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martedì 28 maggio 2013

Rischio Vesuvio e Campi Flegrei: super camera magmatica? Intervista alla Dott. L. Pappalardo...di Malko

Il Vesuvio innevato visto da Boscotrecase
"Vesuvio e Campi Flegrei: vulcano, supervulcano e supercamera magmatica? Intervista alla Dott. Lucia Pappalardo" di MalKo
La camera magmatica di un vulcano potremmo assimilarla come idea a una sorta di avamposto del magma verso la superficie. Un magma che popola le profondità astenosferiche differenziandosi per caratteristiche chimiche e fisiche. Una differenza non da poco, poiché influenza le diverse tipologie eruttive, quando il materiale incandescente, stressato, balza fuori dal profondo.
I ricercatori affermano che i materiali eruttati da un vulcano sono nettamente inferiori alla capacità volumetrica complessiva della camera magmatica. Pensando all’eruzione delle pomici di Avellino che sconquassò l’area vesuviana circa 3800 anni fa, e a quella dell’ignimbrite campana nei Campi Flegrei, riconosciuta come la più potente in assoluto verificatasi nell’area regionale, c’è da rabbrividire elaborando calcoli sul materiale piroclastico asperso comparandolo poi e per proporzioni al contenitore sotterraneo…

Dott. Lucia Pappalardo - INGV Osservatorio Vesuviano
Di recente è balzata alla cronaca la notizia che Vesuvio e Campi Flegrei attingono da un’unica grande camera magmatica. La Dott.ssa Lucia Pappalardo ha lavorato a questa tesi che è stata ampiamente riportata dai media soprattutto per gli aspetti di pericolo che si colgono. Avendo già arricchito il nostro giornale con un’intervista ad oggetto proprio la camera magmatica del Vesuvio, abbiamo posto alla gentile ricercatrice alcune  domande:

Dott. Pappalardo, la camera magmatica di un vulcano è paragonabile a un pallone sgonfio che si riempie e poi scoppia?
Negli ultimi decenni le indagini geofisiche hanno rilevato al di sotto di vulcani quiescenti, come ad esempio la caldera di Yellowstone negli Stati Uniti d’America, oppure l’isola vulcanica di Santorini in Grecia, serbatoi magmatici più estesi del previsto, il che implicherebbe la possibilità in futuro di eruzioni catastrofiche.
I dati geofisici indicano che la forma di queste camere magmatiche è generalmente allungata, come una lamina estesa e sottile, e che nuovo magma profondo può “ricaricare” questi serbatoi in brevi periodi di tempo, come per impulsi. Ad esempio, tra il gennaio del 2011 e l’aprile del 2012, le immagini radar satellitari hanno rivelato che un flusso di magma ha “rigonfiato” la camera magmatica che si trova sotto il vulcano di Santorini, riempiendola di circa 10-20 milioni di metri cubi di materiale: approssimativamente 15 volte il volume dello stadio olimpico di Londra. Questo rigonfiamento ha causato un sollevamento dell’isola compreso tra gli 8 e i 14 centimetri. Tuttavia, anche paragonando il rigonfiamento osservato a qualcuno che soffia con forza in un palloncino (invisibile), non conoscendo quanto sia piccolo o grande il palloncino, non possiamo sapere quanti “soffi” saranno necessari per farlo scoppiare.
Articoli recenti datati autunno 2012, parlano di uno studio (Lucia Pappalardo & Giuseppe Mastrolorenzo, Rapid differentiation in a sill-like magma reservoir: a case study from the campi flegrei caldera. Nature’s Scientific Reports, 2 Article number: 712 (2012) doi:10.1038/srep00712), dove si accenna a un’unica grande camera magmatica, che alimenta sia il distretto del Vesuvio sia quello dei Campi Flegrei: è così?
Il nostro studio geochimico ed isotopico delle rocce delle eruzioni passate dei Campi Flegrei e del Somma-Vesuvio, ha messo in evidenza tra l’altro forti analogie tra le caratteristiche chimiche e fisiche (contenuto in gas, pressione, temperatura ecc…) delle camere magmatiche che hanno alimentato questi vulcani, tanto da farci ipotizzare che si trattasse di un unico esteso strato di magma. Questa teoria spiegherebbe anche la presenza di antichi crateri vulcanici all’interno della città di Napoli, identificati nell’area di Chiaia, che testimoniano la risalita di magma profondo nell’area napoletana localizzata proprio tra i due vulcani. Inoltre, il flusso di calore che oggi si misura in superficie, evidenzia un’unica anomalia positiva estesa al di sotto di tutta l’area napoletana, con il valore massimo in corrispondenza del supervulcano flegreo, dove probabilmente è localizzata la maggior parte del volume di magma.
La camera magmatica di un supervulcano quiescente (Campi flegrei) comprendente anche quella di un secondo vulcano capace di eruzioni del tipo pomici di Avellino, dovrebbe avere dimensioni sbalorditive…
Circa 40000 anni fa i Campi Flegrei eruttarono una quantità di magma considerevole (all’incirca 300 km3) durante la super-eruzione dell’Ignimbrite Campana, considerata la maggiore di tutta l’area mediterranea. L’eruzione fu talmente catastrofica che ricoprì tutta la regione campana di una spessa coltre di tufo grigio, mentre le ceneri più sottili trasportate dai venti raggiunsero distanze elevatissime, fino in Russia. Si ritiene che questa eruzione abbia provocato un vero e proprio “inverno vulcanico”, cioè una riduzione della temperatura terrestre di diversi gradi centigradi per molti anni e addirittura, secondo altre teorie, contribuito alla scomparsa dell’uomo di Neanderthal. Tuttavia, sebbene le super-eruzioni siano eventi altamente distruttivi, sono fortunatamente rarissime.
L’unicità di una camera magmatica condivisa da due distretti vulcanici molto vicini accresce i termini di rischio per le popolazioni?
L’area campana è tra le aree a più alto rischio vulcanico al mondo. Infatti, i vulcani napoletani attivi (Somma-Vesuvio, Campi Flegrei ed l’isola d’Ischia), in grado di generare eruzioni altamente esplosive, sono localizzati in aree densamente popolate.  I nostri dati sulla velocità di crescita dei minerali nel magma hanno dimostrato che le camere magmatiche individuate dalle tecniche geofisiche a circa 7-8 km di profondità, potrebbero contenere magma parzialmente cristallizzato e ricco in gas, che potrebbe “esplodere” in qualsiasi momento. Tuttavia, i vulcani napoletani sono tenuti sotto controllo 24 ore su 24 da un efficiente sistema di monitoraggio che ci permetterà di registrare eventuali segnali premonitori (terremoti, deformazioni del suolo, variazioni del chimismo e temperatura dei gas fumarolici) in tempo utile per allertare la popolazione esposta al rischio. Certo, affinché la gestione dell’emergenza sia ottimale, è necessario predisporre validi piani di emergenza che devono essere ben noti alla popolazione anche attraverso esercitazioni di protezione civile e prove di evacuazione.
Da un certo punto di vista concernente la promiscuità areale, pure l’Isola d’Ischia con i suoi fenomeni di vulcanesimo potrebbe avere importanti connessioni con la camera magmatica già condivisa dagli altri due vulcani? D’altra parte qualche anno fa si registrarono scosse di terremoto al largo del Golfo di Napoli…
L’isola d’Ischia, la cui ultima eruzione risale al 1302, è parte del distretto vulcanico flegreo, insieme anche all’isola di Procida che però non è più in attività da circa 17000 anni. L’isola d’Ischia è nota anche per il terremoto che nel 1883 distrusse Casamicciola: fu il primo evento catastrofico dopo l’Unità d’Italia. Quasi l’80% dell’abitato andò distrutto con migliaia di morti, di cui molti turisti già allora presenti sull’isola. Tra le vittime del terremoto vi furono anche i genitori e la sorella del futuro filosofo Benedetto Croce, allora diciassettenne, che fu estratto vivo dalle macerie.
Con quali strumenti si identificano i limiti della camera magmatica e con quale grado di affidabilità?
Un potente strumento d’indagine per la caratterizzazione del sottosuolo è una tecnica nota come tomografia sismica. Essa ricalca a grandi linee i principi della TAC utilizzata in campo medico. Infatti, mentre nella TAC si utilizza la propagazione dei raggi X per individuare strutture a maggiore densità, allo stesso modo nella tomografia sismica sono utilizzate le onde sismiche. Queste si propagano in maniera differente a seconda della densità del materiale che attraversano. Nel caso di un liquido, come appunto il magma, le onde viaggiano molto più lentamente rispetto a rocce solide. Con questa tecnica è stato possibile individuare a circa 7-8 km di profondità al di sotto del Vesuvio e dei Campi Flegrei, uno strato a bassissima velocità delle onde P ed S, con spessore dell’ordine di 1 km, che è stato interpretato come un ampio serbatoio di alimentazione magmatica di forma planare, che appare essere una caratteristica comune ai due vulcani.
Un’altra tecnica pionieristica per studiare la struttura interna dei vulcani è la radiografia muonica. Queste particelle sono una sorta di elettroni «pesanti» che, proprio in virtù della loro massa, sono in grado di penetrare strati di roccia dello spessore di 1-2 chilometri. Attraverso un telescopio muonico è possibile determinare con precisione la traiettoria dei muoni che lo attraversano e costruire una mappa del diverso assorbimento che subiscono le particelle a seconda della densità delle rocce attraversate.
Oltre ai limiti è possibile stabilire la composizione chimica del magma in profondità, cioè ravvisarne le modifiche chimiche e fisiche dettate dai nuovi materiali in arrivo?
Quando nuovo magma profondo raggiunge il serbatoio magmatico più superficiale ed eventualmente si mescola con il magma già presente nella camera, è possibile che si verifichi un rilascio di gas magmatici che, attraverso le fratture presenti nelle rocce, arriva in superficie ed alimenta le fumarole. Per questo motivo la temperatura e la composizione chimica dei gas fumarolici sono tenute sotto controllo, poiché una loro variazione potrebbe indicare un aumento nell’apporto di magma profondo.
L’attuale estensione della camera magmatica del Vesuvio, contiene materiale a sufficienza per quale tipo di eruzione? In termini pratici cosa differenzia una camera magmatica foriera di eruzioni di tipo Avellino da quella che indusse l’eruzione del 1944?
I nostri studi sulle caratteristiche chimiche ed isotopiche dei magmi che hanno alimentato le eruzioni passate, indicano camere magmatiche distinte per le eruzioni poco esplosive o effusive del tipo dell’ultima eruzione stromboliana del marzo del 1944 rispetto alle eruzioni esplosive intermedie (supliniane) e catastrofiche (pliniane).
Il serbatoio che alimenta le eruzioni più modeste infatti, è caratterizzato da magma di tipo tefritico, poco viscoso e povero in gas, che staziona a profondità comprese tra 16 e 20 km. Le eruzioni più violente invece, sono alimentate da magmi più evoluti di tipo fonolitico, cioè più viscosi e ricchi di gas, che stazionano a profondità comprese tra i 6 e gli 8 Km. L’attuale camera magmatica è stata individuata proprio a questa profondità, dove del resto esiste un’importante discontinuità litologica dovuta al passaggio da rocce sedimentarie a rocce cristalline, che favorirebbe l’accumulo di grandi quantità di magma.
In molte publicazioni viene continuamente affermato che la potenza eruttiva di un vulcano è rapportata ai tempi di quiescenza… la moderna vulcanologia conferma questa tesi?
In effetti questa tesi che risale ad alcuni decenni fa, è stata superata dai più moderni studi scientifici. Ad esempio, una recente ricerca (Druitt et al., Nature 2012) ha dimostrato che nel caso della violenta eruzione che interessò il vulcano di Santorini nel 1600 a.c., e che si ritiene provocò la scomparsa della civiltà Minoica, il serbatoio di magma iniziò a ricaricarsi solo 100 anni prima della catastrofe e il processo si concluse solo pochi mesi prima dell’eruzione.  Anche i nostri studi sulla velocità di crescita dei cristalli nei magmi vesuviani e flegrei hanno dimostrato che le camere magmatiche che alimentano questi vulcani sono in grado di raggiungere condizioni critiche che possono culminare in un’eruzione esplosiva violenta in tempi relativamente rapidi, dell’ordine di poche centinaia di anni.
 I tempi di risalita in superficie del magma dal profondo sono imprevedibili?
Una stima sulla velocità di risalita del magma in superficie può essere dedotta dalle caratteristiche tessiturali delle rocce vulcaniche, in particolare dalle dimensioni e forma delle vescicole e dei microcristalli che si formano via via che il magma degassa durante la risalita nel condotto vulcanico. I nostri studi sulla tessitura delle rocce vulcaniche dei Campi Flegrei e del Somma Vesuvio hanno dimostrato che, nel caso di alcune delle eruzioni passate, il magma ha raggiunto la superficie in tempi relativamente rapidi. Tuttavia, per quanto riguarda una eventuale futura eruzione, nessuna previsione può essere formulata. In nessun modo infatti, è possibile definire con certezza quanto potrà durare il periodo di crisi che normalmente precede un’eruzione.


