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domenica 10 novembre 2013

Il Vulcano Stromboli...di Malko

Il vulcano Stromboli
“Il Vulcano Stromboli e l’arcipelago delle Eolie” di MalKo

Quando un po’ di anni fa raggiungemmo l’isola di Stromboli con una motobarca,apprezzammo immediatamente l’odore caratteristico di lava e fiori misti alla salsedine. Ci avvicinammo di poppa alla riva gettando l’ancora a poche decine di metri dai sassolini vulcanici arrotondati dall’onda. Dopo aver filato tutto il cavo a disposizione, l’ancora rimase comunque appennellata, cioè non toccava il fondo. Aggiungemmo altro cavo ma senza successo. Per avere un appiglio dovettimo quasi toccare riva. Alzammo allora il capo seguendo il profilo del monte, che altro non era che la parte più piccola dell’edificio vulcanico che si ergeva dagli abissi marini…
Lo Stromboli ancora oggi viene definito il faro del Mediterraneo. Quest’appellativo la dice già lunga sulla tipologia eruttiva che, pur non essendo particolarmente violenta, presenta una sequenza continua che dura da alcuni millenni, consentendo all’isola l’ingresso nella top 10 dei vulcani più eruttivi del mondo. Il faro naturale praticamente è sempre acceso e fornisce un punto di riferimento ben preciso ai naviganti, che lo cercano dalle plance dei bastimenti nelle notti buie…
Il cono dello Stromboli è uno dei sette apparati che svettano fuor d’acqua nel Tirreno meridionale, ma dobbiamo annoverare anche un bel po’ di fratelli vulcanici dell’arco eoliano, come il Palinuro e il possente Marsili che, pur dominando le profondità marine, non sono riusciti ad emergere mantenendo quindi un ruolo defilato di seamount.
Il Dott. Daniele Andronico, ricercatore dell’INGV di Catania,annovera tra le sue attività istituzionali anche lo studio di questa particolare e spettacolare e panoramica zona insulare, che comprende non solo i vulcani dell’arcipelago delle Eolie, ma anche il maestoso Etna che sarà oggetto di un prossimo articolo dedicato.

Dott. Andronico cos’è l’arco eoliano?
L’arco Eoliano è il risultato della collisione tra la placca Africana e quella Euroasiatica e si trova, in particolare, tra il bacino di retroarco del Mar Tirreno Meridionale e la catena orogenica dell’Arco Calabro. La sismicità registrata in quest’area ci indica che una porzione della placca Africana è in “subduzione” (s’immerge) sotto la placca Euroasiatica, dando origine al vulcanismo delle isole Eolie. Le rocce più antiche di questi apparati sono state datate intorno a 1.3 milioni di anni di età, che viene considerata anche la data di nascita dell’arcipelago, costituito com’è noto, da ben sette isole vulcaniche.

Quali sono le caratteristiche del vulcano Stromboli?
Stromboli è l’isola più settentrionale dell’arcipelago, e la sua porzione subaerea che si eleva fino a un massimo di 924 m in località Vancori, si è iniziata a formare circa 85000 anni fa. Oggi sappiamo, grazie ad accurati rilievi batimetrici, che il vulcano si estende fino a circa 1500-1800 m sotto il livello del mare, formando un cono quasi regolare, con fianchi ripidi e uniformi. La citatissima Sciara del Fuoco, la depressione che nella porzione subaerea dello Stromboli occupa il fianco nord-occidentale dell’isola, continua ancora per parecchie centinaia di metri sotto il livello del mare, fino a confluire in una zona di accumulo. La morfologia di questa porzione del vulcano attesta in qualche modo le cause della sua formazione, legate a ripetuti fenomeni di instabilità e di collasso del fianco vulcanico.
L’isolotto di Strombolicchio che si erge appena dal mare a quasi due chilometri  di distanza dallo Stromboli, rappresenta invece ciò che rimane di un edificio vulcanico più antico (oltre  200000 anni), smantellato nel tempo dagli inarrestabili fenomeni di erosione marina.

Sarà proprio l’attività stromboliana che si manifesta prevalentemente all’interno del cratere, anche in termini di lava, che ha consentito al vulcano di “uscire” dall’acqua senza essere preda dell’erosione marina?
L’attività ordinaria dello Stromboli, osservata fin da epoca romana, consiste in esplosioni stromboliane persistenti, che si susseguono con una frequenza eruttiva oraria che può variare significativamente anche nello stesso giorno, con una media di 5 - 10 esplosioni l’ora, durante le quali vengono emessi ceneri, lapilli e bombe. I prodotti più grossolani possono raggiungere i 200 m di altezza e, ricadendo verso il basso, si accumulano sulla sommità e sui fianchi del vulcano, contribuendo alla sua graduale crescita. Attualmente l’attività eruttiva ordinaria avviene dentro la terrazza craterica (localizzata sulla sommità dell’apparato), dove convenzionalmente sono presenti 3 aree crateriche e alcune bocche eruttive attive contemporaneamente (in genere da 2 a 6). Durante l’attività ordinaria, si possono occasionalmente verificare emissioni di modeste colate laviche che restano confinate dentro la terrazza o al più fuoriescono per alcune decine di metri sull’orlo nord-occidentale del vulcano, riversandosi nella Sciara del Fuoco.
La struttura geologica dello Stromboli, così come la sua storia eruttiva, ci mostra che l’attività ordinaria può essere interrotta da eruzioni prevalentemente effusive, che producono colate laviche dalla sommità o dai fianchi del vulcano. Le lave, cioè i prodotti dell’attività effusiva, sono più resistenti all’azione del mare e riescono a proteggere meglio i versanti vulcanici dall’offesa erosiva. I vulcani costituiti da prodotti più incoerenti dell’attività esplosiva (ceneri, lapilli e bombe) invece, sono maggiormente soggetti all’azione dirompente del mare.
Non va dimenticato, comunque, che durante la sua storia eruttiva lo Stromboli ha prodotto anche eruzioni parossistiche, cioè eventi vulcanici d’intensità e durata maggiore rispetto alle esplosioni stromboliane, capaci di modificare parzialmente o significativamente la morfologia dell’edificio vulcanico.
Negli ultimi anni, ad esempio, abbiamo assistito a due di questi eventi, avvenuti il 5 aprile 2003 e il 15 marzo 2007, in seguito ai quali la terrazza craterica è stata completamente distrutta a causa di collassi craterici. In entrambi i casi, sono stati necessari alcuni anni di attività stromboliana ordinaria affinché si potessero nuovamente formare e distinguere in sommità, dal punto di vista morfologico, aree crateriche, coni di scorie e bocche esplosive.

