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Visualizzazione post con etichetta terremoto 9 ottobre 1999 vesuvio. Mostra tutti i post
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giovedì 22 febbraio 2018

Rischio Vesuvio e Campi Flegrei: il rischio vulcanico... di MalKo





Il rischio vulcanico è la possibilità potenziale in un arco di tempo probabilistico ma non deterministico, che possa manifestarsi un’eruzione capace di dare origine a fenomeni magari molto energetici e violenti e incontenibili che possano in una certa misura investire e danneggiare i valori esposti all’eruzione. Questi ultimi sono innanzitutto rappresentati dalla vita umana e poi da tutti i beni materiali che si trovano nel raggio d’azione del vulcano. Tale tipologia di rischio non esclude possibili ripercussioni anche sull’ambiente e sul clima.

Il rischio vulcanico dipende dall’ubicazione geografica del vulcano e dal tipo di eruzione da attendersi e che generalmente è possibile stimare analizzando la storia geologica dell’apparato in questione. Alcuni vulcani si caratterizzano per un'attività prevalentemente effusiva. Altri ancora potrebbero rompere la quiescenza con uno stile esplosivo, così come in altri casi l'attività vulcanica potrebbe avere un indirizzo intermedio tra l'effusivo e l'esplosivo (misto). I più pericolosi probabilmente sono quelli che nella loro storia eruttiva hanno prodotto imprevedibilmente tutti i tipi di eruzione, rimanendo così intatta la necessità della doppia previsione, cioè quando accadrà l’evento e con quale energia.

Le fenomenologie vulcaniche generalmente hanno una virulenza legata all’intensità eruttiva (VEI), con fenomeni energetici che si manifesterebbero con una diversa velocità di propagazione, e che andrebbero ad investire un territorio tecnicamente indicato come zona rossa.

Una lava ad esempio, pur essendo sostanzialmente inarrestabile, è poco pericolosa per la vita umana perché ha un incedere molto lento. I roventi flussi piroclastici invece, hanno una tale velocità di propagazione da essere annoverati tra i fenomeni vulcanici quelli più pericolosi in assoluto.

Nel concetto di rischio vulcanico ci sembra che ad occupare un posto di assoluta rilevanza sia la città di Napoli. Infatti, non ce ne sono moltissime di metropoli nel mondo, dove prendendo la classica ferrovia metropolitana si può passare da un distretto vulcanico all’altro, ovvero da una zona rossa come quella del super vulcano dei Campi Flegrei a un’altra famosissima zona rossa, non meno importante e pericolosa come quella che caratterizza il comprensorio dominato dal mitico Vesuvio. Da vulcano a super vulcano insomma, e viceversa…

La metro di Napoli per assicurare questo collegamento dal flegreo al vesuviano, attraversa in trentacinque minuti una tratta che si snoda in superficie e nel sottosuolo, in un territorio nelle cui profondità chilometriche si estende una unica ed enorme camera magmatica

Il metrò passa in gallerie o trincee che costeggiano estesi banchi di tufo giallo che rappresentano l’ossatura del sottosuolo napoletano prevalentemente di origine vulcanica. Un prodotto lapideo il tufo, generato circa 15.000 anni fa dall’attività esplosiva dei Campi Flegrei, che emisero colate piroclastiche trasformatesi in depositi sciolti poi diagenizzati, che hanno favorito col tempo la litificazione dei materiali. Questi prodotti litoidi sono stati carpiti a piene mani in tutte le epoche storiche per fini edilizi, così come i banchi di tufo sono stati spesso sottoposti a perforazioni ed estrazioni per realizzare cisterne e acquedotti.

