Translate

mercoledì 25 dicembre 2013

Rischio Vesuvio: tema da palazzo di giustizia?...di Malko

Il palazzo di Giustizia di Torre Annunziata col Vesuvio alle spalle

 “Rischio Vesuvio: la soluzione è in un piano giudiziario?”  di MalKo

Il Vesuvio cattura sempre un certo interesse per le possenti energie che racchiude nel grembo litosferico sormontato da una platea di settecentomila persone. I vesuviani in parte sono consapevoli del rischio a cui sono sottoposti  vivendo in zona rossa, ma nella maggioranza dei casi le idee sul vulcano localmente sono molo confuse e tendenti giocoforza a sottostimare quello che realmente potrebbe  accadere se il Vesuvio dovesse porre fine alla sua annosa quiescenza.
Il vulcano oggi sonnecchia… in qualsiasi momento però, anche ora mentre si legge, la terra potrebbe iniziare a tremare sotto i piedi e allora l’angoscia assurgerebbe a sentimento diffuso. La fame di notizie sull’interpretazione da dare al fenomeno sussultorio attanaglierebbe tutti. Corrucciati, si guarderà verso la montagna che non è montagna, sperando che il tremore crostale appena avvertito sia semplicemente un colpo isolato, un assestamento gravitativo, un evento tettonico appenninico, incrociando le dita acchè non sia invece l’inizio della furibonda ascesa della lava in superficie che fratturerebbe e s’insinuerebbe con tempi incerti nelle rocce che la costipano da decenni, per aprirsi roboante un varco in superficie, spazzando via tutto il gravame litoideo sugli inveterati uomini che ne affollano le pendici.
Tutti avrebbero dovuto interiorizzare che il problema Vesuvio è rappresentato dal fatto tutt’altro trascurabile che non è possibile prevedere quando avverrà un’eruzione e di che tipo questa sarà. L’incognita geologica avrebbe dovuto rendere insostenibile la conurbazione che è stata invece perpetrata intorno al vulcano che svetta isolato e accerchiato dai palazzi. Un dato noto, anche se i tentativi di porre di nuovo mano al cemento sono numerosi e solo un personale inconveniente giudiziario ha fermato di recente il sindaco di Sant’Anastasia, capofila di altri comuni pronti alla sommossa in nome di un territorio da sanare con condoni e da mettere in sicurezza non già con la politica degli spazi, ma con nuovo cemento ristoratore che fortifica e munifica pure l’economia zonale. A voler essere veramente sintetici, diremmo che tale cordata voleva o vuole dare spazio alla politica della cicala senza temere alcun inverno vulcanico…
L’edificazione nel vesuviano è stata perpetrata senza scrupoli da amministratori che hanno cavalcato, generalizzando, una scienza a volte disarticolata e servizievole che ben poco ha fatto per frapporsi alla spinta speculativa del cemento. I moniti circa la necessità di prestare maggiore attenzione al rischio Vesuvio arrivano da isolati cattedratici nostrani e soprattutto dall’estero come di recente è avvenuto attraverso le parole del Prof. Nakada Setsuya  dell’Università di Tokyo. 
In nome della pseudo necessità di non allarmare il popolo napoletano, sono state invece rilasciate nel tempo e da più parti troppe dichiarazioni confortanti, come quella sui tempi di previsione di un’eruzione del Vesuvio, “diagnosticabili” addirittura mesi prima dell’evento. Bisognerebbe dare un peso alle parole, che nel nostro caso hanno trasformato un rischio da inaccettabile ad accettabile.
Nelle bozze di piano d’emergenza che si sono susseguite nel corso dell’ultimo ventennio, da una previsione di previsione eruzione ottimisticamente misurata a mesi, si è passati a settimane e poi alle attuali settantadue ore di preavviso che deve essere anche il tempo a disposizione per allontanarsi lestamente dal vesuviano. Dal mondo istituzionale si auspica addirittura che si trovino sistemi e risorse per evacuare in un tempo massimo di ventiquattro ore.
Il rischio di una previsione fallace, infatti, purtroppo esiste e sussiste perché l’indice di attendibilità previsionale di un’eruzione può essere tentata nel momento in cui si presentano i prodromi pre eruttivi, e potrebbe rivelarsi un inaccettabile azzardo in un senso o nell’altro, se la previsione andrebbe a snodarsi su tempi troppo lunghi (settimane).
Che la struttura scientifica dell’Osservatorio Vesuviano possa essere sottoposta a stress decisionale è normale e lo ipotizzammo il 9 ottobre 1999 in seguito ad un evento sismico di 3.6 Richter centrato sul bordo meridionale del Vesuvio. Serpeggiò il panico tra gli abitanti con amministratori comunali esagitati che pretendevano con affanno notizie precise dalla struttura di sorveglianza e dalla Prefettura di Napoli. Nessuno aveva certezze, e proprio l’assenza d’informazioni cristallizzò l’angoscioso momento che si sciolse solo dopo che ritornò una perdurante pace sismica.
Il terremoto del 1999 fu il più forte avvertito in area vesuviana dal 1944 e anche il più istruttivo per chi studia le problematiche legate al piano d’evacuazione e la reazione delle istituzioni tecniche e amministrative nei momenti di crisi. In quei frangenti ricordiamo bene, molte famiglie preferirono intanto cambiare subito aria…
Oggi, un’eventuale anomalia dei valori chimici e fisici del Vesuvio (parametri controllati) sarebbe segnalata con la linea telefonica rossa dall’Osservatorio Vesuviano al Dipartimento della Protezione Civile che convocherebbe la commissione grandi rischi per adottare presumibilmente su indicazioni politiche le decisioni necessarie per affrontare l’emergenza nazionale. Una catena comando non sappiamo quanto veloce, ma sappiamo che lo deve essere se si opta per un margine di ventiquattro ore a disposizione per allontanare inizialmente settecentomila persone dalla zona rossa…
Se i politici e gli amministratori e le istituzioni scientifiche, e non solo quelle, riflettessero sui fatti, concorderebbero nelle conclusioni che la fortuna dei vesuviani è stata fino ad oggi la clemenza geologica e non la lungimiranza di chi per ruolo amministrativo e dovere istituzionale avrebbe dovuto mettere in sicurezza un territorio che potrebbe essere invaso da flussi piroclastici con temperature da forno e velocità da fuoriserie.
I giornali stranieri parlando del Vesuvio lo classificano come una bomba a orologeria. Purtroppo è così, anche se non udiamo il ticchettìo e non vediamo le lancette. Il Vesuvio come tutti i vulcani esplosivi ha un indice di pericolosità zero in fase di quiescenza e quasi cento nel momento dell’eruzione con un picco di pericolosità massima che si raggiunge in concomitanza del collasso della colonna eruttiva.
Le autorità scientifiche chiamate in causa dal dipartimento della protezione civile, hanno ritenuto plausibile e statisticamente possibile il risveglio del vulcano con una tipologia eruttiva massima attesa del tipo sub pliniana, cioè simile a quella che devastò la plaga vesuviana nel 1631. Partendo da quest’assunto, la commissione grandi rischi di recente ha deciso di adottare la demarcazione offerta dalla linea nera Gurioli, per definire i limiti di maggior pericolo (R1) su cui gli amministratori locali e regionali devono focalizzare la loro attenzione preventiva di tutela piuttosto che quella cementizia.
Occorre poi rilevare che, se invece di un’eruzione sub pliniana, il Vesuvio ridestandosi dovesse offrire il meglio di se con una fenomenologia pliniana, il risultato sarebbe una tragedia di proporzioni belliche, favorita in questo caso e strano a dirsi, proprio dall’attuale perimetrazione del pericolo che, di fatto, ne esclude altre.  
Purtroppo non è possibile al momento e ragionevolmente preparare un piano di evacuazione anti pliniana che comprenderebbe l’area metropolitana di Napoli, perno di tutto il problema. Rimanere nel solco di una stima eruttiva sub pliniana allora, bisogna dirlo chiaramente, è stata una scelta non garantista in assoluto, ma certamente obbligata e mediata come tutte le perimetrazioni a rischio che hanno a che fare con problemi naturali in gran parte e come in questo caso ancora imprevedibili.
Alcuni cittadini del vesuviano e il politico radicale Marco Pannella hanno di recente presentato un ricorso alla corte europea dei diritti dell’uomo con sede a Strasburgo, contro lo Stato italiano che non ha messo in atto strumenti adeguati di tutela dei cittadini esposti al rischio vulcanico in zona vesuviana.
In realtà la consapevolezza delle inadempienze istituzionali riguardanti i piani di evacuazione a fronte del rischio Vesuvio dovrebbe essere un argomento già noto almeno alla Procura della Repubblica di Torre Annunziata che nel 2011 ha ricevuto nel merito un esposto in cui si richiamavano a proposito del rischio Vesuvio, alcuni concetti di un qualche interesse come il principio di precauzione oggi particolarmente evocato e diffuso.
Intanto la trasmissione televisiva crash del 5 dicembre 2013, ha mandato in onda su RAI 3 approfondimenti sul rischio Vesuvio. E’ stata sicuramente un programma che ha fornito chiari indizi sulle problematiche che riguardano i piani di evacuazione. Per far emergere le incongruenze però, bisognava spostarsi non già nella sede del mediatico dipartimento della protezione civile o nello studio dell’assessore regionale Prof. Edoardo Cosenza, bensì nei municipi della zona rossa Vesuvio per farsi dire dai sindaci in quali cassetti sono riposti i piani d’evacuazione comunale di cui accenna l’assessore Cosenza nell’intervista televisiva.