Al Palinuro sono mancati solo 84 metri per essere un vulcano subaereo…
È vero, ma se alla fine della sua attività eruttiva la parte emersa fosse stata formata solo da prodotti dell’attività esplosiva piuttosto che da colate di lava, probabilmente non avrebbe avuto vita lunga. Basti pensare all’isola Ferdinandea, il vulcano nato e cresciuto tra la fine di giugno e la fine di agosto 1831 nel canale di Sicilia in seguito a un’eruzione sottomarina. Sebbene l’intensa attività esplosiva avesse costruito un cono emerso di ben 60 m, in pochi mesi l’isola, inizialmente contesa tra inglesi, francesi e italiani, scomparve nuovamente sotto il livello del mare a causa dell’azione distruttrice delle correnti marine, tanto da meritarsi in seguito l‘appellativo di “isola che non c’è”. In quel caso, fu soprattutto la mancanza di lava a rendere inconsistente la compattezza dell’isola.

Dott. Andronico, il fatto che lo Stromboli sia permanentemente in eruzione salvaguarda la popolazione da eruzione a maggiori energie?
Non è esattamente vero. Quando si parla dei pericoli per l’esposizione a un vulcano, bisogna innanzitutto rifarsi alla sua storia eruttiva (anche recente) e allo studio dei depositi ad essa associati. Per quanto riguarda lo Stromboli, sappiamo benissimo, senza andare troppo indietro nel tempo, che nel secolo scorso l’attività eruttiva del vulcano è stata caratterizzata da un’eruzione particolarmente energetica. Nel 1930, infatti, lo Stromboli produsse una serie di fenomenologie eruttive devastanti per gli abitanti che in migliaia abbandonarono l’isola per sempre. Basti pensare che oggi, in pieno inverno, a Stromboli vivono circa 350 persone…
Anche negli ultimi anni, gli eventi parossistici più energetici hanno causato direttamente o indirettamente danni rilevanti. Ad esempio, la ricaduta di blocchi di dimensione metrica ha distrutto alcune abitazioni sulle pendici inferiori del vulcano. Eventi di frana lungo la Sciara del Fuoco poi, hanno generato in alcuni casi onde di tsunami che hanno impattato la fascia costiera dell’isola, mentre la caduta di prodotti sufficientemente caldi sui fianchi vegetati del vulcano, ha innescato incendi di una certa gravità che hanno talora minacciato da vicino gli insediamenti abitativi.

L’INGV di Napoli ha a che fare con vulcani più silenti ma molto più pericolosi. La struttura di Catania ha compiti più facili in termini di sorveglianza vulcanica rispetto ai colleghi napoletani?
L’Osservatorio Etneo, Sezione di Catania, ha come compiti istituzionali il monitoraggio sismico e vulcanico di tutta la Sicilia orientale. Ciò vuol dire la sorveglianza di vulcani tanto affascinanti quanto “attivi” come Etna, Stromboli 
L'Etna

e Vulcano, attraverso l’acquisizione di tutta una serie di parametri vulcanologici, geofisici e geochimici, trasmessi da decine di stazioni di monitoraggio. Prendiamo l’Etna, uno dei vulcani più attivi del mondo: negli ultimi 20 anni ha prodotto molto frequentemente eruzioni esplosive di tipo parossistico. Queste eruzioni, per lo più sotto forma di fontane di lava, sono caratterizzate dalla formazione di colonne eruttive la cui porzione sommitale viene poi sospinta dai venti dominanti in quota, causando ricaduta al suolo di ceneri, lapilli e scorie fino a decine di km di distanza dal vulcano. Prima ancora di cadere a terra, tuttavia, queste nubi eruttive possono essere una fonte di grande pericolo per il traffico aereo, perché il materiale vulcanico può danneggiare in maniera irreversibile carlinghe e motori degli aerei, e quindi ridurre la sicurezza dei voli. L’aeroporto di Catania è uno dei più importanti d’Italia in termini di numero di passeggeri e voli; uno dei nostri compiti più critici è proprio quello di avvisare gli enti aeroportuali della possibile presenza di particelle vulcaniche in sospensione nello spazio aereo regionale, oltre che della possibile ricaduta di materiale piroclastico direttamente sulle piste di atterraggio. Le analisi dei segnali acquisiti ci permettono di dare con sufficiente anticipo un’allerta sull’imminenza di un evento parossistico e, attraverso sofisticati modelli numerici che simulano la propagazione delle ceneri vulcaniche, anche lo spazio aereo eventualmente coinvolto e la probabile area di ricaduta al suolo dei materiali trasportati dal vento.
Se si pensa che dal 1998 ad oggi ci sono state oltre 150 fontane di lava, fenomeni all’origine del problema, possiamo ben comprendere quanto sia decisiva l’attività scientifica di sorveglianza e monitoraggio svolta dal nostro personale. L’ultimo episodio di fontana di lava è avvenuto pochi giorni fa, esattamente il 26 ottobre 2013.
Ringraziamo il Dott. Daniele Andronico per averci illustrato in modo semplice ed efficace i processi di formazione delle isole Eolie e dello Stromboli con alcune caratteristiche che differenziano i vari apparati ed altre ancora che lasciano intuire il complicato lavoro di sorveglianza vulcanica effettuato dalla struttura scientifica etnea. I ringraziamenti sono ancora più sentiti, perché la collaborazione giornalistica è avvenuta in un momento di notevoli impegni lavorativi dettati appunto dall’ennesima e attualissima eruzione dell’Etna.
Il Dott. D. Andronico ci ha ricordato inoltre e a proposito dell’Etna, quanto sia importante per la sicurezza del traffico aereo  l’informativa sulla dispersione delle ceneri vulcaniche in quota e al suolo. E’ interessante notare, da questo punto di vista, che il servizio geologico americano (USGS) nella diramazione dei livelli di allerta vulcanica segnala in contemporanea anche il livello di rischio per l’aviazione dettato dalla cenere e dalla polvere dispersa nell’atmosfera. Le due pericolosità infatti, possono non andare di pari passo.