Napoli: sottosuolo. Cavità tufacea adibita a cisterna. Si noti l'intonaco di base impermeabilizzante
Nel tufo giallo sferraglia quindi la metropolitana di Napoli, fino a raggiungere il grigio scuro dei lapilli e del basalto vesuviano: un percorso tutto vulcanico al modico prezzo di 1,30 euro… Il metrò comprende nella sua corsa anche una fermata a ridosso di via Diocleziano dove ha sede l’Osservatorio Vesuviano. Per ubicazione quindi, In caso di allarme vulcanico anche i vulcanologi e i tecnici dell’INGV dovranno lasciare la zona rossa flegrea per riparare altrove.
Boscotrecase - Blu Marlin - una colata basaltica  penetrò in questo casolare poi restaurato
Non si capisce la filosofia se non la strategia utilizzata per posizionare la struttura scientifica di sorveglianza (Osservatorio Vesuviano), in piena zona rossa flegrea. Intanto e alla stregua, ad est di Napoli nel vesuviano, si è realizzato l’Ospedale del Mare. Trattasi del più importante nosocomio del sud Italia che dovrà essere anch’esso evacuato qualora dovessero presentarsi le condizioni di preallarme vulcanico. In tal caso costituendo zavorra operativa piuttosto che risorsa strategica in frangenti emergenziali.

Non si capisce neanche a quale genere di prevenzione appartenga la preveggenza politica e scientifica appena descritta, che già negli anni ’80 e in seguito ai fenomeni bradisismici, favorì lo spostamento di parte della popolazione da Pozzuoli a… Monteruscello, cioè dalla zona centrale dell’abitato a quella periferica: in altre parole da zona rossa a zona rossa.

I Campi Flegrei dal 2012, stanno attraversando un periodo di irrequietezza che ha fatto innalzare il livello di allerta vulcanica da base ad attenzione. D’altra parte trattandosi di una zona dove permane una quiescenza quantificabile in circa mezzo millennio, non si può escludere una certa ricarica del sistema magmatico utile per qualsiasi colpo eruttivo. La blanda eruzione del Monte Nuovo nel 1538, avvenne dopo una quiescenza di 3000 anni. Un evento che forse difficilmente avrà riportato le condizioni di volumi e pressioni nella camera magmatica ai valori preesistenti tre millenni prima. La logica porterebbe quindi a ritenere l’evento del 1538 come un episodio di cedevolezza puntiforme rispetto a un bacino magmatico forse molto più esteso e sanguigno.

Nel flegreo intanto si registra una moderata fenomenologia di innalzamento dei suoli (bradisismo), dovuta forse agli effetti del calore sugli acquiferi dettati da intrusioni magmatiche insinuatesi fino a tre chilometri dalla superficie. In un trattato degli anni '60, alcuni scienziati già sancirono che nei Campi Flegrei c'era stata una corposa intrusione dalla notevole incidenza verticale...

A ridosso del vulcano Solfatara in località Pisciarelli, sono intanto aumentate pure le emanazioni gassose di anidride carbonica che hanno raggiunto la cifra record di 3000 tonnellate al giorno. Anche la temperatura delle fumarole ha toccato picchi massimi di tutto rilievo. E poi una certa attività sismica a tutt’oggi persiste anche a livello di sciami, con  la popolazione che non sempre avverte i moderati sussulti. 

Una caldera quella flegrea, così estesa da determinare una serie di problemi in ordine sia alla previsione utile del fenomeno eruttivo, sia alla bocca eruttiva che potrebbe non essere l’unica ad attivarsi nel recinto calderico.

Recentemente il mondo scientifico è diventato prudente a proposito della certezza del preavviso eruttivo, tant’è che l’ex direttore dell’Osservatorio Vesuviano il Dott. Giuseppe De Natale, ha sottolineato che gestire un’emergenza nel flegreo è problematico, perché gli aspetti geologici da valutare sono tanti e particolarmente complessi al punto da poter richiedere tempi di responso sul pericolo, superiori alle necessità operative di tutela delle popolazioni. Nulla da obiettare...

Dall'altro lato invece, il Vesuvio pare sonnecchi con una certa tranquillità: l’allarme più rilevante si ebbe il 9 ottobre del 1999, per una scossa di terremoto con una magnitudo 3,6 (Md), localizzata nell’area craterica del Vesuvio a 3,8 chilometri di profondità.

L’evento fu chiaramente avvertito dalla popolazione vesuviana che rimase sgomenta, non solo per la diretta percezione dei sussulti, ma soprattutto perché l’energia proveniva dal ventre del temuto monte. L'11 ottobre alle 4.35 ci fu una replica sismica da M 2.9 della scala Richter...