domenica 10 novembre 2013

Il Vulcano Stromboli...di Malko

Il vulcano Stromboli
“Il Vulcano Stromboli e l’arcipelago delle Eolie” di MalKo

Quando un po’ di anni fa raggiungemmo l’isola di Stromboli con una motobarca,apprezzammo immediatamente l’odore caratteristico di lava e fiori misti alla salsedine. Ci avvicinammo di poppa alla riva gettando l’ancora a poche decine di metri dai sassolini vulcanici arrotondati dall’onda. Dopo aver filato tutto il cavo a disposizione, l’ancora rimase comunque appennellata, cioè non toccava il fondo. Aggiungemmo altro cavo ma senza successo. Per avere un appiglio dovettimo quasi toccare riva. Alzammo allora il capo seguendo il profilo del monte, che altro non era che la parte più piccola dell’edificio vulcanico che si ergeva dagli abissi marini…
Lo Stromboli ancora oggi viene definito il faro del Mediterraneo. Quest’appellativo la dice già lunga sulla tipologia eruttiva che, pur non essendo particolarmente violenta, presenta una sequenza continua che dura da alcuni millenni, consentendo all’isola l’ingresso nella top 10 dei vulcani più eruttivi del mondo. Il faro naturale praticamente è sempre acceso e fornisce un punto di riferimento ben preciso ai naviganti, che lo cercano dalle plance dei bastimenti nelle notti buie…
Il cono dello Stromboli è uno dei sette apparati che svettano fuor d’acqua nel Tirreno meridionale, ma dobbiamo annoverare anche un bel po’ di fratelli vulcanici dell’arco eoliano, come il Palinuro e il possente Marsili che, pur dominando le profondità marine, non sono riusciti ad emergere mantenendo quindi un ruolo defilato di seamount.
Il Dott. Daniele Andronico, ricercatore dell’INGV di Catania,annovera tra le sue attività istituzionali anche lo studio di questa particolare e spettacolare e panoramica zona insulare, che comprende non solo i vulcani dell’arcipelago delle Eolie, ma anche il maestoso Etna che sarà oggetto di un prossimo articolo dedicato.

Dott. Andronico cos’è l’arco eoliano?
L’arco Eoliano è il risultato della collisione tra la placca Africana e quella Euroasiatica e si trova, in particolare, tra il bacino di retroarco del Mar Tirreno Meridionale e la catena orogenica dell’Arco Calabro. La sismicità registrata in quest’area ci indica che una porzione della placca Africana è in “subduzione” (s’immerge) sotto la placca Euroasiatica, dando origine al vulcanismo delle isole Eolie. Le rocce più antiche di questi apparati sono state datate intorno a 1.3 milioni di anni di età, che viene considerata anche la data di nascita dell’arcipelago, costituito com’è noto, da ben sette isole vulcaniche.

Quali sono le caratteristiche del vulcano Stromboli?
Stromboli è l’isola più settentrionale dell’arcipelago, e la sua porzione subaerea che si eleva fino a un massimo di 924 m in località Vancori, si è iniziata a formare circa 85000 anni fa. Oggi sappiamo, grazie ad accurati rilievi batimetrici, che il vulcano si estende fino a circa 1500-1800 m sotto il livello del mare, formando un cono quasi regolare, con fianchi ripidi e uniformi. La citatissima Sciara del Fuoco, la depressione che nella porzione subaerea dello Stromboli occupa il fianco nord-occidentale dell’isola, continua ancora per parecchie centinaia di metri sotto il livello del mare, fino a confluire in una zona di accumulo. La morfologia di questa porzione del vulcano attesta in qualche modo le cause della sua formazione, legate a ripetuti fenomeni di instabilità e di collasso del fianco vulcanico.
L’isolotto di Strombolicchio che si erge appena dal mare a quasi due chilometri  di distanza dallo Stromboli, rappresenta invece ciò che rimane di un edificio vulcanico più antico (oltre  200000 anni), smantellato nel tempo dagli inarrestabili fenomeni di erosione marina.

Sarà proprio l’attività stromboliana che si manifesta prevalentemente all’interno del cratere, anche in termini di lava, che ha consentito al vulcano di “uscire” dall’acqua senza essere preda dell’erosione marina?
L’attività ordinaria dello Stromboli, osservata fin da epoca romana, consiste in esplosioni stromboliane persistenti, che si susseguono con una frequenza eruttiva oraria che può variare significativamente anche nello stesso giorno, con una media di 5 - 10 esplosioni l’ora, durante le quali vengono emessi ceneri, lapilli e bombe. I prodotti più grossolani possono raggiungere i 200 m di altezza e, ricadendo verso il basso, si accumulano sulla sommità e sui fianchi del vulcano, contribuendo alla sua graduale crescita. Attualmente l’attività eruttiva ordinaria avviene dentro la terrazza craterica (localizzata sulla sommità dell’apparato), dove convenzionalmente sono presenti 3 aree crateriche e alcune bocche eruttive attive contemporaneamente (in genere da 2 a 6). Durante l’attività ordinaria, si possono occasionalmente verificare emissioni di modeste colate laviche che restano confinate dentro la terrazza o al più fuoriescono per alcune decine di metri sull’orlo nord-occidentale del vulcano, riversandosi nella Sciara del Fuoco.
La struttura geologica dello Stromboli, così come la sua storia eruttiva, ci mostra che l’attività ordinaria può essere interrotta da eruzioni prevalentemente effusive, che producono colate laviche dalla sommità o dai fianchi del vulcano. Le lave, cioè i prodotti dell’attività effusiva, sono più resistenti all’azione del mare e riescono a proteggere meglio i versanti vulcanici dall’offesa erosiva. I vulcani costituiti da prodotti più incoerenti dell’attività esplosiva (ceneri, lapilli e bombe) invece, sono maggiormente soggetti all’azione dirompente del mare.
Non va dimenticato, comunque, che durante la sua storia eruttiva lo Stromboli ha prodotto anche eruzioni parossistiche, cioè eventi vulcanici d’intensità e durata maggiore rispetto alle esplosioni stromboliane, capaci di modificare parzialmente o significativamente la morfologia dell’edificio vulcanico.
Negli ultimi anni, ad esempio, abbiamo assistito a due di questi eventi, avvenuti il 5 aprile 2003 e il 15 marzo 2007, in seguito ai quali la terrazza craterica è stata completamente distrutta a causa di collassi craterici. In entrambi i casi, sono stati necessari alcuni anni di attività stromboliana ordinaria affinché si potessero nuovamente formare e distinguere in sommità, dal punto di vista morfologico, aree crateriche, coni di scorie e bocche esplosive.