-    Foto di copertina -  Il Cratere Sud di Stromboli in eruzione al tramonto: attività stromboliana dalla bocca centrale, e intensa emissione di gas caldi da una bocca laterale. Immagine scattata a maggio 2013 da D. Andronico

-     Foto pag.4  - Etna 2012 - MalKo

domenica 20 ottobre 2013

Il vulcano Palinuro: lo tsunami e l'esercitazione TWIST...di Malko


Lo stretto di Messina

“Il Vulcano sommerso Palinuro origina uno Tsunami nel Tirreno: è solo un’esercitazione, la TWIST… ” di MalKo

Alcuni senatori del Movimento a Cinque Stelle (M5S), hanno predisposto un’interrogazione parlamentare che mette in discussione la scelta della città di Salerno come centro dell’esercitazione internazionale denominata TWIST, in cui si simula la formazione di un maremoto generato da una frana staccatasi dal vulcano sommerso Palinuro, con onde che s’infrangono sul litorale cittadino e provinciale salernitano.
A detta dei rappresentanti stellati, la manifestazione avrebbe avuto risvolti più realistici se si fosse tenuta nella zona dello stretto di Messina (foto d'apertura). L’assessore alla protezione civile del comune di Salerno, De Pascale, si è meravigliato dell’appunto parlamentare incolpando i grillini di inesattezza e di incoerenza  con qualche spunto polemico anche sull’energia geotermica associata al vulcanoMarsili.
Le onde di Tsunami si formano generalmente per effetto di un terremoto, di una frana o di un’eruzione vulcanica. Pure la caduta in mare di un asteroide potrebbe formare onde altissime, in questo caso e con un pizzico di fantasia, potremmo accostare il rischio proveniente dal cosmo a una sorta di frana dalla massa non preventivabile, che piomba da altezze impensabili a velocità di alcune migliaia di metri al secondo fiondandosi nel mare. Se ciò avvenisse, le conseguenze ovviamente sarebbero apocalittiche…
“Fortunatamente” la maggior parte degli tsunami sono associati in genere a violenti terremoti, come quello che avvenne in mare a Creta il 21 luglio del 365. La scossa sismica che superò l’ottavo grado della scala Richter, generò uno tsunami che flagellò Alessandria d’Egitto, Cipro, la Palestina, la Tunisia, la Cirenaica, ma anche la Sicilia e la Calabria con onde che superarono i dieci metri d’altezza.
I maremoti più violenti che si sono avuti in Italia afferiscono a due eventi sismici tra i massimi registrati nella nostra Penisola, con magnitudo superiore al settimo grado Richter, come quello potentissimo dell’11 gennaio del 1693 che flagellò la Sicilia orientale (Val di Noto). La cronaca cita crolli,rovine e onde di dieci metri che spazzarono la costa.  Ancora più tragico per il numero altissimo di vittime fu il terremoto del 28 dicembre 1908 localizzato sempre in Sicilia nello stretto di Messina. Alle case che crollarono, si dovettero aggiungere i danni provocati dalle onde di maremoto che, come quelle sismiche, investirono anche la città di Reggio Calabria, disastrandola in quella che sarà ricordata come la maggiore calamità europea del ventesimo secolo.
Il terremoto di Lisbona nel 1755 cagionò sommovimenti che in questo caso superarono l’ottavo grado della scala Richter. Subito dopo il sisma si ebbe un ritiro delle acque seguito da un possente maremoto che invase il tessuto litoraneo cittadino aggravando una situazione già notevolmente drammatica. Le onde si propagarono pure nell’Atlantico raggiungendo i Caraibi e altre isole ubicate a circa cinquemila chilometri di distanza dalla capitale europea.
Il primo aprile del 1946 un terremoto verificatosi nei pressi dell’arcipelago delle Auletine formò uno tsunami che dopo quasi cinque ore si riversò sulle Hawaii con onde alte che inflissero alla città di Hilo pesanti danni.  L’intensità del sisma non fu particolarmente violenta. Da qui il dubbio che non fu solo il terremoto a smuovere le acque…
Nel dicembre del 2004 un fortissimo terremoto sconquassò i fondali di Sumatra generando uno tsunami che sferzò l’isola in modo particolarmente violento colpendo anche a distanza e nel giro di due ore lo Sri Lanka e la Thailandia e altri luoghi lontani ma esposti radialmente al fenomeno con gravissime perdite di vite umane.
Tsunami si sono verificati pure recentemente in Giappone nel 2011. Le immagini fornite dai media con l’irrefrenabile ingressione del mare nell’entroterra furono veramente angoscianti. In quel caso fu allarme all’allarme con la fuga di elementi radioattivi dalla centrale nucleare di Fukushima che presentò grossi problemi a uno dei reattori. I sistemi elettrici di emergenza tarati per un’onda anomala di sei metri, furono sommersi dalle acque che raggiunsero invece i quattordici metri di altezza. Bisogna anche dire che quello di Tohoku è stato il più forte sisma mai registrato nella terra del Sol levante con una magnitudo nove della scala Richter.
Le frane, anche quelle sottomarine, sono probabilmente al secondo posto come eventi capaci di produrre tsunami. Tra questi si annoverano alcuni importanti fenomeni come quello di Terranova nel 1929 e quello che occorse nel Golfo d’Alaska nel 1958. Nel mese di dicembre 2002 una frana inizialmente sub marina e poi aerea si staccò dal vulcano Stromboli, nel nostro Tirreno, generando un’onda anomala che cagionò danni solo sui vicini litorali fortunatamente quasi deserti.
Alle eruzioni vulcaniche sottomarine e marine, si addebitano maremoti importanti come quello che seguì la famosa esplosione del vulcano Krakatoa in Indonesia nel 1883, riportata negli annali come tra le più potenti eruzioni mai verificatasi sul Pianeta.