In seguito a questa spallata sismica, non furono poche le persone che si allontanarono prudenzialmente dall’area vesuviana. In quel periodo ricordiamo che ci fu una diatriba scientifica fra l’ex direttore dell’Osservatorio Vesuviano Giuseppe Luongo e la direttrice Lucia Civetta. Il primo ribadiva la necessità di dichiarare lo stato di attenzione vulcanica. La seconda tirava ad aspettare per decidere... Si finì a querele presso la procura della repubblica di Torre Annunziata. Trattandosi dell’evento sismico più potente dal 1944, qualche precauzione era forse più che giustificabile. La faccenda alla fine ebbe un risvolto salomonico: de facto si passò allo stato di attenzione vulcanica, ma senza dichiararla…

I recenti comunicati rilasciati dal dipartimento della protezione civile hanno fatto sapere molto garbatamente che per ogni vulcano il passaggio di livello di allerta può non avvenire necessariamente in modo sequenziale o graduale, essendo sempre possibili variazioni repentine o improvvise dell’attività, anche del tutto impreviste. 

Certamente in una condizione sociale dove persistono problematiche di ogni tipo, il rischio vulcanico a torto o a ragione in assenza di segnali percepibili di allarme non rientra nelle immediate attenzioni della popolazione esposta: figuriamoci nelle altre frange ubicate altrove. Ce ne rendiamo perfettamente conto...

Mentre possiamo trovare soluzioni alle nostre necessità giornaliere, il rischio vulcanico intanto non declasserà mai, se non in tempi geologici ma non per scomparire ma per ripresentarsi altrove. Come sapete, nonostante per il futuro si faranno passi in avanti nelle tecniche di previsione dell’evento eruttivo, bisogna cogliere il dato che la natura non ha pietà per alcuno, perchè non deve averne, e i suoi meccanismi energetici sono una incessante macchina da riciclo per garantire ovunque e comunque la vita sul Pianeta. C'è da chiedersi: per l'uomo o senza l'uomo?

L’inestricabile connubio tra uomo e vulcano nel napoletano, ha assunto valori di ineluttabilità e senza farci tante illusioni, piani di prevenzione non ce ne sono, ma in ogni caso difficilmente si riuscirebbero ad attuare, perché la percezione ingannevole non lascia intravedere e soppesare la reale pericolosità di vivere a ridosso di vulcani esplosivi.

L’unico strumento che oggi abbiamo per difenderci dalle eruzioni, è un ragionato piano di evacuazione. Un piano che serve ad azzerare il valore esposto prima che il fuoco magmatico irrompa in superficie. Forse con qualche legge che inibisca l’incremento abitativo in zona rossa insieme al varo e alla costruzione di qualche carreggiata dedicata all’evacuazione, si potrebbe tentare di migliorare all'occorrenza la gestione della fuga dal vulcano. Purtroppo cattura più attenzione il dibattito sul condono edilizio.

Uno dei principali temi su cui dover riflettere, è che l’intera organizzazione dell’evacuazione si basa su un semplice quanto enigmatico presupposto tutto sbilanciato sulla previsione della previsione dell’evento eruttivo…cioè della serie prevediamo di prevedere l'eruzione un certo tempo prima. Statisticamente non è confortante...

La situazione più drammatica che potrebbe prefigurarsi un domani? Il varo dello stato di attenzione anche per il Vesuvio: per Napoli sarebbe un thriller alla Hitchcock.




sabato 25 maggio 2013

Rischio Vesuvio parte quarta.