Al Palinuro sono mancati solo 84 metri per essere un vulcano subaereo…
È vero, ma se alla fine della sua attività eruttiva la parte emersa fosse stata formata solo da prodotti dell’attività esplosiva piuttosto che da colate di lava, probabilmente non avrebbe avuto vita lunga. Basti pensare all’isola Ferdinandea, il vulcano nato e cresciuto tra la fine di giugno e la fine di agosto 1831 nel canale di Sicilia in seguito a un’eruzione sottomarina. Sebbene l’intensa attività esplosiva avesse costruito un cono emerso di ben 60 m, in pochi mesi l’isola, inizialmente contesa tra inglesi, francesi e italiani, scomparve nuovamente sotto il livello del mare a causa dell’azione distruttrice delle correnti marine, tanto da meritarsi in seguito l‘appellativo di “isola che non c’è”. In quel caso, fu soprattutto la mancanza di lava a rendere inconsistente la compattezza dell’isola.

Dott. Andronico, il fatto che lo Stromboli sia permanentemente in eruzione salvaguarda la popolazione da eruzione a maggiori energie?
Non è esattamente vero. Quando si parla dei pericoli per l’esposizione a un vulcano, bisogna innanzitutto rifarsi alla sua storia eruttiva (anche recente) e allo studio dei depositi ad essa associati. Per quanto riguarda lo Stromboli, sappiamo benissimo, senza andare troppo indietro nel tempo, che nel secolo scorso l’attività eruttiva del vulcano è stata caratterizzata da un’eruzione particolarmente energetica. Nel 1930, infatti, lo Stromboli produsse una serie di fenomenologie eruttive devastanti per gli abitanti che in migliaia abbandonarono l’isola per sempre. Basti pensare che oggi, in pieno inverno, a Stromboli vivono circa 350 persone…
Anche negli ultimi anni, gli eventi parossistici più energetici hanno causato direttamente o indirettamente danni rilevanti. Ad esempio, la ricaduta di blocchi di dimensione metrica ha distrutto alcune abitazioni sulle pendici inferiori del vulcano. Eventi di frana lungo la Sciara del Fuoco poi, hanno generato in alcuni casi onde di tsunami che hanno impattato la fascia costiera dell’isola, mentre la caduta di prodotti sufficientemente caldi sui fianchi vegetati del vulcano, ha innescato incendi di una certa gravità che hanno talora minacciato da vicino gli insediamenti abitativi.

L’INGV di Napoli ha a che fare con vulcani più silenti ma molto più pericolosi. La struttura di Catania ha compiti più facili in termini di sorveglianza vulcanica rispetto ai colleghi napoletani?
L’Osservatorio Etneo, Sezione di Catania, ha come compiti istituzionali il monitoraggio sismico e vulcanico di tutta la Sicilia orientale. Ciò vuol dire la sorveglianza di vulcani tanto affascinanti quanto “attivi” come Etna, Stromboli 
L'Etna

e Vulcano, attraverso l’acquisizione di tutta una serie di parametri vulcanologici, geofisici e geochimici, trasmessi da decine di stazioni di monitoraggio. Prendiamo l’Etna, uno dei vulcani più attivi del mondo: negli ultimi 20 anni ha prodotto molto frequentemente eruzioni esplosive di tipo parossistico. Queste eruzioni, per lo più sotto forma di fontane di lava, sono caratterizzate dalla formazione di colonne eruttive la cui porzione sommitale viene poi sospinta dai venti dominanti in quota, causando ricaduta al suolo di ceneri, lapilli e scorie fino a decine di km di distanza dal vulcano. Prima ancora di cadere a terra, tuttavia, queste nubi eruttive possono essere una fonte di grande pericolo per il traffico aereo, perché il materiale vulcanico può danneggiare in maniera irreversibile carlinghe e motori degli aerei, e quindi ridurre la sicurezza dei voli. L’aeroporto di Catania è uno dei più importanti d’Italia in termini di numero di passeggeri e voli; uno dei nostri compiti più critici è proprio quello di avvisare gli enti aeroportuali della possibile presenza di particelle vulcaniche in sospensione nello spazio aereo regionale, oltre che della possibile ricaduta di materiale piroclastico direttamente sulle piste di atterraggio. Le analisi dei segnali acquisiti ci permettono di dare con sufficiente anticipo un’allerta sull’imminenza di un evento parossistico e, attraverso sofisticati modelli numerici che simulano la propagazione delle ceneri vulcaniche, anche lo spazio aereo eventualmente coinvolto e la probabile area di ricaduta al suolo dei materiali trasportati dal vento.
Se si pensa che dal 1998 ad oggi ci sono state oltre 150 fontane di lava, fenomeni all’origine del problema, possiamo ben comprendere quanto sia decisiva l’attività scientifica di sorveglianza e monitoraggio svolta dal nostro personale. L’ultimo episodio di fontana di lava è avvenuto pochi giorni fa, esattamente il 26 ottobre 2013.
Ringraziamo il Dott. Daniele Andronico per averci illustrato in modo semplice ed efficace i processi di formazione delle isole Eolie e dello Stromboli con alcune caratteristiche che differenziano i vari apparati ed altre ancora che lasciano intuire il complicato lavoro di sorveglianza vulcanica effettuato dalla struttura scientifica etnea. I ringraziamenti sono ancora più sentiti, perché la collaborazione giornalistica è avvenuta in un momento di notevoli impegni lavorativi dettati appunto dall’ennesima e attualissima eruzione dell’Etna.
Il Dott. D. Andronico ci ha ricordato inoltre e a proposito dell’Etna, quanto sia importante per la sicurezza del traffico aereo  l’informativa sulla dispersione delle ceneri vulcaniche in quota e al suolo. E’ interessante notare, da questo punto di vista, che il servizio geologico americano (USGS) nella diramazione dei livelli di allerta vulcanica segnala in contemporanea anche il livello di rischio per l’aviazione dettato dalla cenere e dalla polvere dispersa nell’atmosfera. Le due pericolosità infatti, possono non andare di pari passo.