In quel caso pare che ci siano state una serie di concause a generare un treno di onde di maremoto: un’esplosione dovuta all’acqua di mare entrata nella camera magmatica, i flussi piroclastici che si staccarono copiosi dal vulcano e molto probabilmente e come causa predominante il collasso e lo sprofondamento dell’apparato vulcanico che si sbriciolò. Per avere un’idea del fenomeno tsunami che si ebbe col Krakatoa nella sua dirompenza massima, si cita sovente una nave da guerra che fu presa dalle onde e deposta a più di due chilometri all’interno della giungla.
Alla stregua del Krakatoa bisogna citare la più remota eruzione di Thera (Santorini) verificatasi nel 1650 a.C. in Grecia. Pare che questa sia stata l’eruzione più potente in assoluto almeno negli ultimi diecimila anni, che causò anche uno tsunami che è indicato come fattore predominante della forse leggendaria e rovinosa caduta di Atlantide. Di sicuro le onde spazzarono violentemente l’isola di Creta e con essa la civiltà minoica che si dissolse probabilmente anche per i frequenti terremoti che flagellavano l’area. Da questa eruzione comunque, si formarono onde di maremoto che raggiunsero pure l’Italia nel settore rivolto a est. Il distretto di Santorini e dintorni è ancora oggi da tenere sotto strettissima osservazione…
L’ultimo grande maremoto generatosi nel Mediterraneo orientale per effetto di un forte sisma (8° Richter), fu quello che si sviluppò nei pressi dell’isola di Rodi l’8 agosto 1303.  
Le conclusioni che possiamo trarre vanno nella direzione che anche il mare nostrum può essere interessato da onde di maremoto, anche se l’oceano Pacifico rimane il luogo preferenziale di formazione di questo spettacolare e micidiale fenomeno che acquista vigore dalle profondità marina.
Nel Mediterraneo le sorgenti che possono generare maremoti sono abbastanza vicine alla costa. Quindi, sensori di allarme o altri sistemi tecnologicamente all’avanguardia che in altri luoghi si rivelano molto utili per la salvaguardia delle collettività rivierasche, da noi devono fare i conti con tempi troppo stretti per essere di una certa efficacia protettiva per le popolazioni costiere. Questo significa che bisogna lavorare intanto sulla prevenzione evitando di costruire strutture particolarmente importanti in prossimità dei litorali esposti. La centrale di Fukushima ad esempio, forse andava edificata nell’entroterra.
Le scogliere o altre barriere possono se non difendere almeno mitigare gli effetti delle onde di tsunami,soprattutto per i punti più vulnerabili della costa. Le case in cemento armato resistono meglio al passaggio dell’acqua, così come sui litorali indifesi risulta provvidenziale non costruire al piano terra.
Generalmente il ritiro improvviso ed esteso delle acque (anche il contrario) dal bagnasciuga potrebbe essere un indicatore di rischio, mentre la notizia di forti scosse di terremoto localizzate in mare, dovrebbe indurre la popolazione esposta a prestare attenzione ad eventuali comunicati radio di allarme.
La possibilità di sfruttare l’energia geotermica dai fluidi caldi che circolano nel vulcano sottomarino Marsili è un bel progetto. L’utilizzo della geotermia in mare aperto potrebbe mitigare i pericoli derivanti dal riporto in superficie di sostanze non proprio innocue contenute nelle acque minerali calde, anche se il processo necessita di una valutazione d’impatto ambientale. 
Il problema del Marsili nella faccenda del geotermico e dei tsunami, sono i costoni instabili e scoscesi del vulcano sommerso, soggetti alla permanente forza di gravità. Un loro distacco per motivi naturali o artificiali potrebbe generare una frana dagli esiti incerti a proposito della formazione di un maremoto. Per avere un quadro ineccepibile sui livelli di rischio legati al deepwater drilling, abbiamo formulato un preciso quesito all’INGV nel mese di agosto. Siamo in attesa di una risposta che quando arriverà pubblicheremo.
Per quanto riguarda la scelta di Salerno come luogo dove si svolgerà tra pochi giorni l’esercitazione di protezione civile TWIST (Tidal Wave in southern Thyrrenian sea), la statistica degli eventi depone a sfavore della panoramica città. E’ la Sicilia ad essere soggetta particolarmente al rischio maremoto. Basta vedere la cartina in basso che abbiamo introdotto nell’articolo per lasciare intuire anche visivamente che la Trinacria è esposta ai possenti fenomeni dell’arco ellenico, sede di grande instabilità geologica, a quelli dell’arco calabro ed ancora  a quelli dell’arco eolico, comprensivo appunto dei vulcani Marsili, Palinuro,ecc…

Lo stretto di Messina poi, rappresenta certamente una strettoia geografica dove le eventuali onde di maremoto provenienti non solo da est, potrebbero aumentare la loro altezza.
La campagna informativa “Maremoto: io non rischio!” che precede il momento esercitativo, avrebbe avuto quindi una maggiore enfasi se si fosse svolta nella località italiana maggiormente e realmente sferzata da questo fenomeno nel passato, cioè la Sicilia orientale con le città di Catania, Messina, Augusta e Siracusa. Fermo restante che anche nel Tirreno meridionale il rischio maremoto comunque sussiste, anche se non ci sembra immediatamente evincibile dalla letteratura scientifica una storia pregressa di onde particolarmente alte e invadenti.Il futuro però, e lo riconosciamo, è sempre un'incognita anche geologicamente parlando...
Probabilmente la città di Salerno è stata indicata centro dell’esercitazione per sopperire a esigenze di varia natura che poco hanno a che fare con gli scenari tsunamici. Alla stregua del centro direzione e comando (DICOMAC) che sarà installato sulla litoranea (stadio Arechi) a pochi passi dal mare. Una decisione, si legge nel depliant, condizionata dalle esigenze esercitative. Quindi, la scelta delle tende pneumatiche è solo un caso…