Spaccato della struttura profonda
dei vulcani napoletani
Nel grafico a colori è riportata la struttura profonda dei vulcani napoletani dedotta dallo studio geochimico delle rocce vulcaniche delle eruzioni passate dei Campi Flegrei e del Somma-Vesuvio. In rosso sono indicate le possibili aree di accumulo di magma. Il magma silicico ricco in gas localizzato intorno ai 6-8 km di profondità, ha alimentato le eruzioni intermedie e altamente esplosive, mentre il serbatoio di magma mafico più profondo ha alimentato le eruzioni meno violente

Con cordialità la redazione di Hyde ParK ringrazia la gentile ricercatrice, Dott. Lucia Pappalardo, per la preziosa collaborazione che ci ha assicurato, consentendoci con chiarezza di entrare nei dettagli più vivi e aggiornati delle caratteristiche geologiche dei vulcani che dominano il territorio cittadino e provinciale della città di Napoli.



lunedì 27 maggio 2013

Vesuvio: 3800 anni fa l'eruzione che seppellì il villaggio preistorico di Nola. Intervista al Prof.Giuseppe Mastrolorenzo



"L'eruzione del Vesuvio di 3800 anni fa e il villaggio preistorico di Nola. Intervista al Prof. Mastrolorenzo" di MalKo
A Nola (provincia di Napoli), rimasero davvero stupiti un po’ di anni fa, quando nello scavare un suolo dove erigere le fondazioni di un supermercato, rinvennero resti di un villaggio preistorico risalente all’età del bronzo antico, cioè circa 3800 anni fa. Le capanne erano state rinvenute all’interno di uno spiazzo con forni e recinti per animali: capre e probabilmente cavalli o asini. Suppellettili varie hanno lasciato intuire una vita svolta prevalentemente all’esterno, lì nell’aia, e all’interno dei ripari di legno, dove gli indigeni si proteggevano dalle intemperie e dalla notte.
Il villaggio fu seppellito letteralmente dalla più terribile eruzione del Vesuvio, nota come delle pomici di Avellino. Infatti, una coltre di lapillo pomiceo e successivamente una nube molto pervasiva formata da cenere e gas,  “imbalsamarono” il vasto insediamento preistorico.
Il sito archeologico nasconde ancora altri manufatti dell’epoca del bronzo. Probabilmente vicino a questo agglomerato ve ne saranno altri che andrebbero cercati e riportati alla luce con un’accorta opera di scavo. Purtroppo, l’area archeologica attuale è stata invasa dalle acque e da smottamenti di terreno che forse hanno definitivamente distrutto ciò che la furia del vulcano aveva invece conservato. Per gli scavi archeologici si sa, non è un buon periodo…
Ciò che è stato rinvenuto in questo sito non lascia dubbi: la comunità antica fu colta dall’eruzione e lasciò frettolosamente la zona senza avere neanche il tempo di liberare le capre dai recinti.  L’eruzione di circa quattromila anni fa fu potente come quella pliniana che distrusse Pompei. La differenza è da ricercarsi nella zona di accumulo dei materiali piroclastici. In questo caso, i depositi si formarono   più a nord rispetto all’eruzione di Pompei.
Anche in quest’occasione facciamo appello alla gentile collaborazione del Professore Giuseppe Mastrolorenzo, che ringraziamo, per comprendere meglio i fenomeni dell’epoca.
1) Professor Mastrolorenzo, l’eruzione di Avellino di 3800 anni fa è una pliniana  “sbilanciata” a nord?
In realtà l’eruzione pliniana cosiddetta delle “pomici di Avellino” comprende una prima fase da fallout (pioggia di cenere e lapilli) con dispersione in un ampio settore a nord-est del vulcano in direzione di Avellino, e una seconda fase di nubi ardenti (pyroclastic surge) che si propagarono a 360 gradi intorno al cratere con una prevalenza verso nord-ovest.
2) Le stratigrafie dei materiali eruttati qui a Nola, nel villaggio preistorico, che cosa “narrano”? Quali furono le sequenze eruttive?
Le sequenze stratigrafiche rinvenute in decine di affioramenti in tutto il territorio vesuviano, nolano e napoletano, descrivono la tipica successione eruttiva e di deposito del classico evento pliniano del Somma-Vesuvio. All’inizio si sviluppò una colonna convettiva di cenere e gas che raggiunse un’altezza di circa 35 km nella stratosfera, dando così luogo a una intensa pioggia di cenere e lapilli che si depositarono al suolo secondo l’effetto direzionale dei venti dominanti. Questa fase dell’eruzione in genere dura poche ore e può determinare accumuli di cenere e lapilli particolarmente consistenti, che possono raggiungere spessori anche di qualche decina di metri in prossimità del vulcano con una tendenza ovviamente decrescente dipendente dalla distanza dalla bocca eruttiva.
Questa prima fase è seguita da una successione di collassi della colonna eruttiva che producono flussi piroclastici di gas, cenere e blocchi ad alta temperatura e velocità (pyroclastic flows and surge). Questi si propagano lungo i fianchi del vulcano raggiungendo distanze anche di 20 km. Durante il loro cammino producono devastazione del territorio e morte per impatto, soffocamento e shock termico, delle persone e degli animali investiti. I depositi di cenere che, questi flussi lasciano al suolo, consistono in strati spessi da decine di metri presso il cono  fino a pochi centimetri nelle zone più distanti.
3) Il Somma-Vesuvio dell’epoca che altezza aveva e quanto questa influisce sulle distanze percorse dalle nubi ardenti?
I dati disponibili non consentono di ricostruire l’altezza del Somma Vesuvio prima dell’eruzione delle Pomici di Avellino, ma in base ad alcuni indizi ed in particolare al profilo topografico del cono, alcuni autori in passato hanno ipotizzato che avesse un altezza dell’ordine dei 1800 ­- 2000 metri. Tuttavia, queste ipotesi non possono essere confermate da verifiche oggettive. L’altezza di un vulcano può contribuire alla distanza di propagazione dei flussi piroclastici in quanto la sommità di un vulcano costituisce la quota minima di partenza del flusso diretto verso valle. Analogamente a quanto succede nel caso di rottura di dighe o frane, la propagazione di liquidi e detriti  raggiunge distanze tanto maggiori quanto più elevata è la quota di origine del fenomeno. Nel caso delle eruzioni vulcaniche esplosive, è comunque prevalente l’altezza di collasso della colonna eruttiva, che in genere è molto superiore a quella della bocca craterica, ed è appunto questo il fattore principale che condiziona la distanza di propagazione dei flussi al suolo.
4) La popolazione del villaggio scappò precipitosamente per paure ancestrali o reali dovute alla furia dell’eruzione?