-    Foto di copertina -  Il Cratere Sud di Stromboli in eruzione al tramonto: attività stromboliana dalla bocca centrale, e intensa emissione di gas caldi da una bocca laterale. Immagine scattata a maggio 2013 da D. Andronico

-     Foto pag.4  - Etna 2012 - MalKo

mercoledì 30 ottobre 2013

Rischio Vesuvio: alcuni cittadini ricorrono alla corte di Strasburgo sui diritti dell'uomo...di Malko

L'esercitazione di Protezione Civile denominata Twist. In primo piano il Prefetto Gabrielli

“I rischi Vesuvio e Campi Flegrei approdano alla corte europea di Strasburgo per i diritti dell’uomo …” di MalKo

L’esercitazione di protezione civile denominata Twist, si è svolta a Salerno dove si sono prefigurati scenari calamitosi dovuti a un maremoto provocato da una frana staccatasi dal vulcano sommerso Palinuro. Il momento esercitativo ha consentito al Prefetto Franco Gabrielli di esprimere, e forse per la prima volta in modo chiaro, il suo pensiero e tutta la sua preoccupazione a proposito della minaccia rappresentata non solo dai seamount tirrenici, ma piuttosto dal Vesuvio e dalla caldera Flegrea. <<Manca consapevolezza, afferma il Capo Dipartimento, in zone dove tutti aspettano i piani nazionali tollerando intanto l’inurbazione che rende complicata qualsiasi pianificazione. In questi luoghi si è molto propensi a chiedere e poco propensi a fare…>>.
E’ vero!L’area vesuviana è un coacervo d’interessi e disinteressi. Gli amministratori del vesuviano, generalizzando, non usano o non osano trascrivere nelle loro agende il rischio Vesuvio, che menzionano poco o niente se non nelle manifestazioni pubbliche o in modo strumentale, perché altrimenti diverrebbero immediatamente sgraditi a una certa parte della popolazione.
Non dimentichiamo che i sindaci della zona rossa erano sul piede di guerra alcuni mesi fa, addirittura per valutare insieme a un supervisor regionale, le azioni necessarie per garantire un po’ di cemento “ristoratore” nell’area pericolosa sottoposta a una legge restrittiva (l.rg. 21/2003) in tema di edilizia residenziale. Alcune adunanze sono servite pure per tracciare una linea comune atta ad affrontare il problema dell’abusivismo edilizio, in altre parole dei condoni, di cui si chiedevano valutazioni bonarie almeno fino all’annata del 2003.
La maggior parte dei cittadini vesuviani invece, vorrebbero semplicemente avere la certezza che, se dovessero presentarsi segnali di pericolo da quel cono vulcanico così vicino, una qualche pianificazione di emergenza, che non osano pensare che non esista, consentirà di portare in salvo innanzitutto i loro figli.
La solerzia delle municipalità sui doveri d’ufficio che riguardano la vigilanza sull’edilizia abusiva, sulla valutazione dei condoni e degli abbattimenti, sono misurate anche sulla base dell’efficienza delle forze dell’ordine che operano in loco e che dovrebbero assicurare il controllo del territorio. C’è disinteresse… Eppure parliamo di un rischio che ha connotazioni mondiali di allarme. Bisogna anche dire però, che mancano buoni esempi legislativi, poiché ancora adesso costruiscono in zona rossa con i soldi pubblici (legge 219/81- terremoto '80), con tanto di cartello autorizzativo dell’ufficio tecnico comunale affisso sul cemento ancora fresco. Il pericolo c’è o non c’è?
Le forze dell’ordine sono immerse in questo agone di contraddizioni perché non hanno una preparazione professionale sul rischio vulcanico e sull’analisi del territorio per esercitare un ruolo proficuo di attenti osservatori non neutrali. Che cosa sia realmente un vulcano esplosivo, con le sue colate piroclastiche e la caduta di bombe e cenere vulcanica, lo percepiscono, generalizzando, solo attraverso aneddoti e discorsi correnti e spesso inesatti captati qua e là in giro per il paese, facendosi parte diligente solo su input delle procure e mai per motu proprio. Anche il cosiddetto abuso di necessità andava fermato sul nascere, senza tentennamenti, in modo da non farlo diventare un fenomeno dai numeri inapprocciabili e di difficile risoluzione. Si tenga presente che non c’è uomo o sanatoria o legge dello Stato, che possa, attraverso atti amministrativi, condonare il pericolo che incombe sulla plaga vesuviana.
Per sradicare il fenomeno dell’abusivismo edilizio basta visionare ogni quindici giorni qualche filmato effettuato da un drone o una fotografia satellitare comparandola con le precedenti. Se la procedura è troppo “moderna”, allora bisogna seguire i camion che trasportano calcestruzzo o terra appena sterrata. Oppure bussare alla porta di quello che ha improvvisamente innalzato lamiere o teli intorno al suo podere nascondendosi alla vista.
A volerla dire tutta, un vigile urbano là dove c’è dovere, volontà politica e istituzionale, con un semplice motorino poteva e può tenere sotto controllo tutto il territorio di pertinenza…
L’area vesuviana allora è un cane che si morde la coda. Non c’è via d’uscita. Anche il Dipartimento della Protezione Civile che da Salerno con le parole del prefetto Gabrielli si lancia in un j’accuse più che condivisibile contro l’inerzia dei vesuviani, ha forse qualche pecca nel dipartimentale curriculum, passato e recente, in termini di modus operandi. Non sono, infatti, lontanissimi i tempi in cui si reclamizzavano in molte trasmissioni televisive e sui giornali i piani di emergenza Vesuvio come strumento di tutela invidiatici nientemeno che dal mondo intero… così dicevano, dimenticando o forse ignorando, che senza piano d’evacuazione quello d’emergenza è carta straccia. Bisognava dire a chiare lettere poi, e già un bel po’ di tempo fa, che non c’è un’organizzazione o una pianificazione adeguata per la tutela della popolazione vesuviana, e, quindi, chi s’insedia nella zona rossa lecitamente o abusivamente, lo fa a suo rischio e pericolo. Avremmo così almeno assicurato il diritto all’informazione che è il primo anello della prevenzione. Certo, di rimando occorreva poi spiegare venti anni di commissioni e sottocommissioni per il ciarliero piano annunciato  e mai materializzato e mai uscito dai cassetti...ma questa è un’altra storia che pure un giorno dovrà essere raccontata, perché i protagonisti con qualche giravolta sono sempre gli stessi. Per non parlare delle esercitazioni di protezione civile che sono state fatte calandole letteralmente dall’alto con un indice di difficoltà inferiore alla gita scolastica; oppure assegnando enfasi di esagerata importanza a eventi come la Mesimex (Major Emergency Simulation Exercise), che in realtà non ha cambiato o migliorato il mondo del rischio vulcanico e neanche quello delle emergenze in genere.
E ancora il Dipartimento avrà pure qualche responsabilità nella recente rivisitazione dei nuovi confini della zona rossa, che in realtà hanno peggiorato la classificazione del territorio, con zone nere a distruzione totale che terminano a un passo da dove è possibile fabbricare con licenza edilizia, con norme che valgono per un comune ma non per l’altro. Una vera mestizia resa possibile da un escamotage forse della Regione Campania, chissà, che si è inventata la zona rossa ad andamento variabile.
In questo bailamme, state pur certi che alcuni dei vecchi diciotto comuni della vecchia classificazione esclusi dalle provvidenziali postille contenute nei nuovi scenari, si faranno sentire a colpi di ricorsi amministrativi, specialmente le municipalità di Boscoreale, Pompei, Torre Annunziata, Somma Vesuviana e Sant’Anastasia, su cui è stata fatta una disparità di trattamento a proposito dei territori da classificare in zona gialla di là della linea Gurioli.
Su tutto emerge il dato che lascia veramente perplessi, che è quello della misura percettiva molto ottimistica del rischio Vesuvio da parte della gente, che invece di inalberarsi pretendendo uno straccio di piano d’evacuazione che ancora non c’è, asseconda l’andazzo omissivo premiando gli amministratori che tacciono sul pericolo, come se bastasse il silenzio per esorcizzarlo…
Dodici cittadini della zona rossa Vesuvio guidati da Rodolfo Viviani dell’associazione radicale per la grande Napoli, hanno presentato alla corte europea di Strasburgo una denuncia contro lo Stato italiano che non assicura la tutela dei cittadini esposti al rischio eruzione con appositi ed efficienti piani d’evacuazione. Il rappresentante dei verdi ecologisti Francesco Emilio Borrelli ha parimenti presentato analoga denuncia per la zona dei Campi Flegrei, sede delle supereruzioni e del deep drilling project. Sarà interessante il trattamento che la corte di Strasburgo riserverà alle denunce italiane, soprattutto in capo al soggetto su cui affibbiare la responsabilità di tali inadempienze.
Anche la stampa dovrebbe informarsi di più su questi rischi che mantengono sulla graticola migliaia e migliaia di persone, valutando attentamente ciò che succede nelle interazioni tra politica e mondo scientifico e mondo istituzionale.
Anche noi abbiamo provato a denunciare alle istituzioni competenti, e non solo dalle pagine del giornale, il grave rischio che corrono gli abitanti della zona rossa Vesuvio per l’assenza di un piano di evacuazione: non è mai arrivata alcuna risposta. Allora decidemmo di presentare una denuncia alla Procura della Repubblica di Torre Annunziata che ha ricevuto l’atto il 14 settembre del 2011. Siamo in attesa di sviluppi… Ovviamente ogni strada è utile e da percorrere senza indugio se serve a raggiungere l’ambito risultato di una maggiore tutela della vita umana all’ombra del Vesuvio.