martedì 8 ottobre 2013

Il Vulcano Palinuro:...di Malko




Uno scorcio di Capo Palinuro. 
"Il vulcano Palinuro" di MalKo
Il vulcano Palinuro è immerso nelle profondità tirreniche a circa cento chilometri dalla costa cilentana (Salerno), ergendosi abbastanza da poter essere raggiunto da un provetto subacqueo o da una lenza da pesca lunga una ottantina di metri. Quasi tutto il naviglio che naviga verso le isole Eolie o la Sicilia, passa sopra o vicino al misterioso monte sottomarino, senza nessun tremito per i viaggiatori che in gran parte non sanno che su quei fondali si contano un discreto numero di  bocche eruttive.
Sul finire di ottobre 2013, a Salerno e nel salernitano ci sarà un’esercitazione di protezione civile cofinanziata dalla comunità europea. Lo scenario operativo simulerà un’onda di maremoto generata da una frana sottomarina staccatasi dai versanti del vulcano Palinuro. Il Dipartimento della Protezione Civile ha scelto quest’apparato tra quelli giacenti nelle profondità tirreniche, perché dice, è quello più vicino alla costa. Non dovrebbe essere però,  quello a maggior rischio frane, atteso che, da questo punto di vista, secondo autorevoli scienziati è  il Marsili a fare storia. Infatti, qualche anno fa questo gigante degli abissi fu additato come potenziale flagellatore del Mediterraneo, per i suoi fianchi rocciosi flaccidi e in bilico, pronti a generare Tsunami terrificanti…
Certamente la storia dei maremoti nel Mediterraneo non è particolarmente ricca di eventi. Alcuni importanti fenomeni comunque ci sono stati e anche catastrofici, come lo tsunami che si formò in seguito all’eruzione e al collasso calderico dell’isola di Santorini, circa 3600 anni fa. Da notare che quasi in quel periodo avvenne anche la terribile e potentissima eruzione del Vesuvio chiamata pliniana di Avellino. Altri maremoti si ebbero col terremoto di Creta del 21 luglio dell’anno 365. In questo caso le onde di nove metri di altezza flagellarono il litorale greco, quello libico e la città di Alessandria  d’Egitto, dove lo storico Marcellino Ammiano annotò l’evento. Anche la linea di costa italiana rivolta a Creta fu investita dalle onde di maremoto, che impiegarono poco più di un’ora per infrangersi sui litorali orientali della Sicilia e della Calabria ionica..
Nel 1908 furono i sommovimenti del terremoto di Messina a formare onde di maremoto dirompenti che si schiantarono sulle coste calabre e sicule non senza danno. Nel dicembre del 2002 un’onda anomala fu generata da una frana staccatasi dai versanti emersi e sommersi dello Stromboli, con danni limitati ma forse un po’ ingigantiti dai media e dalla loro necessità di cronaca.
Il Prof. Girolamo Milano geofisico dell’Osservatorio Vesuviano – INGV, ha partecipato a due campagne oceanografiche nel 2007 e 2010 che hanno consentito di conoscere meglio il vulcano Palinuro che, come accennato in precedenza, sarà appunto il protagonista dell’esercitazione TWIST (Tidal Wave in southern Thyrrenian sea).

Nel merito del vulcano che ha assunto il nome del nocchiero di Enea che lì si perse tra i flutti, il Prof. Milano intervistato sull’argomento, ci ha gentilmente fornito interessanti notizie che squarciano un po’ il velo su questi apparati montuosi sommersi :<<  Il Palinuro è ubicato tra il bacino del Marsili a Sud, la catena appenninica ad Est ed il bacino sedimentario del Golfo di Salerno a Nord. Quest’ultima è l’unica zona del Tirreno Sud orientale a non essere affetta da vulcanismo. La genesi del Palinuro non è ancora chiara se la si confronta con quella del vicinissimo e più noto vulcano Marsili. Tuttavia, si ipotizza che il complesso vulcanico si sia impostato su una struttura profonda che si estende in direzione Est-Ovest la cui cinematica è compatibile con quella di una faglia trascorrente>>.
Professore, da quando e cosa si conosce di questo vulcano sottomarino?
Le prime campagne oceanografiche furono effettuate negli anni ’70. Il più recente modello digitale del fondo marino ad alta risoluzione, ottenuto dai dati acquisiti nel 2007, mostra che il Palinuro risale dai 3000 metri di profondità  fino a 84 metri dal livello medio del mare. La sua forma è approssimabile ad una ellisse la cui estensione massima raggiunge i 55 km. in direzione Est-Ovest. La parte sommitale del complesso vulcanico è costituita dalla sovrapposizione di edifici con tipiche forme coniche e tronco-coniche e da ampie depressioni attribuibili a collassi gravitativi. La parte Sud è caratterizzata invece, da pendii abbastanza ripidi, mentre la parte Nord mostra pareti  meno acclivi.
Il settore centrale è quello meno profondo del complesso vulcanico. I dati batimorfologici ben evidenziano i due coni vulcanici più significativi del Palinuro. Le sommità di questi coni, piatte e di forma circolare con diametri di circa 750 e 2500 metri, sono a 175 e 84 metri sotto il livello medio mare.
Nel margine orientale sono ben visibili altri coni vulcanici. Il più significativo di questi è localizzato a circa 570 metri di profondità ed è caratterizzato dalla presenza di un cratere profondo circa 70 metri. L’orlo craterico ben pronunciato e non occluso da sedimenti, suggerisce un’attività probabilmente più recente.
Professor Milano, quali informazioni hanno fornito i campioni di sedimento prelevati sul Palinuro?
I dati mineralogici e petrografici attualmente disponibili suggeriscono che il Palinuro si sia formato (oltre 300.000 anni fa) nel corso di un lungo intervallo temporale e le differenze morfostrutturali tra le zone occidentale, centrale e orientale potrebbero marcare i differenti stadi evolutivi del complesso vulcanico. Il settore occidentale sembrerebbe essere il più antico. Al contrario, la presenza di numerosi coni nel settore centrale, la presenza di un cratere vulcanico con un pronunciato orlo, la maggior ampiezza delle anomalie magnetiche rilevate in questo settore e l’età dei prodotti campionati sulla sommità, suggeriscono fortemente che quello centrale sia il settore più giovane.
Il vulcano Palinuro è ancora attivo?
La presenza di micro-sismicità con caratteristiche vulcano-tettoniche localizzata a sud-est del complesso vulcanico, le anomalie magnetiche e la presenza di attività idrotermale nel settore centro-orientale suggeriscono che l’area sud-orientale potrebbe essere attiva. L’acquisizione di nuovi dati geofisici, petrologici e geochimici potranno fornire nuove informazioni, sia per meglio comprendere la genesi del Palinuro nel contesto geodinamico del Tirreno sud –orientale, sia per  capire se il complesso vulcanico, o parte di esso, è da considerarsi attivo o in quiescenza.
Al Prof. Girolamo Milano vadano i ringraziamenti dei lettori e della redazione di Hyde Park per l’importante contributo scientifico che ci ha dato.
      