"Rischio Vesuvio parte quarta" di MalKo
Il Vesuvio è un vulcano che sovrasta l’omonima plaga. Orientativamente il territorio strettamente vesuviano è quello marcato dai confini territoriali dei diciotto comuni della zona rossa e dalle frange di territorio appena confinanti. Per vesuviani dobbiamo intendere i circa seicentomila abitanti che vivono accalcati ai piedi e nella fascia pedemontana del Vesuvio, che in loco è chiamato la montagna. Anche se il Vesuvio è sempre stato abbinato come immagine olografica alla città di Napoli, in realtà il vulcano appartiene ai vesuviani, perché sono quelli che possono vantare nel bene e nel male un vissuto con il famoso vulcano: non si può dire la stessa cosa dei napoletani.
Per far capire la differenza tra i napoletani e i vesuviani possiamo fare un esempio semplicissimo richiamando le differenze che passano tra un villeggiante che si reca in estate al paesino sul mare e il pescatore del posto.
Il bagnante stagionale va lì in agosto, quindi si gode il sole, la tranquillità e la frescura del mare; dopodiché, ai primi accenni di cambiamento di stagione va via.  Il pescatore godrà anche lui degli aspetti estivi del luogo ma rispetto al villeggiante occasionale dovrà vivere anche la solitudine invernale, il freddo, il vento tagliente di gennaio e il mare in tempesta che dovrà poi affrontare per sopravvivere.
I napoletani pertanto godono della “parte migliore” del Vesuvio ma non vivono il rischio, almeno quello azzardoso che questa promiscuità col monte comporta. Il loro rapporto con il vulcano è più distaccato. Anche da un punto di vista geologico i suoli della metropoli partenopea derivano dalle eruzioni dei campi Flegrei e poco da quelle del Vesuvio. Infatti, saranno proprio i prodotti flegrei a dare origine al famoso tufo giallo napoletano che caratterizza l’edilizia e le grandi opere sotterranee risalenti a oltre duemila anni fa, come gli acquedotti scavati interamente a mano nel sottosuolo tufaceo della città.
Per chi conosce entrambe le mentalità, sa che al napoletano non appartiene l’idea del Vesuvio come elemento di altissimo rischio. Non perché non lo sia almeno per un settore cittadino (nel merito l’articolo sul National Geographic ha aperto la discussione), piuttosto perché non c’è memoria di questo. Pur leggendo fra le cronache che hanno accompagnato le ultime due eruzioni, singolari menzioni concernenti il crollo di qualche tettoia dovuto all’accumulo di cenere e altri disagi affini, si è propensi a ritenere marginali i danni al tessuto strettamente urbano derivanti da eruzioni vesuviane di piccola, media o medio/alta intensità. Anche perché la Napoli storica non era urbanizzata massicciamente con agglomerati spinti fino ai limiti dei territori vesuviani. Quindi, i fenomeni eruttivi arrivavano blandi,  per effetto delle distanze e i venti soventi favorevoli (occidentali) ovvero utili a proteggere la città.
Forse il pennacchio di fumo che contraddistingueva il Vesuvio fino al 1944 è stato per molti versi un deterrente all’urbanizzazione nel settore sud orientale. Oggi il discorso è totalmente diverso, perché la città di Napoli è ampiamente popolata anche in quella direzione e fino ai margini della zona rossa. Purtroppo nella parte orientale si trovano anche alcuni impianti industriali forse a rischio che andrebbero rivalutati in termini di ubicazione o diversamente protetti, tenendo in debito conto il pericolo vulcanico.
L’eruzione più potente che si segnala nell’ultimo secolo è stata quella del 1906. I vesuviani furono colpiti pesantemente dal fenomeno contando circa duecento morti prevalentemente nelle cittadine di Ottaviano e San Giuseppe Vesuviano. L’ultima eruzione invece è stata quella del 1944 che passò un tantino in sordina nel panorama nazionale per gli eventi bellici in corso. Non fu così per i vesuviani invece, perché anche l’eruzione del 1944 che non fu particolarmente forte, innescò comunque lave che distrussero alcune contrade portando allarme in diversi paesi. In entrambe le eruzioni, le cronache registrano un affollarsi di carretti che lasciavano le zone a rischio, ma anche un affollamento inverso, un andirivieni di curiosi, studiosi, giornalisti e artisti che, per vedere il fronte lavico che avanzava, ingaggiavano guide e mezzi di trasporto tra i più svariati.