domenica 20 ottobre 2013

Il vulcano Palinuro: lo tsunami e l'esercitazione TWIST...di Malko


Lo stretto di Messina

“Il Vulcano sommerso Palinuro origina uno Tsunami nel Tirreno: è solo un’esercitazione, la TWIST… ” di MalKo

Alcuni senatori del Movimento a Cinque Stelle (M5S), hanno predisposto un’interrogazione parlamentare che mette in discussione la scelta della città di Salerno come centro dell’esercitazione internazionale denominata TWIST, in cui si simula la formazione di un maremoto generato da una frana staccatasi dal vulcano sommerso Palinuro, con onde che s’infrangono sul litorale cittadino e provinciale salernitano.
A detta dei rappresentanti stellati, la manifestazione avrebbe avuto risvolti più realistici se si fosse tenuta nella zona dello stretto di Messina (foto d'apertura). L’assessore alla protezione civile del comune di Salerno, De Pascale, si è meravigliato dell’appunto parlamentare incolpando i grillini di inesattezza e di incoerenza  con qualche spunto polemico anche sull’energia geotermica associata al vulcanoMarsili.
Le onde di Tsunami si formano generalmente per effetto di un terremoto, di una frana o di un’eruzione vulcanica. Pure la caduta in mare di un asteroide potrebbe formare onde altissime, in questo caso e con un pizzico di fantasia, potremmo accostare il rischio proveniente dal cosmo a una sorta di frana dalla massa non preventivabile, che piomba da altezze impensabili a velocità di alcune migliaia di metri al secondo fiondandosi nel mare. Se ciò avvenisse, le conseguenze ovviamente sarebbero apocalittiche…
“Fortunatamente” la maggior parte degli tsunami sono associati in genere a violenti terremoti, come quello che avvenne in mare a Creta il 21 luglio del 365. La scossa sismica che superò l’ottavo grado della scala Richter, generò uno tsunami che flagellò Alessandria d’Egitto, Cipro, la Palestina, la Tunisia, la Cirenaica, ma anche la Sicilia e la Calabria con onde che superarono i dieci metri d’altezza.
I maremoti più violenti che si sono avuti in Italia afferiscono a due eventi sismici tra i massimi registrati nella nostra Penisola, con magnitudo superiore al settimo grado Richter, come quello potentissimo dell’11 gennaio del 1693 che flagellò la Sicilia orientale (Val di Noto). La cronaca cita crolli,rovine e onde di dieci metri che spazzarono la costa.  Ancora più tragico per il numero altissimo di vittime fu il terremoto del 28 dicembre 1908 localizzato sempre in Sicilia nello stretto di Messina. Alle case che crollarono, si dovettero aggiungere i danni provocati dalle onde di maremoto che, come quelle sismiche, investirono anche la città di Reggio Calabria, disastrandola in quella che sarà ricordata come la maggiore calamità europea del ventesimo secolo.
Il terremoto di Lisbona nel 1755 cagionò sommovimenti che in questo caso superarono l’ottavo grado della scala Richter. Subito dopo il sisma si ebbe un ritiro delle acque seguito da un possente maremoto che invase il tessuto litoraneo cittadino aggravando una situazione già notevolmente drammatica. Le onde si propagarono pure nell’Atlantico raggiungendo i Caraibi e altre isole ubicate a circa cinquemila chilometri di distanza dalla capitale europea.
Il primo aprile del 1946 un terremoto verificatosi nei pressi dell’arcipelago delle Auletine formò uno tsunami che dopo quasi cinque ore si riversò sulle Hawaii con onde alte che inflissero alla città di Hilo pesanti danni.  L’intensità del sisma non fu particolarmente violenta. Da qui il dubbio che non fu solo il terremoto a smuovere le acque…
Nel dicembre del 2004 un fortissimo terremoto sconquassò i fondali di Sumatra generando uno tsunami che sferzò l’isola in modo particolarmente violento colpendo anche a distanza e nel giro di due ore lo Sri Lanka e la Thailandia e altri luoghi lontani ma esposti radialmente al fenomeno con gravissime perdite di vite umane.
Tsunami si sono verificati pure recentemente in Giappone nel 2011. Le immagini fornite dai media con l’irrefrenabile ingressione del mare nell’entroterra furono veramente angoscianti. In quel caso fu allarme all’allarme con la fuga di elementi radioattivi dalla centrale nucleare di Fukushima che presentò grossi problemi a uno dei reattori. I sistemi elettrici di emergenza tarati per un’onda anomala di sei metri, furono sommersi dalle acque che raggiunsero invece i quattordici metri di altezza. Bisogna anche dire che quello di Tohoku è stato il più forte sisma mai registrato nella terra del Sol levante con una magnitudo nove della scala Richter.
Le frane, anche quelle sottomarine, sono probabilmente al secondo posto come eventi capaci di produrre tsunami. Tra questi si annoverano alcuni importanti fenomeni come quello di Terranova nel 1929 e quello che occorse nel Golfo d’Alaska nel 1958. Nel mese di dicembre 2002 una frana inizialmente sub marina e poi aerea si staccò dal vulcano Stromboli, nel nostro Tirreno, generando un’onda anomala che cagionò danni solo sui vicini litorali fortunatamente quasi deserti.
Alle eruzioni vulcaniche sottomarine e marine, si addebitano maremoti importanti come quello che seguì la famosa esplosione del vulcano Krakatoa in Indonesia nel 1883, riportata negli annali come tra le più potenti eruzioni mai verificatasi sul Pianeta.
In quel caso pare che ci siano state una serie di concause a generare un treno di onde di maremoto: un’esplosione dovuta all’acqua di mare entrata nella camera magmatica, i flussi piroclastici che si staccarono copiosi dal vulcano e molto probabilmente e come causa predominante il collasso e lo sprofondamento dell’apparato vulcanico che si sbriciolò. Per avere un’idea del fenomeno tsunami che si ebbe col Krakatoa nella sua dirompenza massima, si cita sovente una nave da guerra che fu presa dalle onde e deposta a più di due chilometri all’interno della giungla.
Alla stregua del Krakatoa bisogna citare la più remota eruzione di Thera (Santorini) verificatasi nel 1650 a.C. in Grecia. Pare che questa sia stata l’eruzione più potente in assoluto almeno negli ultimi diecimila anni, che causò anche uno tsunami che è indicato come fattore predominante della forse leggendaria e rovinosa caduta di Atlantide. Di sicuro le onde spazzarono violentemente l’isola di Creta e con essa la civiltà minoica che si dissolse probabilmente anche per i frequenti terremoti che flagellavano l’area. Da questa eruzione comunque, si formarono onde di maremoto che raggiunsero pure l’Italia nel settore rivolto a est. Il distretto di Santorini e dintorni è ancora oggi da tenere sotto strettissima osservazione…
L’ultimo grande maremoto generatosi nel Mediterraneo orientale per effetto di un forte sisma (8° Richter), fu quello che si sviluppò nei pressi dell’isola di Rodi l’8 agosto 1303.  
Le conclusioni che possiamo trarre vanno nella direzione che anche il mare nostrum può essere interessato da onde di maremoto, anche se l’oceano Pacifico rimane il luogo preferenziale di formazione di questo spettacolare e micidiale fenomeno che acquista vigore dalle profondità marina.
Nel Mediterraneo le sorgenti che possono generare maremoti sono abbastanza vicine alla costa. Quindi, sensori di allarme o altri sistemi tecnologicamente all’avanguardia che in altri luoghi si rivelano molto utili per la salvaguardia delle collettività rivierasche, da noi devono fare i conti con tempi troppo stretti per essere di una certa efficacia protettiva per le popolazioni costiere. Questo significa che bisogna lavorare intanto sulla prevenzione evitando di costruire strutture particolarmente importanti in prossimità dei litorali esposti. La centrale di Fukushima ad esempio, forse andava edificata nell’entroterra.
Le scogliere o altre barriere possono se non difendere almeno mitigare gli effetti delle onde di tsunami,soprattutto per i punti più vulnerabili della costa. Le case in cemento armato resistono meglio al passaggio dell’acqua, così come sui litorali indifesi risulta provvidenziale non costruire al piano terra.
Generalmente il ritiro improvviso ed esteso delle acque (anche il contrario) dal bagnasciuga potrebbe essere un indicatore di rischio, mentre la notizia di forti scosse di terremoto localizzate in mare, dovrebbe indurre la popolazione esposta a prestare attenzione ad eventuali comunicati radio di allarme.
La possibilità di sfruttare l’energia geotermica dai fluidi caldi che circolano nel vulcano sottomarino Marsili è un bel progetto. L’utilizzo della geotermia in mare aperto potrebbe mitigare i pericoli derivanti dal riporto in superficie di sostanze non proprio innocue contenute nelle acque minerali calde, anche se il processo necessita di una valutazione d’impatto ambientale. 
Il problema del Marsili nella faccenda del geotermico e dei tsunami, sono i costoni instabili e scoscesi del vulcano sommerso, soggetti alla permanente forza di gravità. Un loro distacco per motivi naturali o artificiali potrebbe generare una frana dagli esiti incerti a proposito della formazione di un maremoto. Per avere un quadro ineccepibile sui livelli di rischio legati al deepwater drilling, abbiamo formulato un preciso quesito all’INGV nel mese di agosto. Siamo in attesa di una risposta che quando arriverà pubblicheremo.
Per quanto riguarda la scelta di Salerno come luogo dove si svolgerà tra pochi giorni l’esercitazione di protezione civile TWIST (Tidal Wave in southern Thyrrenian sea), la statistica degli eventi depone a sfavore della panoramica città. E’ la Sicilia ad essere soggetta particolarmente al rischio maremoto. Basta vedere la cartina in basso che abbiamo introdotto nell’articolo per lasciare intuire anche visivamente che la Trinacria è esposta ai possenti fenomeni dell’arco ellenico, sede di grande instabilità geologica, a quelli dell’arco calabro ed ancora  a quelli dell’arco eolico, comprensivo appunto dei vulcani Marsili, Palinuro,ecc…