Mappa schematica del Mar Tirreno Sud-Orientale con locazione del complesso vulcanico Palinuro e rappresentazione “3D” (vista da Sud) del Palinuro Seamount ottenuta dall’elaborazione dei dati batimetrici multifascio “Multibeam” acquisiti nel corso della campagna oceanografica del 2007 (figura tratta dalla pubblicazione scientifica: S. Passaro, G. Milano, C. D’Isanto, S. Ruggieri, R. Tonielli, P. P. Bruno, M., E. Marsella, 2010: DTM-Based morphometry of the Palinuro seamount (Eastern Tyrrhenian Sea): Geomorphological and volcanological implications. Geomorphology, Vol. 115, issue 1-2, 129-140).

lunedì 27 maggio 2013

Il Marsili e l'incubo del 21 maggio 2011


" 21 maggio 2011: incubo Marsili? " 
di MalKo

Pare che l’allarme, circa la possibilità che il 21 maggio 2011 venga la fine del mondo, o comunque quella dell’Italia meridionale o forse di tutti i paesi che si affacciano sul Mediterraneo,  a causa di un’onda di tsunami generata dal vulcano sottomarino Marsili, sia stato raccolto da più di qualcuno in termini di apprensione.
C’è anche chi anticipa le sue angosce all’11 maggio, perché un’ulteriore  profezia, preannuncia un catastrofico terremoto nella zona di Roma: si  dice sia una previsione di Raffaele Bendandi, ma non si hanno certezze.
Un’onda di tsunami generalmente può essere associata a tre eventi calamitosi: un forte sisma localizzato in mare o a ridosso di esso; un’eruzione vulcanica marina o sub marina o una consistente massa, di solito rocciosa, che precipita in acqua ancor più se velocemente. Nella fattispecie potrebbe essere un meteorite o una frana staccatasi da un monte o, nel nostro caso (Marsili), da un vulcano. Ovviamente alla base del “sistema tsunami” concorrono due elementi fondamentali: una notevole energia e  il mare.  In realtà frane che spostano masse d’ acqua le abbiamo avute anche in terra ferma.
La tragedia del Vajont, nel 1963, fu causata appunto dal traboccamento di un’ingente quantità d’acqua da un bacino artificiale (diga), a causa di una frana (oltre 250 milioni di metri cubi) staccatasi dal Monte TocL’onda anomala (chiamiamola impropriamente cosìche si generò, superò di circa 100 metri in altezza il margine della diga, rovinando a valle con una corsa che distrusse  villaggi  e causò perdite umane ingenti.
Un forte terremoto è il fenomeno che forse più siamo abituati ad associare quale causa del prodursi di uno tsunami. I sommovimenti ai bordi delle faglie ubicate sui fondali marini, infatti, hanno la capacità, in determinate condizioni, di imprimere un vigoroso movimento alle masse d’acqua marina sovrastanti. Le onde con questa genesi, percorrono centinaia e centinaia di chilometri ad alta velocità, prima di infrangersi  sui tratti costieri che vengono scavalcati  dall’incedere imperioso delle acque anche per diversi chilometri nell’entroterra  .
In Italia il maremoto più richiamato nei testi è quello che si verificò  il 28 dicembre 1908 a seguito di un sisma violentissimo (10° grado Mercalli), che sconquassò le città di Reggio Calabria e Messina. Il più recente invece, è di pochi anni fa (2002): una frana staccatasi dai versanti scoscesi dello Stromboli, causò un’onda anomala con effetti prevalentemente locali  e  senza arrecare danni alle persone che, fortunatamente e per la stagione invernale, non erano esposte sulle spiagge.
La dirompenza vulcanica può a sua volta creare uno tsunami. Il vulcano Krakatoa ubicato tra le isole di Giava e Sumatra, da questo punto di vista è stato uno spettacolare protagonista con l’eruzione del 1883, definita la più grande mai avvenuta in epoca storica. Cagionò onde altissime, anche di alcune decine di metri, che spazzarono le vicine isole da costa a costa. Una nave, racconta la cronaca dell’epoca, fu scaraventata direttamente nella giungla. Le onde furono più di una e, come detto, con altezze considerevoli. Dopo l’eruzione, dell’isola vulcanica Krakatoa, non rimase altro che qualche brandello di terra.
Le teorie  dell’illustre Bendandi sulla previsione dei terremoti invece, afferiscono a cicli e congiunzioni astrali (generalizzando), come causa dei sommovimenti litosferici. Senza entrare nel merito di argomenti che non conosciamo bene, rileviamo che un’eventuale e non escludibile componente astrale che faciliti gli squilibri e gli equilibri litosferici, per effetto di attrazioni, allineamenti, congiunzioni e altro, in termini di cause ed effetti dovrebbe essere correlata nei dettagli alle variabili tutte terrestri della litosfera. Interrelazioni quindi, molto difficili da interpretare e quantificare e decifrare, al punto da rendere sostanzialmente impraticabile la strada della previsione puntiforme o quasi dei terremoti, attraverso il movimento dei corpi celesti.
Comunque, se queste profezie o previsioni come dir si voglia, dovessero rilevarsi attendibili, giorno più giorno meno, (ma ci sentiamo di escluderlo), sarebbe una vera rivoluzione e uno smacco epocale per le più prestigiose accademie scientifiche nazionali e internazionali. Temiamo che non sia così. Temiamo che la previsione dei terremoti sia ancora una scienza imperfetta, anche se alcune tecniche come quelle introdotte dal ricercatore Giuliani, meritino ampia considerazione sperimentale.
Purtroppo, non è ancora una realtà neanche la previsione a medio o lungo termine delle eruzioni vulcaniche. Sul breve e brevissimo periodo le percentuali di attendibilità della stima sui tempi eruttivi raggiungono cifre interessanti, ma non di matematica certezza.  Ancora peggio è la previsione del distacco di una frana da un’altura, soprattutto se sottomarina come nel caso del  Marsili.
Tutti questi fenomeni che abbiamo citato possono verificarsi oggi, domani o dopodomani o anche tra un millennio o due: non è dato saperlo… ci si muove  sulle ipotesi rispetto a un sistema dinamico (la Terra) in cerca di equilibrio.
Sul vulcano Marsili è bene che si pronuncino coloro che lo studiano più che i parascienziati. D’altra parte il vulcano non erutta da un bel po’ di tempo. Questo significa che i segni delle famigerate frane, come produttrici di tsunami, li possiamo rinvenire tutti sul fondo marino. Avremo in tal modo un’idea non solo della quantità dei materiali che si distaccano dal monte, ma anche la quantità numerica degli eventi franosi fin qui avvenuti. Sarebbe una buona base di partenza per intuire i rischi derivanti dal Marsili, ma anche dai suoi “compagni” quiescenti. Tutti vulcani che devono essere oggetto di studi, sempre più mirati, per mettere insieme dati utili a quantificare i livelli di rischio per le popolazioni esposte.
D’altra parte ogni tanto giunge la notizia che qualche nuovo vulcano viene individuato nel Tirreno. Sarebbe quindi auspicabile che si privilegi innanzitutto un piano di scandaglio dei fondali marini con elaborazione di carte tematiche. In seconda battuta si definiscano gli apparati vulcanici da controllare e il sistema migliore per farlo. Spendere un patrimonio per monitorare un solo vulcano senza sapere se ce ne sono altri e se quelli conosciuti possono assurgere a problema, potrebbe non essere la soluzione migliore.
Bisogna poi fare una riflessione nella discussione generale: quale affidabilità può dare un sistema tecnico – politico come il nostro, dove si lanciano allarmismi su di un vulcano sottomarino (Marsili) ubicato a 150 chilometri dalle coste campane e  ancora da studiare e, quindi, ancora da valutare nella sua interezza in termini di rischio, e nulla si fa per il Vesuvio sul cui ventre sonnecchiano seicentomila “addormentati” abitanti  a distanza zero? Eppure sulla pericolosità del Vesuvio concordano tutti: parascienziati e scienziati, e statistiche e perfino il buon senso…
Chi semina allora allarmismi  con la storia del Marsili? Non quelli che lo studiano di certo. I latini per individuare un colpevole partivano da un concetto bellissimo: cui prodest? (a chi giova?)
 