La prima riflessione che possiamo fare su questo argomento e che gli intervalli di pace geologica del Vesuvio sono sempre stati lunghi abbastanza da consentire l’instaurazione di insediamenti stabili. Questo significa che eventi particolarmente catastrofici se ne contano pochissimi, almeno negli ultimi millenni.  Purtroppo però, questi non possono mai matematicamente escludersi, anche se nel calcolo delle percentuali di probabilità assumono un indice statistico basso. Una stortura dobbiamo comunque riconoscerla: a prescindere dal tipo di eruzione che ci si può  attendere, danni alle case, alle strutture, infrastrutture e terreni agricoli sono certi. Ne consegue che da nessun punto di vista è possibile giustificare la sconfortante urbanizzazione che è stata fin qui perpetrata, che è bene ricordare ha raggiunto anche la parte superiore dei declivi  pedemontani del vulcano.
I vesuviani appalesano una certa disinvoltura a proposito di questo rischio. Ma è proprio così? Assolutamente no! Per spiegare perché si accetta un azzardo di questo tipo, bisogna rifarsi a degli esempi. Il fumatore sa benissimo che il fumo fa male però non smette. Almeno fino a quando una prova inconfutabile e possibilmente diretta, cioè avvertita fisicamente (tosse catarrale, asma, ecc…), non gli da sentori che il suo stato di salute è molto compromesso. La migliore tecnica di prevenzione sarebbe smettere subito con nicotina e catrame senza attendere il peggio. Perché ci si riduce invece agli ultimi termini?  Perché esistono molti casi di persone che pur fumando accanitamente sono vissute a lungo… e il tabagista molto spesso si autogiustifica ritenendosi ottimisticamente parte di questi “fortunati”. E poi inconsciamente il fatto che lo Stato trae profitti dalla vendita del tabacco a torto lascia inquadrare il prodotto come non eccessivamente nocivo.
Entriamo  un attimo nel campo che riguarda la sfera del comportamento umano. Per avvertire in modo utilmente preoccupante un pericolo, l’uomo ha bisogno di percepirlo con uno dei cinque sensi. Ecco perché il pennacchio di fumo che caratterizzava il cratere del Vesuvio fino all’ultima eruzione era comunque un deterrente all’urbanizzazione. Si vedeva fumo. La montagna serbava quindi fuoco e lo segnalava continuamente. L’uomo ha bisogno di segnali percepibili per comprendere in concreto e  di fatto una situazione pericolosa.
Che il Vulcano sia un pericolo lo apprendiamo oggi solo analiticamente ma non lo constatiamo coi sensi. Pertanto non è da escludere che il rischio Vesuvio è accettato dai più, non per cosciente metabolizzazione del problema, bensì semplicemente perché non si percepisce come pericolo, e anche perché nessuna equazione matematica da scontato che in futuro possa avvenire un’eruzione e ancora che questa debba essere addirittura esplosiva. Questo comportamento obliante per certi versi crea problemi, perché, se il pericolo dovesse manifestarsi improvvisamente, scatterebbe contrariamente a quanto ostentato in precedenza un panico di tipo addirittura atavico. pertanto, quando per televisione seguiamo interviste ai cittadini vesuviani che generalmente assumono un atteggiamento di pacata e fatale rassegnazione, a tratti di sfida del pericolo, in realtà non siamo di fronte a manifestazioni di coraggio, bensì ci troviamo di fronte ad atteggiamenti dovuti all’impercettibilità del pericolo potenziale e, quindi, di sottovalutazione di quello che è realmente l’indice di rischio vulcanico.
A prova della tesi dei segnali chiamiamo in causa l’evento sismico che si verificò nell’area vesuviana il 9 ottobre 1999 alle ore 7,31. Quella fu la “vera” esercitazione di protezione civile. La magnitudo del sisma fu pari a 3,6 della scala Richter. Fu il terremoto più forte mai registrato nell’area vesuviana dall’eruzione del 1944.  Segno premonitore? Fu scompiglio e allarmismo tra la popolazione. Sconcerto e indecisione da parte del mondo scientifico che perse tutto il suo illuminismo e non seppe dare una risposta interpretativa all’improvviso tremore litosferico, al punto che si scatenò un acceso dibattito fra scienziati che finì con denunce alla Procura della Repubblica di Torre Annunziata. Gli esiti giudiziari ancora non si conoscono. Vivere questo momento di crisi da una postazione privilegiata come la sala operativa del comune di Portici, è stato molto istruttivo. Se quella scossa fosse stata seguita da altre a distanza ravvicinata, sarebbe stato un disastro in termini di panico. Con l’eruzione,  una vera e immane tragedia.
(Continua…)