Le evidenze che abbiamo rinvenuto nei vari scavi archeologici dimostrano che la fuga dai villaggi avvenne molto probabilmente poco dopo l’inizio dell’eruzione. Nel villaggio del Bronzo Antico di Nola, oggi totalmente distrutto per l’incuria, rilevai la presenza d’impronte umane, su un substrato fangoso, riempite dai primi livelli di pomice sottili che testimoniavano l’inizio della fase di fallout. E’ quindi probabile che nelle prime ore dell’eruzione, mentre si sviluppava l’enorme colonna stratosferica che oscurò totalmente il cielo tra boati e fulmini,  gli abitanti dei villaggi dovettero domandarsi  quale fosse la direzione di fuga più vantaggiosa per  attuare la loro evacuazione spontanea  già all’inizio della pioggia di cenere e lapilli.
5) I resti umani o animali rinvenuti a Nola sono stati utili per capire le cause di morte, alla stregua di quanto è stato fatto per Pompei ?
L’unica evidenza di resti umani, che è anche il primo ritrovamento di vittime di un’eruzione preistorica, sono i due scheletri che abbiamo rinvenuto a San Paolo Belsito nel 1995, alla base dello strato di lapilli dello spessore di circa 1 metro. Questi resti appartenevano a una donna di circa venti anni e a un uomo di oltre quarant’anni che, sfortunatamente, si trovarono proprio sull’asse di maggiore intensità della pioggia di cenere e lapilli, vedendosi così preclusa qualsiasi possibilità di fuga. Questa evidenza dovrebbe rappresentare un monito per le autorità responsabili della realizzazione del piano di emergenza, che nell’attuale versione rischia di esporre centinaia di migliaia di persone residenti nella “zona gialla” alla stessa sorte delle due sfortunate  vittime di S. Paolo Belsito.
6) I prodotti di quell’eruzione fino a dove sono stati ritrovati in termini di distanza dal Vesuvio?
Le ceneri della fase del fallout hanno raggiunto anche diverse centinaia di chilometri di distanza dal vulcano; così come rinvenimenti ancora di diversi millimetri sono stati segnalati in Puglia. Le ceneri deposte dalle nubi ardenti sono invece state ritrovate fino a 20 km dal vulcano.
7) Un’eruzione tipo Avellino oggi è statisticamente improbabile visto la quantità di anni che ci separa da quegli eventi?
Sfortunatamente tutte le ricerche condotte fino a oggi hanno dimostrato l’intrinseca imprevedibilità delle eruzioni vulcaniche, almeno per quanto riguarda il lungo termine. In sintesi, è stato dimostrato che, nel caso di vulcani simili al Vesuvio, non è possibile prevedere l’entità e il tipo di eruzione che potrà verificarsi in futuro, sulla base della durata del periodo di riposo. D’altra parte per sistemi estremamente complessi come quelli vulcanici, l’applicazione di procedure statistiche risulta enormemente più inaffidabile e certamente più rischiosa rispetto ad altri sistemi  che pure sono scarsamente prevedibili come ad esempio quelli economici.
In base all’attuale livello di conoscenza, si può affermare che, nel caso di ripresa dell’attività al Vesuvio, la probabilità di un’eruzione di tipo pliniano possa raggiungere il 20 per cento.  Questo valore, seppure solo orientativo, è estremamente elevato in termini di pericolosità e mostra l’assoluta inadeguatezza dell’attuale piano di emergenza, basato invece su uno scenario molto inferiore. Questa gravissima carenza che ho denunciato in contesti scientifici ed  è stata oggetto di interrogazioni parlamentari, pone la popolazione dell’area vesuviana e napoletana in una permanente condizione di grave rischio. Purtroppo, benché tutte le ricerche fino ad oggi condotte confermano tale situazione, la Protezione Civile e la Commissione Grandi Rischi non sono state in grado aggiornare adeguatamente il Piano di emergenza, che, di fatto, era già inadeguato nella sua prima stesura risalente al 1995.
8) Per la geologia e la vulcanologia quanto è importante il sito preistorico di Nola?
Certamente il ritrovamento del villaggio preistorico di Nola è stato determinante per la comprensione della catastrofe vulcanica  e per la valutazione del rischio vulcanico che ci interessa. Personalmente ebbi l’opportunità di seguire la scoperta e lo scavo del sito e di acquisirne i dati necessari per lo la ricostruzione dei meccanismi eruttivi.  Dai primi giorni segnalai ai responsabili istituzionali    l’assoluta eccezionalità del ritrovamento che ne imponevano la preservazione integrale attraverso adeguati e prudenti interventi sul contesto bio-geoarcheologico locale. Purtroppo, una serie di circostanze, quali l’originaria destinazione dell’area alla costruzione di un supermercato, portarono gli archeologi alla decisione di scavare rapidamente per prelevare le suppellettili.
In pochi mesi quello che era il villaggio preistorico meglio preservato al mondo, fu ridotto a semplici ammassi di terreno, relitti delle strutture delle capanne totalmente sventrate, e oggi frequentemente sommerse dalla falda acquifera e ridotti a cumuli di fango.
A nulla valsero i miei interventi in articoli giornalistici e notiziari televisivi.
Nel 2006, sulla prestigiosa testata scientifica PNAS (http://www.pnas.org/content/103/12/4366.full), in collaborazione con Lucia Pappalardo dell’Osservatorio Vesuviano, Pier Paolo Petrone del Museo di Antropologia  dell’Università di Napoli Federico II e Michael Sheridan dell’università di Buffalo (USA), pubblicammo uno studio dell’eruzione delle Pomici di Avellino, basato sui vari siti archeologici rinvenuti, e inesorabilmente abbandonati alla distruzione. La nostra ricerca dimostrava, tra l’altro, la totale inadeguatezza del piano di emergenza e pose sotto i riflettori le carenze nell’operato della Protezione Civile e della Commissione grandi rischi.
Un anno dopo, a settembre del 2007, veniva pubblicato un dossier sulla testata National Geographic Magazine
(http://www.nationalgeographic.it/italia/2007/09/30/news/vesuvio-17517/)
che in milioni di copie, in decine di lingue raccontava il disastro vulcanico, nonché le gravissime carenze di gestione dei siti da parte delle Soprintendenze Archeologiche e la sottovalutazione del rischio da Parte della Protezione Civile.
La persistente sommersione sotto metri d’acqua di falda dei pochi resti del villaggio e la frana di una delle pareti dello scavo, verificatasi lo scorso mese di dicembre, hanno richiamato l’attenzione su un disastro archeologico che avevo già denunciato alcuni anni fa.
Ormai, quello che era il villaggio preistorico di Nola, recuperato e preservato integralmente da una disastrosa eruzione del Vesuvio, è ridotto a una piscina torbida con un fondo fangoso sul quale si elevano piccoli cumuli di terreno in via di totale disfacimento. (http://www.nationalgeographic.it/popoli-culture/2011/01/14/foto/sott_acqua_la_pompei_della_preistoria-169197/1/)
In Figura sopra: Simulazione al computer dello scorrimento di una nube piroclastica  simile a quella dell’eruzione di Avellino sull’attuale morfologia del Vesuvio. La scala di colori indica la forza di impatto della nube (sovrappressione dinamica) espressa in kPa.