 

domenica 26 maggio 2013

Il Vulcano Marsili: intervista al Prof. G. Mastrolorenzo.



"Vulcano Marsili: intervista al Prof. Giuseppe Mastrolorenzo" di MalKo
Il Vulcano Marsili è un vulcano sottomarino ubicato in modo quasi equidistante tanto dalle coste calabre quanto da quelle sicule per circa 150 chilometri. Fa parte dell’arco insulare eoliano e misura quasi 3000 metri d’altezza. Un eventuale subacqueo intenzionato a porre una bandierina in cima al vulcano dovrebbe immergersi per 450 metri. La vetta quindi, è ancora inviolata. La colonna d’acqua che sovrasta l’apparato vulcanico  dovrebbe comunque essere sufficiente per “affogare” qualsiasi colonna eruttiva e con essa i fenomeni che maggiormente temiamo in terra ferma (colate piroclastiche, lahar, ecc…). Questa nostra confortevole supposizione supportata anche dall’assenza  di centri abitati (mare aperto) potrebbe avere qualche fondamento.
Il Marsili recentemente è balzato alle cronache invece, come possibile fonte di maremoti presumibilmente dovuti al distacco di pareti rocciose che movimenterebbero materiale a sufficienza per generare onde altissime nel tirreno meridionale. Il magma che fluisce in un liquido, infatti, ha un modesto potere “collante”  sugli strati  litoidi sottostanti  generando un prodotto roccioso (scaglie) alquanto instabile.
Marsili comunque non è l’unico vulcano sorto nelle profondità del mare. Bisogna contemplare anche il Vavilov a 160 chilometri a sud ovest del golfo di Napoli, così come il Magnaghi forse spento e il Palinuro, attivo, che dista appena sessantacinque chilometri dalla costa cilentana.
E’ di qualche giorno fa la notizia che anche nei pressi della costa calabra, al largo di Capo Vaticano, è stato individuato un vulcano ormai da millenni estinto che ci piacerebbe si chiamasse Talo (gigante a difesa di Creta che si buttava nel fuoco per diventare incandescente, onde  bruciare col suo corpo i nemici) .
La sua posizione corrisponde alla faglia calabra i cui sommovimenti causarono in quella regione un terribile terremoto nel 1905. Ancora senza nome, il ventinovesimo vulcano italiano ha una sommità che si può toccare ad appena centoventi metri sotto la superficie marina.
Al Prof. Giuseppe Mastrolorenzo abbiamo rivolto alcune domande :
a) Il Marsili recentemente a torto o a ragione viene chiamato in causa dagli esperti come un vulcano temibile perché simile al Vesuvio .  E’ così ?
L’analogia con il Vesuvio non è del tutto appropriata. Infatti, il rischio vulcanico è un parametro dato dal prodotto della pericolosità del vulcano per il valore esposto (persone e beni soggetti al rischio); nel caso delMarsili entrambi questi fattori sono di fatto e nell’ordine sconosciuto e assente. Bisogna allora  dire che la storia eruttiva e l’attuale livello di pericolosità del vulcano, e, quindi, il rischio potenziale associato a un possibile evento eruttivo, non sono stati ad oggi adeguatamente approfonditi. Di fatto, la distanza dalla costa e la profondità del vulcano, rendono in linea di massima minimo il rischio legato a un’eruzione, se si fa eccezione per la possibile generazione di tsunami. Quest’ultimo tipo di evento nel caso di apparati vulcanici come il Marsili, se pure possibile, richiede una complessa combinazione di fattori che difficilmente si presentano in contemporanea, o quantomeno il livello di probabilità che ciò accada è basso. Tant’è, la generazione di onde di tsunami è associata esclusivamente a eventi sismici di elevata magnitudo in fondali profondi e con peculiari movimenti di faglia. Gli tsunami si verificano anche in seguito a fenomeni franosi e/o di collasso parziale o totale di strutture vulcaniche, ma soltanto in caso di elevata rapidità ed estensione di tali fenomeni.
b) Che cosa ancora nasconde il tirreno centro meridionale a proposito di faglie,  vulcani e tsunami ?