Lo stretto di Messina poi, rappresenta certamente una strettoia geografica dove le eventuali onde di maremoto provenienti non solo da est, potrebbero aumentare la loro altezza.
La campagna informativa “Maremoto: io non rischio!” che precede il momento esercitativo, avrebbe avuto quindi una maggiore enfasi se si fosse svolta nella località italiana maggiormente e realmente sferzata da questo fenomeno nel passato, cioè la Sicilia orientale con le città di Catania, Messina, Augusta e Siracusa. Fermo restante che anche nel Tirreno meridionale il rischio maremoto comunque sussiste, anche se non ci sembra immediatamente evincibile dalla letteratura scientifica una storia pregressa di onde particolarmente alte e invadenti.Il futuro però, e lo riconosciamo, è sempre un'incognita anche geologicamente parlando...
Probabilmente la città di Salerno è stata indicata centro dell’esercitazione per sopperire a esigenze di varia natura che poco hanno a che fare con gli scenari tsunamici. Alla stregua del centro direzione e comando (DICOMAC) che sarà installato sulla litoranea (stadio Arechi) a pochi passi dal mare. Una decisione, si legge nel depliant, condizionata dalle esigenze esercitative. Quindi, la scelta delle tende pneumatiche è solo un caso…

martedì 8 ottobre 2013

Il Vulcano Palinuro:...di Malko




Uno scorcio di Capo Palinuro. 
"Il vulcano Palinuro" di MalKo
Il vulcano Palinuro è immerso nelle profondità tirreniche a circa cento chilometri dalla costa cilentana (Salerno), ergendosi abbastanza da poter essere raggiunto da un provetto subacqueo o da una lenza da pesca lunga una ottantina di metri. Quasi tutto il naviglio che naviga verso le isole Eolie o la Sicilia, passa sopra o vicino al misterioso monte sottomarino, senza nessun tremito per i viaggiatori che in gran parte non sanno che su quei fondali si contano un discreto numero di  bocche eruttive.
Sul finire di ottobre 2013, a Salerno e nel salernitano ci sarà un’esercitazione di protezione civile cofinanziata dalla comunità europea. Lo scenario operativo simulerà un’onda di maremoto generata da una frana sottomarina staccatasi dai versanti del vulcano Palinuro. Il Dipartimento della Protezione Civile ha scelto quest’apparato tra quelli giacenti nelle profondità tirreniche, perché dice, è quello più vicino alla costa. Non dovrebbe essere però,  quello a maggior rischio frane, atteso che, da questo punto di vista, secondo autorevoli scienziati è  il Marsili a fare storia. Infatti, qualche anno fa questo gigante degli abissi fu additato come potenziale flagellatore del Mediterraneo, per i suoi fianchi rocciosi flaccidi e in bilico, pronti a generare Tsunami terrificanti…
Certamente la storia dei maremoti nel Mediterraneo non è particolarmente ricca di eventi. Alcuni importanti fenomeni comunque ci sono stati e anche catastrofici, come lo tsunami che si formò in seguito all’eruzione e al collasso calderico dell’isola di Santorini, circa 3600 anni fa. Da notare che quasi in quel periodo avvenne anche la terribile e potentissima eruzione del Vesuvio chiamata pliniana di Avellino. Altri maremoti si ebbero col terremoto di Creta del 21 luglio dell’anno 365. In questo caso le onde di nove metri di altezza flagellarono il litorale greco, quello libico e la città di Alessandria  d’Egitto, dove lo storico Marcellino Ammiano annotò l’evento. Anche la linea di costa italiana rivolta a Creta fu investita dalle onde di maremoto, che impiegarono poco più di un’ora per infrangersi sui litorali orientali della Sicilia e della Calabria ionica..
Nel 1908 furono i sommovimenti del terremoto di Messina a formare onde di maremoto dirompenti che si schiantarono sulle coste calabre e sicule non senza danno. Nel dicembre del 2002 un’onda anomala fu generata da una frana staccatasi dai versanti emersi e sommersi dello Stromboli, con danni limitati ma forse un po’ ingigantiti dai media e dalla loro necessità di cronaca.
Il Prof. Girolamo Milano geofisico dell’Osservatorio Vesuviano – INGV, ha partecipato a due campagne oceanografiche nel 2007 e 2010 che hanno consentito di conoscere meglio il vulcano Palinuro che, come accennato in precedenza, sarà appunto il protagonista dell’esercitazione TWIST (Tidal Wave in southern Thyrrenian sea).