domenica 26 maggio 2013

Il Vesuvio come il Merapi? Intervista al Prof. G. Mastrolorenzo.



    "Il Vesuvio come il Merapi?  Intervista al Prof. Giuseppe Mastrolorenzo" di MalKo
Nel panorama mondiale dei vulcani più pericolosi, intendendo con questo soprattutto quelli a ridosso di abitati, il vulcano indonesiano Merapi occupa un posto di tutto rispetto. Il 26 ottobre 2010 dall’isola di Giava ha fatto sentire la sua potenza sotto forma di eruzione e sviluppo di nubi ardenti pericolosissime per le popolazioni residenti. A oggi, purtroppo, si contano circa trecento morti e 200 mila sfollati.
L’attività eruttiva del Merapi, il cui nome significa montagna di fuoco, presenta fenomeni eruttivi di tipo pliniano e sub pliniano. Sarà proprio questa caratteristica a riportarci come accostamento all’attività passata del Vesuvio, e ad allargare il campo delle similitudini con l’arcinoto vulcano partenopeo, anche sulla scorta dei decessi avvenuti tra la popolazione che non ha seguito l’ordine di evacuazione lanciato dalle autorità locali. I soccorritori, infatti, si sono trovati di fronte a scene per molti versi affini a quelle che i calchi di gesso di Pompei ci rimandano drammaticamente e come testimonianza della famosa e terribile eruzione pliniana del Vesuvio nel 79 d.C.  In questa che sembra una Pompei asiatica, diversi  abitanti sono stati sorpresi nel sonno dalle nubi ardenti e si registrano vittime anche nel villaggio di Argomulyo, a diciotto chilometri di distanza dal vulcano.
Per capire bene queste similitudini, chiediamo come sempre al gentilissimo Professor Giuseppe Mastrolorenzo un contributo scientifico.
 
