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domenica 26 maggio 2013

Rischio Vesuvio:i bruciati vivi dell'eruzione di Pompei


"Rischio Vesuvio: i bruciati vivi" di MalKo
La famosa eruzione di Pompei del 79 dopo Cristo è l’eruzione per eccellenza; ovvero quella che in Italia e non solo, è chiamata in causa per testimoniare la forza distruttrice di un vulcano in eruzione.
Il fenomeno maggiormente distruttivo che segnò nell’antichità Pompei, l’abbiamo più volte detto sono le temibili colate piroclastiche che possono manifestarsi lungo i pendii di un vulcano esplosivo, quando collassa la colonna eruttiva che può ergersi per un bel po’ di chilometri.
Altrimenti chiamate nubi ardenti, queste colate sono tra gli avvenimenti più pericolosi che si possono sviluppare in seno ad un’eruzione, perché sono di difficile prevedibilità e non c’è modo di arginarle preventivamente.
Probabilmente il fatto stesso che non sia un fenomeno che si manifesta in contemporanea con l’inizio dell’eruzione, colse di sorpresa un certo numero di abitanti di Pompei, nel 79 d.C., tant’è che furono letteralmente bruciati dal passaggio della coltre piroclastica surriscaldata. Non è da escludere che costoro dopo i primi parossismi vulcanici siano ritornati alle loro magioni per recuperare il salvabile, non intuendo che i fenomeni più devastanti dovevano ancora manifestarsi e abbattersi su ciò che rimaneva dell’abitato.
Possiamo ipotizzare che a gruppetti si siano avventurati sui luoghi del disastro approfittando forse di una stasi eruttiva per essere poi colti o dall’oscurità o dal ripresentarsi del fenomeno della caduta di cenere che limitava fortemente la visibilità, accampandosi quindi in loco…
La ricerca del Prof. Giuseppe Mastrolorenzo e degli altri ricercatori italiani Petrone, Pappalardo e Guarino, ha il merito di certificare scientificamente il motivo di quelle morti la cui postura nell’attimo ultimo della vita ci è riproposta dai calchi in gesso, esposti a Pompei e in altri musei suscitando non poca pietà.
Gli esiti dello studio sono riportati nella rivista  National Geographic, così come l’interessante disquisizione scientifica  è riproposta integralmente in inglese nelle pagine del periodico Plos One .

sabato 25 maggio 2013

Rischio Vesuvio parte quarta.