Nel merito del vulcano che ha assunto il nome del nocchiero di Enea che lì si perse tra i flutti, il Prof. Milano intervistato sull’argomento, ci ha gentilmente fornito interessanti notizie che squarciano un po’ il velo su questi apparati montuosi sommersi :<<  Il Palinuro è ubicato tra il bacino del Marsili a Sud, la catena appenninica ad Est ed il bacino sedimentario del Golfo di Salerno a Nord. Quest’ultima è l’unica zona del Tirreno Sud orientale a non essere affetta da vulcanismo. La genesi del Palinuro non è ancora chiara se la si confronta con quella del vicinissimo e più noto vulcano Marsili. Tuttavia, si ipotizza che il complesso vulcanico si sia impostato su una struttura profonda che si estende in direzione Est-Ovest la cui cinematica è compatibile con quella di una faglia trascorrente>>.
Professore, da quando e cosa si conosce di questo vulcano sottomarino?
Le prime campagne oceanografiche furono effettuate negli anni ’70. Il più recente modello digitale del fondo marino ad alta risoluzione, ottenuto dai dati acquisiti nel 2007, mostra che il Palinuro risale dai 3000 metri di profondità  fino a 84 metri dal livello medio del mare. La sua forma è approssimabile ad una ellisse la cui estensione massima raggiunge i 55 km. in direzione Est-Ovest. La parte sommitale del complesso vulcanico è costituita dalla sovrapposizione di edifici con tipiche forme coniche e tronco-coniche e da ampie depressioni attribuibili a collassi gravitativi. La parte Sud è caratterizzata invece, da pendii abbastanza ripidi, mentre la parte Nord mostra pareti  meno acclivi.
Il settore centrale è quello meno profondo del complesso vulcanico. I dati batimorfologici ben evidenziano i due coni vulcanici più significativi del Palinuro. Le sommità di questi coni, piatte e di forma circolare con diametri di circa 750 e 2500 metri, sono a 175 e 84 metri sotto il livello medio mare.
Nel margine orientale sono ben visibili altri coni vulcanici. Il più significativo di questi è localizzato a circa 570 metri di profondità ed è caratterizzato dalla presenza di un cratere profondo circa 70 metri. L’orlo craterico ben pronunciato e non occluso da sedimenti, suggerisce un’attività probabilmente più recente.
Professor Milano, quali informazioni hanno fornito i campioni di sedimento prelevati sul Palinuro?
I dati mineralogici e petrografici attualmente disponibili suggeriscono che il Palinuro si sia formato (oltre 300.000 anni fa) nel corso di un lungo intervallo temporale e le differenze morfostrutturali tra le zone occidentale, centrale e orientale potrebbero marcare i differenti stadi evolutivi del complesso vulcanico. Il settore occidentale sembrerebbe essere il più antico. Al contrario, la presenza di numerosi coni nel settore centrale, la presenza di un cratere vulcanico con un pronunciato orlo, la maggior ampiezza delle anomalie magnetiche rilevate in questo settore e l’età dei prodotti campionati sulla sommità, suggeriscono fortemente che quello centrale sia il settore più giovane.
Il vulcano Palinuro è ancora attivo?
La presenza di micro-sismicità con caratteristiche vulcano-tettoniche localizzata a sud-est del complesso vulcanico, le anomalie magnetiche e la presenza di attività idrotermale nel settore centro-orientale suggeriscono che l’area sud-orientale potrebbe essere attiva. L’acquisizione di nuovi dati geofisici, petrologici e geochimici potranno fornire nuove informazioni, sia per meglio comprendere la genesi del Palinuro nel contesto geodinamico del Tirreno sud –orientale, sia per  capire se il complesso vulcanico, o parte di esso, è da considerarsi attivo o in quiescenza.
Al Prof. Girolamo Milano vadano i ringraziamenti dei lettori e della redazione di Hyde Park per l’importante contributo scientifico che ci ha dato.
      
Mappa schematica del Mar Tirreno Sud-Orientale con locazione del complesso vulcanico Palinuro e rappresentazione “3D” (vista da Sud) del Palinuro Seamount ottenuta dall’elaborazione dei dati batimetrici multifascio “Multibeam” acquisiti nel corso della campagna oceanografica del 2007 (figura tratta dalla pubblicazione scientifica: S. Passaro, G. Milano, C. D’Isanto, S. Ruggieri, R. Tonielli, P. P. Bruno, M., E. Marsella, 2010: DTM-Based morphometry of the Palinuro seamount (Eastern Tyrrhenian Sea): Geomorphological and volcanological implications. Geomorphology, Vol. 115, issue 1-2, 129-140).

venerdì 13 settembre 2013

Rischio Vesuvio: il fantomatico piano di evacuazione della zona rossa...di Malko

La valeriana rossa traguarda l'orlo calderico del Mt. Somma dal Vesuvio. Al centro la valle dell'inferno
            