a) L’eruzione del Merapi iniziata il 26 ottobre 2010 a quale tipologia eruttiva deve ascriversi?
E’ un’eruzione di tipo misto, effusivo-esplosivo, caratterizzata nella fase iniziale dallo sviluppo di un duomo lavico seguito dalla generazione di colonne eruttive di gas e cenere di altezza relativamente modesta, compresa tra 1 e 7 km, e dalla generazione di sequenze di nubi ardenti (pyroclastic surge and flow), che si sono propagate sulle pendici del vulcano ad elevata velocità e  temperatura. Questa tipologia di eruzioni è ricorrente al Merapi e in altri vulcani alimentati da magmi di composizione dacitica ad alta viscosità, nei quali l’attività effusiva (colate laviche e duomi) si alterna a devastanti nubi di gas e cenere, che si propagano radialmente rispetto al cratere. Un’eruzione analoga si verificò nel 1902 al vulcano Montagna Pelee, nell’isola della Martinica, nelle Antille francesi, e provocò la distruzione totale della città di Saint Pierre con la morte dei suoi 30000 abitanti.
b) Professor Mastrolorenzo, quali affinità geologiche tra il Merapi e il Vesuvio?
Il Vesuvio e il Merapi sono entrambi strato-vulcani formati da una spessa successione di colate laviche e depositi piroclastici di cenere e lapilli, dovuti all’alternanza nel corso dei millenni di eruzioni esplosive, effusive e miste. Questi due vulcani differiscono invece nella composizione del magma: da fonolitica atefritica quella del Vesuvio, da riolitica a dacitica quella del Merapi.  Quest’ultimo tipo, caratterizzato da una maggiore viscosità rispetto ai magmi vesuviani, in alcuni casi può portare alla formazione di colate laviche viscose che fluiscono lentamente formando una cupola lavica, mentre in altri casi può innescare un’elevata esplosività e, quindi, pericolosità, anche in presenza di modeste quantità di magma.
c) Il Merapi è vigilato e monitorato alla stregua del nostro Vesuvio?
Al Merapi esiste una rete di monitoraggio dell’attività sismica, delle deformazioni del suolo e delle anomalie magnetiche che, nel complesso, consente di seguire gli eventi precursori di un’eruzione.
Bisogna comunque ribadire che i sistemi di monitoraggio al Merapi, come al Vesuvio e in altri vulcani attivi a livello mondiale, consentono di rilevare l’esistenza di modificazioni in profondità nel sistema magmatico, ma non possono fornire alcuna informazione sulla durata dei precursori e sul tipo e sull’entità dell’eruzione. Pertanto, in termini di mitigazione del rischio, affinché un sistema di monitoraggio risulti utile è necessario che esso sia sempre supportato da un adeguato piano di emergenza. Ovviamente è anche necessario che già dal primo manifestarsi dei fenomeni precursori le autorità competenti assumano rapidamente una decisione sul da farsi, valutando subito la necessità o meno di evacuare l’area a rischio definita preventivamente a cura dell’autorità scientifica.
d) Le morti registrate in questa eruzione sono da addebitarsi a una sottovalutazione della pericolosità delle nubi ardenti?
Certamente tra i fattori alla base del disastro deve essere considerata la sottovalutazione del rischio associato alla generazione e al passaggio di nubi piroclastiche. Infatti, benché nei primi giorni dell’eruzione fosse stata predisposta un’evacuazione, l’area considerata a rischio era stata limitata a circa 10 km dal centro eruttivo. Una valutazione decisamente ottimistica su quello che sarebbe stato il limite massimo di propagazione delle nubi ardenti. Tale decisione si è rilevata invece fatale per molti, perché durante le fasi più intense dell’evento, i pyroclastic surge ad alta temperatura hanno causato vittime entro un raggio anche superiore a 17 km dal vulcano. Questa sottovalutazione iniziale ha reso necessaria una disperata operazione di modifica del piano di evacuazione a eruzione in corso.
A tale proposito, da molti anni in numerose ricerche scientifiche condotte in collaborazione con altri colleghi, nonché in convegni e interviste rilasciate a mass-media nazionali e internazionali, ho richiamato l’attenzione sulla paradossale pericolosità dell’attuale piano di emergenza Vesuvio. Ho evidenziato, infatti, come lo scenario sub-pliniano, attualmente adottato dalla Protezione Civile su indicazione della Commissione Grandi Rischi, sia totalmente inadeguato in caso di un evento pliniano comunque possibile al Vesuvio. Infatti, ricerche condotte dal mio gruppo e da altri, hanno dimostrato l’elevata probabilità di un evento pliniano e la sua estrema pericolosità. Un’eventualità che metterebbe a rischio almeno 3 milioni di persone che vivono entro un raggio di circa 20 km dal vulcano. Nell’attuale piano di emergenza è prevista invece, l’evacuazione preventiva dei soli 600.000 abitanti compresi nella zona rossa limitata in questo caso ad un raggio inferiore ai 10 km dal vulcano.
Appare evidente come l’attuale situazione al Vesuvio sia del tutto simile a quella che si è purtroppo drammaticamente sperimentata nella recente eruzione del Merapi. È opportuno quindi, un’immediata revisione dell’organizzazione dell’intero sistema di gestione del rischio vulcanico nell’area vesuviana che, come denunciato in alcune interrogazioni parlamentari, non è stato in grado di porre in atto l’indispensabile adeguamento del piano di emergenza a fronte delle evidenze scientifiche.
Proprio pochi mesi prima dell’eruzione del Merapi, con il mio gruppo di ricerca avevamo pubblicato i risultati di uno studio sull’eruzione di Pompei del 79 DC e sulle vittime che l’evento causò. Dimostrammo che l’esposizione all’alta temperatura e non il soffocamento, come erroneamente ritenuto in precedenza, fu la causa principale di morte dei pompeiani. Studiando le vittime del Merapi, dal materiale fotografico disponibile, è risultato evidente come le loro posture siano del tutto simili a quelle impresse nei calchi di Pompei, tanto da farci ritenere il disastro del Merapi una nuova Pompei.
Nel mese di ottobre 2010, quando ha avuto inizio l’eruzione del Merapi, la testata scientifica Journal of Geophysical Research ha pubblicato un lavoro mio e della vulcanologa Lucia Pappalardo dell'Osservatorio Vesuviano, su tutti gli scenari eruttivi possibili al Somma Vesuvio. Nel merito esponemmo i risultati delle più avanzate simulazioni numeriche su base vulcanologica, richiamando l’attenzione mondiale dei ricercatori e delle autorità, sulla necessità dell’adozione dello scenario massimo atteso per la stesura dei piani d’emergenza, come unica possibilità di garantire la sopravvivenza della popolazione a rischio in caso di evento vulcanico esplosivo. Abbiamo dimostrato, infatti, come qualsiasi altra scelta ottimistica, costituisca non solo una limitazione all’efficacia dell’intervento preventivo di tutela ma anche una causa ulteriore di rischio per la infondata percezione  di sicurezza che trasmette alla collettività.
e) Quanto tempo prima le autorità indonesiane hanno diramato l’ordine di evacuazione della popolazione residente intorno al vulcano?
Nel caso dell’eruzione del Merapi, i primi chiari fenomeni precursori si verificarono ai primi di settembre, mentre l’inizio dell’evento eruttivo anche se di entità molto limitata, fu segnalato il 12 settembre. L’ordine di evacuazione fu dato invece il 25 ottobre, oltre 40 giorni dopo l’inizio effettivo dell’eruzione e solo un giorno prima dell’inizio della fase esplosiva più intensa.  Un’attesa cosi lunga per l’ordine di evacuazione non ha causato un disastro al Merapi solo per una circostanza fortunata… una decisione cosi azzardata in caso di eruzione al Vesuvio ,determinerebbe una catastrofe, poiché sarebbe ovviamente impossibile evacuare i milioni di abitanti dell’area a rischio in un brevissimo periodo.
f) Il Merapi come il Vesuvio rientra in un elenco ristretto per quanto riguarda la pericolosità vulcanica. Ma il vulcano più pericoloso del mondo qual’è?
Purtroppo, come ho già evidenziato in altre circostanze, sono proprio i nostri vulcani Vesuvio e Campi Flegrei a contendersi il titolo di vulcano più pericoloso al mondo. Questo ovviamente per quanto riguarda la normale attività vulcanica e gli effetti sul territorio a scala regionale (milioni di vite umane esposte). Per quanto riguarda le possibili catastrofi planetarie, eventi di cui si parla poco poiché trattasi di fenomeni con periodi di ritorno dell’ordine di centinaia di migliaia di anni, sicuramente fra i vulcani più pericolosi al mondo deve essere segnalata la caldera dello Yellowstone, nello stato del Wyoming (Stati Uniti), che 600000 anni fa ha prodotto una eruzione di migliaia di km3 di magma in pochi giorni, con gravi conseguenze sul clima a scala globale.
La figura a sinistra mostra uno schema della struttura profonda del Somma-Vesuvio.
I risultati di uno studio recente (Lucia Pappalardo and Giuseppe Mastrolorenzo, Earth and Planetary Science  Letters  296 2010, 133-143),
indicano la presenza a circa 8 km di profondità di una estesa camera magmatica fonolitica (ricca di silice e gas), pronta ad alimentare una eventuale eruzione di qualsiasi tipologia eruttiva, non esclusa quella pliniana.
La figura a destra invece, mostra  l’immagine al
microscopio elettronico a scansione di un campione di ossa di vittima dell’eruzione di Pompei del 79 D.C..
In primo piano sono visibili le microfratture prodotte sulle ossa dal calore della nube ardente.
(Al Professore Giuseppe Mastrolorenzo vadano i ringraziamenti della redazione di Hyde ParK, per la chiarezza e la disponibilità che sempre ci assicura nel campo della divulgazione scientifica.)