"Rischio Vesuvio parte quarta" di MalKo
Il Vesuvio è un vulcano che sovrasta l’omonima plaga. Orientativamente il territorio strettamente vesuviano è quello marcato dai confini territoriali dei diciotto comuni della zona rossa e dalle frange di territorio appena confinanti. Per vesuviani dobbiamo intendere i circa seicentomila abitanti che vivono accalcati ai piedi e nella fascia pedemontana del Vesuvio, che in loco è chiamato la montagna. Anche se il Vesuvio è sempre stato abbinato come immagine olografica alla città di Napoli, in realtà il vulcano appartiene ai vesuviani, perché sono quelli che possono vantare nel bene e nel male un vissuto con il famoso vulcano: non si può dire la stessa cosa dei napoletani.
Per far capire la differenza tra i napoletani e i vesuviani possiamo fare un esempio semplicissimo richiamando le differenze che passano tra un villeggiante che si reca in estate al paesino sul mare e il pescatore del posto.
Il bagnante stagionale va lì in agosto, quindi si gode il sole, la tranquillità e la frescura del mare; dopodiché, ai primi accenni di cambiamento di stagione va via.  Il pescatore godrà anche lui degli aspetti estivi del luogo ma rispetto al villeggiante occasionale dovrà vivere anche la solitudine invernale, il freddo, il vento tagliente di gennaio e il mare in tempesta che dovrà poi affrontare per sopravvivere.
I napoletani pertanto godono della “parte migliore” del Vesuvio ma non vivono il rischio, almeno quello azzardoso che questa promiscuità col monte comporta. Il loro rapporto con il vulcano è più distaccato. Anche da un punto di vista geologico i suoli della metropoli partenopea derivano dalle eruzioni dei campi Flegrei e poco da quelle del Vesuvio. Infatti, saranno proprio i prodotti flegrei a dare origine al famoso tufo giallo napoletano che caratterizza l’edilizia e le grandi opere sotterranee risalenti a oltre duemila anni fa, come gli acquedotti scavati interamente a mano nel sottosuolo tufaceo della città.
Per chi conosce entrambe le mentalità, sa che al napoletano non appartiene l’idea del Vesuvio come elemento di altissimo rischio. Non perché non lo sia almeno per un settore cittadino (nel merito l’articolo sul National Geographic ha aperto la discussione), piuttosto perché non c’è memoria di questo. Pur leggendo fra le cronache che hanno accompagnato le ultime due eruzioni, singolari menzioni concernenti il crollo di qualche tettoia dovuto all’accumulo di cenere e altri disagi affini, si è propensi a ritenere marginali i danni al tessuto strettamente urbano derivanti da eruzioni vesuviane di piccola, media o medio/alta intensità. Anche perché la Napoli storica non era urbanizzata massicciamente con agglomerati spinti fino ai limiti dei territori vesuviani. Quindi, i fenomeni eruttivi arrivavano blandi,  per effetto delle distanze e i venti soventi favorevoli (occidentali) ovvero utili a proteggere la città.
Forse il pennacchio di fumo che contraddistingueva il Vesuvio fino al 1944 è stato per molti versi un deterrente all’urbanizzazione nel settore sud orientale. Oggi il discorso è totalmente diverso, perché la città di Napoli è ampiamente popolata anche in quella direzione e fino ai margini della zona rossa. Purtroppo nella parte orientale si trovano anche alcuni impianti industriali forse a rischio che andrebbero rivalutati in termini di ubicazione o diversamente protetti, tenendo in debito conto il pericolo vulcanico.
L’eruzione più potente che si segnala nell’ultimo secolo è stata quella del 1906. I vesuviani furono colpiti pesantemente dal fenomeno contando circa duecento morti prevalentemente nelle cittadine di Ottaviano e San Giuseppe Vesuviano. L’ultima eruzione invece è stata quella del 1944 che passò un tantino in sordina nel panorama nazionale per gli eventi bellici in corso. Non fu così per i vesuviani invece, perché anche l’eruzione del 1944 che non fu particolarmente forte, innescò comunque lave che distrussero alcune contrade portando allarme in diversi paesi. In entrambe le eruzioni, le cronache registrano un affollarsi di carretti che lasciavano le zone a rischio, ma anche un affollamento inverso, un andirivieni di curiosi, studiosi, giornalisti e artisti che, per vedere il fronte lavico che avanzava, ingaggiavano guide e mezzi di trasporto tra i più svariati.
