabilità dell’innaturale eruzione si accollano unicamente alla società petrolifera e alle sue pratiche perforative poco accorte.
Sul piano internazionale si è un po’ scettici sulla possibilità che una scossa di terremoto con ipocentro a 280 km. di distanza da Sidoarjopossa aver movimentato il fango in superficie, perché in quella zona altri terremoti ben più forti hanno scosso la litosfera e mai si erano ravvisati indizi di squilibrio nel sottosuolo.
Intanto sono anni che dal profondo del Lusi sgorga fango caldo. Si contano decine di migliaia di sfollati, molti villaggi distrutti e un’economia praticamente in ginocchio.  A sette anni di distanza, l'eruzione di fango bollente è ancora pimpante e non si sa quando terminerà. La terra rigurgita melma fumante che a impulsi risale in superficie appesantendo suoli destinati a sprofondare.
In Italia si è aperta una vera corsa alle perforazioni a caccia dell’oro nero e del metano e dell’acqua calda. Le torri di scavo incominciano a essere malviste dai cittadini e, quindi, comitati locali stanno sorgendo un po’ dappertutto per contrastare questo incalzare di trivelle che potrebbero generare, seppur remotamente, sgradite sorprese sia in mare sia in terra.
In Trinacria una grandinata di autorizzazioni per la trivellazione dei fondali marini nel canale di Sicilia sta suscitando grandi preoccupazioni. Un incidente alla stregua di quello che occorse nel Golfo del Messico nel 2010 sarebbe sufficiente a stroncare per molti anni le risorse più importanti dell’isola, come la pesca e il turismo.
Anche i progetti di perforazione a uso geotermico del vulcano sottomarino Marsili affascinano ma inducono perplessità, perché la faccenda dovrà svilupparsi in alto mare, zona disabitata e, quindi, ritenuta per antonomasia sicura.
Posto nei fondali del Tirreno meridionale, il complesso vulcanico sommerso dista oltre cento chilometri dalla linea di costa più vicina. Un luminare di tutto rispetto avvertì alcuni anni fa del pericolo potenziale derivante dai fragili fianchi del vulcano. Una frana sottomarina, profferì lo scienziato, potrebbe essere all’origine della formazione di un’onda micidiale che si potrebbe infrangere con gravi danni sui litorali esposti. Fu allarmismo a tutto spiano, e si avanzarono costosissime proposte di monitoraggio del silente vulcano, mentre qualcuno vide addirittura nell’allarme scientifico un terribile presagio Maya da fine del mondo ...
La società privata EuroBuilding spa, dovrebbe perforare i fianchi “flaccidi” del vulcano Marsili per prelevare e utilizzare a uso geotermico i fluidi caldi che circolano a profondità utili nei contrafforti dell’edificio vulcanico. La trasformazione del calore in energia avverrebbe direttamente in superficie. Una gran bella cosa… bisognerebbe escludere però, che la trivellazione del monte e la penetrazione meccanica negli acquiferi bollenti, non inducano anche remotamente sollecitazioni indesiderate negli ammassi rocciosi che potrebbero staccarsi in quota con un effetto domino.
Uno dei responsabili del Marsili project, Diego Paltrinieri, ha chiarito che la sicurezza è garantita da tutte le verifiche del caso fatte dai ricercatori dell’INGV. Per questo motivo abbiamo girato la domanda sull’interazione fra trivella e fianchi del vulcano direttamente all’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia che ci ha rimandato a una prossima risposta, che ancora non arriva, a cura del Prof. Giuseppe D’Anna. Aspettiamo…
La geotermia sostanzialmente è un’invenzione italiana e, quindi, si capisce una certa propensione a utilizzare il calore terrestre per produrre energia soprattutto in questa viscerale corsa alle risorse rinnovabili, per compensare quelle fossili che non dureranno in eterno. I Campi Flegrei poi, sono il luogo dove in rapporto alle profondità, le temperature dei fluidi sono molto elevate: il pozzo di S. Vito è quello che ha lasciato registrare valori di 400°C ..
Gli scavi passati, come detto, hanno consentito di cogliere dati sulla stratigrafia che caratterizza la caldera e sulla qualità dei fluidi caldi posti in profondità: quelli bollenti ubicati a tremila metri, si rivelarono ipersalini e antieconomici all’uso.  
Questo primo intoppo sulla natura del prodotto da utilizzare, fu seguito dalla constatazione un po’ tardiva che le superfici interessate al progetto geotermico erano eccessivamente e anche abusivamente antropizzate. I fenomeni sismici e bradisismici che caratterizzano l’area poi, furono ritenuti oggettivamente in contrasto con le esigenze di sicurezza che dovrebbe invece avere una struttura industriale collegata al sottosuolo.
L’energia geotermica bisogna pure sottolinearlo per dovere di cronaca, non è che sia totalmente esente da processi inquinanti, perché le acque calde circolanti nel sottosuolo e risucchiate in superficie, spesso contengono una significativa percentuale di sostanze molto aggressive e tossiche. Tant’è che in molti casi si ripompano dabbasso per non inquinare i terreni e le acque superficiali.  Anche le volute di vapore acqueo rilasciate dalle ciminiere, dovrebbero essere il prodotto finale di un’accurata filtrazione.
Il dirigente dell’ufficio sismico svizzero che ha seguito gli eventi di San Gallo accennati in precedenza, ha detto che non bisogna abbandonare la strada del geotermico, bensì semplicemente evitare attività a ridosso dei centri abitati. Una risposta lapalissiana ma di estrema efficacia. Per consentire il connubio tra urbanizzazione e geotermia, ci sembra di capire che la strada maestra sia per ora quella di accontentarsi di temperature minori a minore profondità, con impianti a basso impatto ambientale gestibili localmente.  
A proposito d’impatto ambientale, registriamo che Il Prof.Mario Dall’Aglio, esperto di geochimica e geotermia, affermò in seno a un convegno organizzato dalla società UGI (Unione Geotermica Italia), che in Italia a proposito degli impianti di produzione o uso delle energie rinnovabili non ci sono serie procedure di valutazione d’impatto ambientale (VIA). Ovviamente gli organizzatori si sono fatti in quattro per dissociarsi…
Che ci siano già state delle perforazioni profonde nell’area flegrea segnano un punto a favore dei sostenitori dell’esperimento internazionale. Qualche pozzo però, l’Agip sembra che lo dovette chiudere precipitosamente, ma potrebbe essere leggenda. I pro e i contro allora, devono essere vagliati molto seriamente dalla commissione grandi rischi (CGR) per un discorso di terzietà sull’argomento.  Quest’organo dovrà essere chiamato in causa da una delle autorità previste dal sistema nazionale della protezione civile. Ad esempio dal Capo Dipartimento Pref. Gabrielli, oppure dal Sindaco De Magistris quale autorità locale, o dal presidente della Regione Campania Stefano Caldoro che ha competenze sulle licenze di scavo, o anche dal Prefetto di Napoli Musolino, se ritiene che la perforazione sia portatrice di allarme sociale.
Il fatto che i promotori del deep drilling project ai Campi Flegrei siano rinomati scienziati internazionali non toglie la sensazione che si sia usata molta disinvoltura sulla scelta del sito tutto urbano da perforare. Lo stesso dicasi della proposta di una centrale geotermica posta nel bel mezzo dei palazzi e dei rioni del quartiere metropolitano napoletano di Bagnoli…