 

Rischio Vesuvio:i bruciati vivi dell'eruzione di Pompei


"Rischio Vesuvio: i bruciati vivi" di MalKo
La famosa eruzione di Pompei del 79 dopo Cristo è l’eruzione per eccellenza; ovvero quella che in Italia e non solo, è chiamata in causa per testimoniare la forza distruttrice di un vulcano in eruzione.
Il fenomeno maggiormente distruttivo che segnò nell’antichità Pompei, l’abbiamo più volte detto sono le temibili colate piroclastiche che possono manifestarsi lungo i pendii di un vulcano esplosivo, quando collassa la colonna eruttiva che può ergersi per un bel po’ di chilometri.
Altrimenti chiamate nubi ardenti, queste colate sono tra gli avvenimenti più pericolosi che si possono sviluppare in seno ad un’eruzione, perché sono di difficile prevedibilità e non c’è modo di arginarle preventivamente.
Probabilmente il fatto stesso che non sia un fenomeno che si manifesta in contemporanea con l’inizio dell’eruzione, colse di sorpresa un certo numero di abitanti di Pompei, nel 79 d.C., tant’è che furono letteralmente bruciati dal passaggio della coltre piroclastica surriscaldata. Non è da escludere che costoro dopo i primi parossismi vulcanici siano ritornati alle loro magioni per recuperare il salvabile, non intuendo che i fenomeni più devastanti dovevano ancora manifestarsi e abbattersi su ciò che rimaneva dell’abitato.
Possiamo ipotizzare che a gruppetti si siano avventurati sui luoghi del disastro approfittando forse di una stasi eruttiva per essere poi colti o dall’oscurità o dal ripresentarsi del fenomeno della caduta di cenere che limitava fortemente la visibilità, accampandosi quindi in loco…
La ricerca del Prof. Giuseppe Mastrolorenzo e degli altri ricercatori italiani Petrone, Pappalardo e Guarino, ha il merito di certificare scientificamente il motivo di quelle morti la cui postura nell’attimo ultimo della vita ci è riproposta dai calchi in gesso, esposti a Pompei e in altri musei suscitando non poca pietà.
Gli esiti dello studio sono riportati nella rivista  National Geographic, così come l’interessante disquisizione scientifica  è riproposta integralmente in inglese nelle pagine del periodico Plos One .

Vesuvio e camera magmatica: intervista alla Dott. Lucia Pappalardo.


Il Vesuvio da Trecase
"Rischio Vesuvio: intervista alla Prof. Lucia Pappalardo" di MalKo
Negli anni novanta, presso le sedi comunali della zona rossa, arrivavano periodicamente delle note via fax diramate dall’Osservatorio Vesuviano, circa gli eventi sismici di magnitudo superiore a una certa soglia minima (2,5 Richter) che avvenivano nel distretto vulcanico del Somma-Vesuvio.
Oltre all’energia registrata, veniva segnalato l’ipocentro del sisma. Ricordiamo bene che alcuni di questi “fuochi” energetici avevano origine a una profondità di alcuni chilometri. Molti ritenevano che la superficialità degli ipocentri, rispetto a una camera magmatica posta a circa dieci chilometri di profondità, lasciasse presagire una risalita del magma in superficie.
Nell’immaginario collettivo la camera magmatica è una sorta di pentola ribollente posta a una certa profondità al di sotto del camino vulcanico. La gente del vesuviano più addentro alla materia, ha quindi sempre arzigogolato disquisendo sia sulla profondità sia sull’estensione di tale struttura geologica, azzardando ipotesi varie sulla pericolosità del Vesuvio. Una pericolosità che molti esperti correlano agli anni che passano tra un’eruzione e un’altra, lasciando intendere che il sistema di “ricarica” energetica del vulcano è direttamente proporzionale al fattore tempo (T). Tant’è che nella determinazione degli scenari eruttivi del Vesuvio è stato indicato come eruzione massima di riferimento, nel breve e medio termine, quella del 1631 (EMA).
La Dott.ssa Lucia Pappalardo
Grazie alla gentile collaborazione della ricercatrice, Dott.ssa Lucia Pappalardo, esperta di ciò che accade nel sottosuolo vulcanico, lì dove il magma si accumula, siamo in grado di offrire ai nostri lettori una disquisizione su camera magmatica e rischio Vesuvio, articolata secondo i dettami di un’intervista che vi proponiamo integralmente.
a) Gentile Dott.ssa, potrebbe chiarirci che cos’è una camera magmatica? Il concetto della pentola che contiene lava è verosimile?