La prima riflessione che possiamo fare su questo argomento e che gli intervalli di pace geologica del Vesuvio sono sempre stati lunghi abbastanza da consentire l’instaurazione di insediamenti stabili. Questo significa che eventi particolarmente catastrofici se ne contano pochissimi, almeno negli ultimi millenni.  Purtroppo però, questi non possono mai matematicamente escludersi, anche se nel calcolo delle percentuali di probabilità assumono un indice statistico basso. Una stortura dobbiamo comunque riconoscerla: a prescindere dal tipo di eruzione che ci si può  attendere, danni alle case, alle strutture, infrastrutture e terreni agricoli sono certi. Ne consegue che da nessun punto di vista è possibile giustificare la sconfortante urbanizzazione che è stata fin qui perpetrata, che è bene ricordare ha raggiunto anche la parte superiore dei declivi  pedemontani del vulcano.
I vesuviani appalesano una certa disinvoltura a proposito di questo rischio. Ma è proprio così? Assolutamente no! Per spiegare perché si accetta un azzardo di questo tipo, bisogna rifarsi a degli esempi. Il fumatore sa benissimo che il fumo fa male però non smette. Almeno fino a quando una prova inconfutabile e possibilmente diretta, cioè avvertita fisicamente (tosse catarrale, asma, ecc…), non gli da sentori che il suo stato di salute è molto compromesso. La migliore tecnica di prevenzione sarebbe smettere subito con nicotina e catrame senza attendere il peggio. Perché ci si riduce invece agli ultimi termini?  Perché esistono molti casi di persone che pur fumando accanitamente sono vissute a lungo… e il tabagista molto spesso si autogiustifica ritenendosi ottimisticamente parte di questi “fortunati”. E poi inconsciamente il fatto che lo Stato trae profitti dalla vendita del tabacco a torto lascia inquadrare il prodotto come non eccessivamente nocivo.
Entriamo  un attimo nel campo che riguarda la sfera del comportamento umano. Per avvertire in modo utilmente preoccupante un pericolo, l’uomo ha bisogno di percepirlo con uno dei cinque sensi. Ecco perché il pennacchio di fumo che caratterizzava il cratere del Vesuvio fino all’ultima eruzione era comunque un deterrente all’urbanizzazione. Si vedeva fumo. La montagna serbava quindi fuoco e lo segnalava continuamente. L’uomo ha bisogno di segnali percepibili per comprendere in concreto e  di fatto una situazione pericolosa.
Che il Vulcano sia un pericolo lo apprendiamo oggi solo analiticamente ma non lo constatiamo coi sensi. Pertanto non è da escludere che il rischio Vesuvio è accettato dai più, non per cosciente metabolizzazione del problema, bensì semplicemente perché non si percepisce come pericolo, e anche perché nessuna equazione matematica da scontato che in futuro possa avvenire un’eruzione e ancora che questa debba essere addirittura esplosiva. Questo comportamento obliante per certi versi crea problemi, perché, se il pericolo dovesse manifestarsi improvvisamente, scatterebbe contrariamente a quanto ostentato in precedenza un panico di tipo addirittura atavico. pertanto, quando per televisione seguiamo interviste ai cittadini vesuviani che generalmente assumono un atteggiamento di pacata e fatale rassegnazione, a tratti di sfida del pericolo, in realtà non siamo di fronte a manifestazioni di coraggio, bensì ci troviamo di fronte ad atteggiamenti dovuti all’impercettibilità del pericolo potenziale e, quindi, di sottovalutazione di quello che è realmente l’indice di rischio vulcanico.
A prova della tesi dei segnali chiamiamo in causa l’evento sismico che si verificò nell’area vesuviana il 9 ottobre 1999 alle ore 7,31. Quella fu la “vera” esercitazione di protezione civile. La magnitudo del sisma fu pari a 3,6 della scala Richter. Fu il terremoto più forte mai registrato nell’area vesuviana dall’eruzione del 1944.  Segno premonitore? Fu scompiglio e allarmismo tra la popolazione. Sconcerto e indecisione da parte del mondo scientifico che perse tutto il suo illuminismo e non seppe dare una risposta interpretativa all’improvviso tremore litosferico, al punto che si scatenò un acceso dibattito fra scienziati che finì con denunce alla Procura della Repubblica di Torre Annunziata. Gli esiti giudiziari ancora non si conoscono. Vivere questo momento di crisi da una postazione privilegiata come la sala operativa del comune di Portici, è stato molto istruttivo. Se quella scossa fosse stata seguita da altre a distanza ravvicinata, sarebbe stato un disastro in termini di panico. Con l’eruzione,  una vera e immane tragedia.
(Continua…)