Il fantomatico piano di evacuazione della zona rossa Vesuvio” di MalKo

Il vulcanologo giapponese Prof. Nakada Setsuya dell’Università di Tokyo, ospite ad Ascea nel Cilento, ha dichiarato: " Il Vesuvio prima o poi erutterà perché è un vulcano attivo, anche se non si può prevedere quando. Gli italiani devono discuterne e preparare un piano per gestire la situazione…”.
Il piano d’emergenza Vesuvio come spesso abbiamo avuto modo di sottolineare nei nostri articoli, dovrebbe contenere anche il piano di evacuazione della zona rossa. Nel nostro caso i due piani dovrebbero addirittura fondersi in un tutt’uno perché non ci sono più pericoli da vagliare, ma solo uno (eruzione) che è stato ampiamente analizzato a cura della comunità scientifica che ha individuato nella tipologia sub pliniana, secondo un calcolo storico statistico, l’evento massimo atteso, cioè nel medio termine l’eruzione di riferimento su cui deve essere tarato il piano d’emergenza.
Un’eruzione sub pliniana non è mitigabile o arginabile e contempla varie fenomenologie distruttive come quella micidiale dei flussi piroclastici. In questo caso non c’è ombrello che tenga e l’unica strategia di difesa è quella di non farsi trovare nei territori esposti in caso di eruzione. All’occorrenza, l’evacuazione preventiva della popolazione e degli stessi soccorritori dal settore a rischio è una necessità indifferibile.
I prodromi eruttivi, riferisce il Prof. Nakada, possono manifestarsi e precedere l’eruzione con larghissimo anticipo ma è anche vero il contrario. Il Vesuvio, come i terremoti, in termini di previsione ancora oggi  rappresenta un’insondabile incognita geologica.
Il piano d’emergenza Vesuvio nella parte iniziale contiene il capitolo concernente gli scenari eruttivi e i livelli di allerta vulcanica. Negli scenari sono stati individuati e tracciati e delimitati i territori su cui possono abbattersi gli effetti deleteri dell’eruzione assunta a campione, secondo un livello di pericolosità crescente a partire dal centro eruttivo. Questo ha portato alla definizione di una zona nera (R1) circoscritta dalla Linea Gurioli; una zona rossa 2, una gialla e poi la blu suscettibile tra l’altro a dilaganti fenomeni alluvionali.
Il Dipartimento della Protezione Civile ha la responsabilità della pianificazione nazionale d’emergenza Vesuvio, dovendo garantire per questo documento particolarmente importante e di valenza nazionale, un’opera coordinatrice dei comuni vesuviani, ma anche delle regioni e delle province e delle istituzioni competenti che fanno parte appunto del servizio nazionale.
Nella pianificazione d’emergenza i tecnici dipartimentali hanno definito sulla scorta degli argomenti precedenti (scenari e allerta) le fasi operative, cioè le azioni da compiere all’incalzare dei livelli di allerta vulcanica, secondo un trend al rialzo comprendente una fase di attenzione e poi di preallarme e allarme. L’allarme dovrà essere diramato a cura del Dipartimento della Protezione Civile, secondo le disposizioni governative che dovranno assumersi una buona dose di responsabilità. Una responsabilità che la parte politica dovrà o dovrebbe condividere con la stessa popolazione che ha il diritto di conoscere esattamente il livello di rischio a cui è sottoposta.
Prima di arrivare al massimo livello di allerta, le fasi intermedie già prevedono e forse in modo addirittura soverchiante rispetto alle reali necessità, la composizione e l’insediamento di troppi centri di coordinamento dell’evacuazione e dei soccorsi, compreso la direzione di comando e controllo con la nomina di un commissario governativo ad hoc (DICOMAC).
E’ surreale che a fronte di cotanta organizzazione di emergenza manchi la cosa più importante: il piano di evacuazione. Alla stregua,quella cartina a tema che siamo abituati a vedere affissa dietro le porte degli alberghi, delle cabine delle navi, nei corridoi di scuole, ospedali, teatri, cinema, fabbriche, ecc. 

Una mappa  schematica, che nel nostro caso dovrebbe essere redatta da ogni singolo comune della zona rossa e consegnata agli abitanti. Un vademecum contenente istruzioni e il tracciato rotabile o alternativo (nave?) per raggiungere e allacciarsi ai tronchi principali di mobilità che dovrebbero essere già stati individuati dal dipartimento della protezione civile.
In caso di allarme, oggi si muoverebbero contemporaneamente migliaia e migliaia di autovetture in quello che potrebbe essere definito un esodo modernamente biblico. I motori delle auto stracariche ruggirebbero per impegnare, a cura del capo famiglia, ogni direzioni ritenuta utile in quel momento per uscire dal budello vesuviano. Una corsa che si rivelerà di pura contrapposizione destinata a fallire sul nascere. Sarà un coro di clacson, di gesti, di grida e pianto e scene di panico che accompagneranno alfine una popolazione appiedata.
Ovviamente non è facile mettere mano a un documento che ha nelle premesse il primato di essere il più complesso piano d’evacuazione del Pianeta… In base all’esperienza che abbiamo maturato nell’ambito delle emergenze, abbiamo prospettato anche nelle sedi opportune il nostro punto di vista su come dovrebbe essere concepito questo fantomatico piano di evacuazione. Un piano che, per avere margini di successo, dovrà essere snello, rapido e autoportante. Bisogna rifuggire già nella pianificazione dagli appesantimenti dettati dalla burocrazia e dalle catene di comando con gradi che si vantano e ruoli che si sovrappongono e si pretendono come spesso succede anche nei frangenti più drammatici.
Un margine di successo potrebbe offrirlo e senza alternative valide, solo la rete autostradale e non la viabilità ordinaria assolutamente inadeguata.  Le autostrade a nord e a sud del Vesuvio, dovranno essere aree di prima accoglienza e di attesa per i moduli abitativi provvisori chiamati “autovetture”. Di là da Napoli inibendo l’accesso in entrata ai caselli ubicati sull’A1 Napoli Roma, il tracciato autostradale diverrebbe un’enorme area di ammassamento per i veicoli da incolonnare provenienti dal vesuviano. La stessa cosa andrebbe fatta a sud sull’A3 Salerno Reggio Calabria. In questo modo si avrebbero a disposizione due eccezionali aree di accoglienza veicoli a nord e a sud.
L’autostrada Napoli Salerno per le finalità del piano sarebbe troncata in due all’altezza di Torre del Greco. Ovviamente il normale traffico extra provinciale ed extra regionale transiterebbe su direttrici a est dello Stivale.
Il tracciato autostradale vogliamo appena ricordare che non interseca la viabilità ordinaria: è recintato, non ha incroci, è a circuito obbligato,consente salti di carreggiata, è video sorvegliato ed è normalmente manutenuto. E’ anche meno vulnerabile sismicamente parlando così come in seno ad una corretta pianificazione può essere costellato da servizi di rifornimento, presidi medici, d’assistenza e d’igiene, magari utilizzando corsie del senso opposto, aree di sosta o di servizio o spazi prestabiliti nella pianificazione.
L’uscita dalle due autostrade fuori dal perimetro a rischio sarebbe possibile per le famiglie che possiedono la seconda casa in un luogo in linea con la direzione di marcia e con il casello che s’intende impegnare.
La Caserta Salerno (A30) sarebbe utilizzata come anello di congiungimento per convogliare verso le macro aree di raccolta autostradali le auto dei paesi ubicati a est del Vesuvio o invertire il senso di marcia cardinale per raggiungere la seconda abitazione. L’autostrada ha poi il vantaggio di avere un reticolato chilometrico precisissimo con apposita cartellonistica stradale di progressiva metrica e ponti numerati. Una sorta di griglia stradale che non lascerebbe dubbi o incomprensioni sul dove intervenire, anche utilizzando l’apporto operativo del personale autostradale e dell’Anas particolarmente competente in tema di viabilità, compreso le ditte di soccorso autorizzato provviste di carro attrezzi e radio.

A una certa distanza da Napoli o da Salerno, il traffico poi, sarebbe preincanalato nelle corsie secondo la regione di destinazione attraverso i cartelloni a messaggio variabile che possono anche visualizzare informazioni suppletive agli  automobilisti in transito.
Il Prof. Nakada probabilmente senza uscire dalla cortesia orientale, ha cercato di dire la sua in un modo pacato con una cristallina semplicità. Il Vesuvio è un vulcano attivo, quindi dovrà eruttare, non si sa quando e in che modo. Prepararsi è un ragionevole atto di civiltà che va nella direzione del principio di precauzione e del diritto alla sicurezza.
Mettere a punto un piano d’evacuazione che tuteli il tutelabile in attesa di migliorie che possono provenire sola da una riconversione del territorio nel senso della sicurezza, è un obbligo morale,istituzionale  ma forse anche giuridico per le inadempienze e per la cattiva informazione che fino a oggi è stata fatta e si continua a dare sullo stato del rischio e sugli strumenti di tutela come il piano di evacuazione inesistente eppure pubblicizzato…
Si eviti allora di rilasciare dichiarazioni che vanno nella direzione di assumersi l’onere non contrattuale di rassicurare a tutti i costi, ritenendo unilateralmente giusto che la popolazione non vada allarmata…La sentenza dell’Aquila avrebbe dovuto insegnarci molto, anche a proposito delle rassicurazioni che, se poggiano sul niente, possono portare solo danno.