Una camera magmatica è un’area al di sotto della superficie terrestre in cui il magma si accumula per tempi anche relativamente lunghi. Non è una cavità ma un volume di roccia solida (chiamata roccia incassante) attraversata da una fitta rete di fratture riempite di magma (roccia fusa ricca in silice che può contenere anche gas e cristalli) ad altissima temperatura, generalmente tra 800 e 1200°C.
Le camere magmatiche sono molto difficili da identificare anche con le moderne tecniche di indagine, e generalmente si trovano nei primi 10 km di profondità al di sotto dei vulcani attivi della Terra. La camera magmatica è, quindi, la roccia serbatoio che contiene il magma, quest’ultimo si trasforma in lava quando, risalendo in superficie attraverso il condotto vulcanico, erutta in modo effusivo (senza esplosioni). La lava, infatti, ha la stessa composizione del magma da cui deriva, senza però i gas che si liberano durante l’eruzione.
b) I dati più aggiornati cosa dicono in termini di ubicazione ed estensione della camera magmatica del Vesuvio?
La camera magmatica del Vesuvio è estesa 400 chilometri quadrati e si trova a circa otto chilometri di profondità al di sotto del vulcano, cosi come indicato dai dati della tomografia sismica (che è una tecnica di indagine simile alla Tac in medicina). In particolare, vengono generate onde sismiche attraverso delle esplosioni, poi misurando la velocità e direzione delle onde sismiche viene ricostruita una immagine della crosta terrestre al di sotto del vulcano. Questo tipo di indagine ha rivelato quindi che un esteso volume di magma potenzialmente in grado di eruttare in qualsiasi momento è già presente al di sotto del Vesuvio. Tuttavia il magma modifica continuamente le sue caratteristiche chimiche e fisiche poiché raffredda e cristallizza, dal momento che scambia calore con le rocce incassanti più fredde. Solo quando il magma raggiunge un valore critico di viscosità e contenuto in gas sarà in grado di produrre eruzioni fortemente esplosive. I nostri studi sulla velocità di crescita dei cristalli nelle camere magmatiche indicano che i magmi vesuviani raggiungono tali condizioni critiche anche dopo brevi periodi di riposo del vulcano (dell’ordine di alcune decine di anni), e quindi la camera magmatica del Vesuvio potrebbe già contenere magma ricco in silice e gas in grado di produrre anche eruzioni pliniane. Se una eruzione esplosiva di questo tipo dovesse verificarsi, un’area estesa fino ad almeno 15 km dal vulcano sarebbe a rischio di distruzione; questo territorio include anche l’area metropolitana di Napoli fino ad oggi non inserita nel piano di emergenza e abitata da circa 3 milioni di persone. Lo studio di passate eruzioni pliniane al Vesuvio ha infatti dimostrato che il territorio oggi occupato dalla città di Napoli fu distrutto dal passaggio delle cosiddette nubi ardenti. Queste sono valanghe di lapilli e gas vulcanici ad elevata velocità e temperatura, che scorrono lungo i fianchi del vulcano distruggendo ed incenerendo qualunque cosa incontrino sul loro percorso. I depositi di cenere vulcanica lasciati dal passaggio di queste nubi ardenti dell’eruzione pliniana di 4000 anni fa (detta eruzione di Avellino) li abbiamo ritrovati al di sotto del Maschio Angioino al centro della città di Napoli, a testimonianza di questa antica catastrofe .
c) La pericolosità del Vesuvio è correlata in modo direttamente proporzionale al tempo di quiete?
No, oggi sappiamo che per i vulcani simili al Vesuvio non esiste alcuna correlazione tra il tempo di riposo e l’entità della futura eruzione. Un esempio è la famosa eruzione pliniana del 1980 al Monte Saint Helens nello stato di Washington (USA)  che si verificò dopo un breve periodo di riposo del vulcano.
d) Lo studio della camera magmatica potrebbe essere all’origine della previsione di eventi vulcanici?
Per eruttare il magma, presente nella camera, deve aprirsi un passaggio verso la superficie fratturando le rocce al tetto della camera magmatica. Questo insieme di fratture che mette in comunicazione la camera con la superficie viene chiamata condotto vulcanico. Durante la formazione del condotto e la risalita del magma in superficie si originano terremoti, rigonfiamenti del suolo, variazioni della composizione chimica e temperatura dei gas fumarolici. Questi fenomeni sono i cosiddetti precursori delle eruzioni e possono manifestarsi mesi, giorni, o ore prima dell’eruzione; se registrati in superficie dalle reti di monitoraggio possono permettere ai vulcanologi di prevedere l’avvicinarsi di una nuova eruzione.
I nostri studi sulla tessitura delle rocce vesuviane indicano che la risalita dei magmi dalla camera alla superficie può essere molto rapida.  In particolare nel caso di eruzioni pliniane il magma potrebbe raggiungere la superficie in meno di qualche ora. I tempi di risalita sono invece più lunghi e variabili nel corso delle eruzioni effusive. La presenza di un condotto centrale individuato dalla tomografia e i tempi di risalita calcolati con gli studi tessiturali su rocce di passate eruzioni indicano che una eventuale futura eruzione pliniana al Vesuvio avrà luogo in corrispondenza del cono vulcanico e che una volta fratturato il tetto della camera magmatica, il processo eruttivo potrebbe svilupparsi anche in poche ore, con un breve pre-allarme.
e) I tre distretti vulcanici campani, Vesuvio, Campi Flegrei e Ischia non hanno nessuna interconnessione in termini di lava e magma?
I nostri studi basati sulle caratteristiche chimiche delle rocce eruttate nelle passate eruzioni da questi vulcani, indicano che il serbatoio magmatico a 8-10 km di profondità potrebbe essere esteso al di sotto dell’intera area vulcanica campana.
f) Nei famosi bollettini informativi citati in precedenza, che valore interpretativo bisogna dare agli ipocentri che si verificano più o meno in superficie ?
Oggi sappiamo che i terremoti superficiali di bassa magnitudo (inferiore a tre) sono legati alla presenza di antichi condotti magmatici estesi per km sotto il cratere e riempiti di magma ormai solidificato. Vengono chiamati  terremoti vulcano-tettonici, e si ritiene che siano generati dai forti sforzi gravitativi dovuti al peso del vulcano stesso, che si focalizzano intorno all’asse craterico a causa delle forti variazioni di rigidità in quella zona.
g) Un’ultima domanda: i piccoli terremoti registrati nel camino vulcanico non potrebbero essere originati dalle masse terrose e rocciose che gravano nel condotto e che periodicamente si assestano?
Come indicato prima, i dati sismici hanno mostrato la presenza nella parte centrale del vulcano fino a circa 5 km di profondità, di un antico condotto vulcanico attualmente non più attivo e riempito da magma solidificato. Intorno a questa area si generano ogni anno un centinaio di terremoti di bassa magnitudo generalmente non avvertiti dalla popolazione vesuviana, ma registrati dai sistemi di monitoraggio. Questi terremoti sono legati principalmente al peso dell’edificio vulcanico e alla concentrazione degli sforzi gravitativi in corrispondenza dell’antico condotto, e non possono essere considerati quindi come fenomeni precursori di una ripresa dell’attività vulcanica. Tuttavia a questi eventi si sovrappone una sismicità di origine diversa legata a variazioni della dinamica interna del vulcano, principalmente dovuta alla migrazione del magma, che può generare crisi sismiche con grande numero di eventi per anno, come accaduto ad esempio nel 1989, 1995-’96, 1999. Questi terremoti indicano che anche se il Vesuvio è in quiescenza dall’ultima eruzione del 1944 è tuttavia ancora un vulcano attivo; come abbiamo detto la sua sorgente,  l’area cioè in cui il magma continua ad accumularsi è stata identificata intorno a 8-10 km di profondità, dove i dati sia sismici che chimici evidenziano una zona di accumulo di magma molto estesa e probabilmente comune anche agli altri vulcani attivi della Campania cioè i Campi Flegrei e l’isola d’ Ischia.

(La redazione di Hyde Park ringrazia la Dott.ssa Lucia Pappalardo per la gentile collaborazione e per la chiarezza con cui ha affrontato gli argomenti proposti).