 

giovedì 23 maggio 2013

Rischio Vesuvio parte prima: ...di Malko



"Rischio Vesuvio parte prima" di MalKo 

Nel mese di ottobre 2008, due jet militari attraversarono il cielo di Napoli superando la barriera del suono. Procurarono un “bang” che preoccupò non poco gli abitanti dell’area vesuviana. Come si sa, infatti, in questi luoghi sussiste un rischio tutt'altro secondario dettato dall’arcinoto vulcano Vesuvio. Nell’agosto 2007 si agitò invece il mondo istituzionale e scientifico per un articolo apparso sulla nota rivista National Geographic. Sull’importante mensile furono riportate le conclusioni di uno studio condotto da alcuni ricercatori italiani e stranieri, tra cui il prof. Giuseppe Mastrolorenzo dell’Osservatorio Vesuviano (INGV).
Gli autori nel pubblicare i risultati delle ricerche, evidenziarono che un’eventuale ripresa eruttiva del Vesuvio poteva anche presentarsi con una tipologia pliniana di tipo Avellino. In questo casola città di Napoli non poteva ritenersi indenne e al riparo da ogni sorta di pericolo proveniente dal vulcano.
E’ chiaro che chi sostiene questa tesi indirettamente e a tergo della disquisizione scientifica, mette in discussione la presunta pianificazione nazionale delle emergenze, che non ha mai considerato la metropoli partenopea come un possibile bersaglio di un’eruzione, se non marginalmente.
Il Dipartimento della Protezione Civile reagì piccatamente all’articolo, perché lo scenario eruttivo adottato dal medesimo dicastero per la stesura dei piani d’emergenza, è di tipo subpliniano (1631): intenso negli effetti con sconvolgimenti notevoli della plaga vesuviana, ma senza interessare l’area cittadina di Napoli.
Il Vesuvio, lo ricordiamo, nella sua storia geologica annovera manifestazioni di vario tipo, oscillanti tra la colata di lava pittoresca e l’eruzione catastrofica caratterizzata dalle temibili nubi ardenti.
Purtroppo non sempre è possibile prevedere con larghissimo anticipo il momento del risveglio di un vulcano quiescente, così come il tipo di eruzione che, nel caso del Vesuvio, potrebbe variare di molto con sostanziali differenze energetiche e quindi di pericolo.
I vulcani in genere manifestano tutta una serie di sintomi prima di produrre un’eruzione, e questi sintomi riescono il più delle volte a essere colti sul nascere, specialmente se la vigilanza è effettuata continuamente e con moderne tecnologie, come nel nostro caso.
Nel merito delle ipotesi che si formulano sul Vesuvio, su quella che potrebbe essere la prossima eruzione, tutte le tesi che a più riprese si prospettano, trovano alla fine uguale dignità, perché non esistono certezze matematiche e incontrovertibili in materia.
Sarà la stessa eruzione (chissà quando), che dirà chi ha ragione dal punto di vista statistico/previsionistico. Un noto vulcanologo in un’intervista, saggiamente affermò che i segni premonitori di un’eruzione del Vesuvio si riconosceranno e si coglieranno tutti, ma dopo l’eruzione…
La disputa scientifica è principalmente sul tipo d’eruzione, perché quando questa si manifesterà (previsione lunga), nessuno è in gradi di dirlo.
Nella pianificazione (bozza) nazionale d’emergenza dell’area vesuviana pubblicata nel 1995, si rimarcava un notevole ottimismo circa la previsione corta (avvisaglia) del fenomeno. Sette giorni di tempo per allontanarsi, su un totale di venti a disposizione. Nella revisione del piano datata 2001 si conferma la settimana. Oggi, alcune anticipazioni di stampa riferiscono che il piano d’emergenza in corso di elaborazione sancisce l’evacuazione complessiva della zona rossa in tre giorni. Nel Bollettino Ufficiale della Regione Campania n. 20 del 26 aprile 2004, si auspica un’evacuazione in quarantotto ore.
Il direttore della scuola regionale di protezione civile della Campania, in un articolo pubblicato sul corriere del mezzogiorno del 9 ottobre 2008, ebbe a dire che nel giro di due mesi il nuovo e definitivo piano d’emergenza per l’area vesuviana, messo a punto con i tecnici del dipartimento della protezione civile, vedrà finalmente la luce. Al momento si costata un anno di ritardo nella pubblicazione. Un ritardo relativo in verità, perché non è di mesi che si parla ma di anni, visto che la commissione incaricata di redigere questo famoso piano si insediò nel 1993. Dopo sedici anni quindi, siamo ancora fermi sui propositi e in attesa di una programmazione d’emergenza che abbia una valenza operativa.
E’ abbastanza chiaro alla fine, che, qualsiasi piano d’emergenza per l’area vesuviana, dovrà essere elaborato sulla scorta della previsione corta del fenomeno. Ed è proprio qui il problema, perché non è possibile eludere il limite: si pianifica prevedendo di prevedere… I piani di emergenza pertanto, dovranno basarsi sulla previsione della previsione. Non è un demerito nostrano, ma un limite oggettivo della ricerca in questo campo.
Il piano d’emergenza (evacuazione) da mettere a punto per fronteggiare il rischio Vesuvio, in termini di prevenzione rappresenta la mediazione tra due impossibilità: una è quella di spostare il Vesuvio (pericolo) o renderlo perennemente quiescente, e l’altra di spostare i seicentomila abitanti (valore esposto) dalla zona rossa. La seconda via, come s’intuisce, potrebbe essere maggiormente percorribile soprattutto se parliamo di una sostanziale riduzione del numero di abitanti (non occorre desertificare l’area); è inteso in questo caso, che l’attuazione di un siffatto piano di delocalizzazione probabilmente contemplerà tempi lunghissimi misurabili in molti decenni. Il problema grosso però, è trovare accordi politici e amministratori capaci di pianificare ben oltre il loro mandato elettorale…
(continua…)