Il bacino tirrenico è considerato dai geologi come un’area di oceanizzazione, che è il risultato di prolungati processi di distensione della litosfera che hanno generato un assottigliamento crostale e una piana abissale di profondità anche superiore ai 3000 metri. Da questi complessi processi geodinamici si è sviluppato il vulcanismo sommerso di natura basaltica molto diverso da quello delle aree vulcaniche napoletana e siciliana. Data l’elevata profondità del fondale, la conoscenza del bacino tirrenico anche in termini di strutture attive è ancora incompleta, essendo il risultato di prospezioni geofisiche di dettaglio su settori parziali e/o prospezioni a più grande scala ma a minore risoluzione. La difficoltà nella conoscenza è facilmente comprensibile considerando come l’identificazione delle faglie attive costituisca ancora un problema anche in superficie.
c) Abbiamo una carta del rischio tsunami nel tirreno centro meridionale?
Benché in passato siano stati realizzati modelli di tsunami per eventi generati nell’area tirrenica, non è disponibile al momento alcuna carta di rischio tsunami in senso stretto. Tale strumento dovrebbe descrivere la probabilità di ogni singolo punto della costa di essere interessato nell’unità tempo dal passaggio di onde anomale di una data ampiezza, risultanti da un qualsiasi potenziale evento sismico o vulcanico, sia all’interno dell’area tirrenica sia al di fuori di quest’ultima. Non esiste attualmente disponibilità di records geologici sufficienti per la realizzazione di tale mappa.
d) Questi vulcani sottomarini sono monitorati sporadicamente o sono dotati di stazioni fisse di misura dei parametri fondamentali ?
I vulcani sommersi come tutto il bacino tirrenico non sono sedi di reti di monitoraggio permanenti, ma sono stati studiati soltanto occasionalmente nell’ambito di campagne oceanografiche, sia nazionali sia internazionali, e d’indagini di sismica crostale. La campagna più recente è proprio quella iniziata nello scorso febbraio dalla nave oceanografica Urania del CNR, che ha rivelato condizioni d’instabilità dei versanti, a seguito della quale il Marsili è stato oggetto di numerose interviste, articoli giornalistici, ecc…
e) Mentre una rete di sorveglianza per gli tsunami generati da terremoti ha dei parametri di riferimento dettati dall’energia del sisma, che si calcola subito, nel caso di tsunami dovuti a vulcani sottomarini, quali fattori sarebbero presi in esame per la diramazione di un allarme?
Purtroppo nel caso di tsunami generati da collassi di settore di apparati vulcanici sottomarini, non esistono attualmente parametri indicativi affidabili ne in termini di prevenzione né di early warning (azioni di prevenzione immediata ad evento accaduto). Una delle strategie adottabili resta comunque la rilevazione in tempo reale dell’onda anomala in siti prossimi alla possibile sorgente dell’evento attraverso ondametri, con immediata attivazione dell’allarme nelle aree potenzialmente esposte al passaggio dello tsunami. Per quanto concerne il Tirreno, in particolare il Tirreno meridionale, tale strategia risulta critica, in quanto date le limitate dimensioni dell’area e l’elevata velocità di propagazione delle onde anomale (dell’ordine di diverse centinaia di km orari), il tempo per l’evacuazione delle coste dopo l’allarme potrebbe variare da meno di un minuto per le coste più prossime a solo qualche decina di minuti per quelle più distanti. Questo limite non superabile renderebbe necessario un efficientissimo piano di evacuazione con esercitazioni regolari e continue della popolazione a rischio che dovrebbe essere in grado di trasferirsi nel giro di minuti dalla costa a quote sicure. L’emergenza tsunami si è manifestata drammaticamente durante la crisi iniziata a fine dicembre 2002  a Stromboli (vedi foto Sciara del Fuoco – INGV), quando a seguito del collasso di qualche decine di milioni di metri cubi di versante, si è generato sull’isola un’onda anomala dell’altezza di diversi metri che non ha causato vittime solo per la bassissima densità di popolazione tipica del periodo e per l’assenza di turisti e bagnati lungo le coste. In quella circostanza si è temuta la successiva generazione di uno tsunami di maggiore entità, come quelli già avvenuti nella storia geologica dell’isola, che si potrebbe manifestare con onde di altezza anche superiori a 10 metri lungo le coste del Tirreno centro-meridionale.
(La redazione di Hyde Park ringrazia il Prof. Giuseppe Mastrolorenzo per la cortese e preziosa collaborazione.)