Translate

Visualizzazione post con etichetta krakatoa. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta krakatoa. Mostra tutti i post

giovedì 8 maggio 2014

Rischio vulcanico ai Campi Flegrei e al Vesuvio: intervista alla Dott. L. Pappalardo...di Malko


Il Golfo di Napoli visto dal Vesuvio

Campi Flegrei, Napoli e il Vesuvio: il trait d’union è una grande camera magmatica? Intervista alla
Dott. Lucia Pappalardo”  di MalKo

Secondo l’ipotesi dello scienziato Alfred Rittman, dove oggi si slarga la caldera flegrea sorgeva un vulcano simile al Vesuvio ma più grande: il noto geologo svizzero lo chiamava Archiflegreo… La collina dei Camaldoli potrebbe essere il brandello più alto di ciò che rimane del possente vulcano, che circa 39.000 anni fa produsse l’eruzione forse più potente in assoluto nell’ambito del bacino mediterraneo: quella dell’ignimbrite campana.

L'Archiflegreo 
L’edificio vulcanico si smembrò per effetto delle dirompenze e lasciò il posto a una caldera poi invasa dal mare e poi rimodellata da tante altre eruzioni e dai fenomeni bradisismici che consentirono al mare di dilagare o di arretrare, secondo i movimenti verticali dei suoli o dei depositi di piroclastiti che accumulandosi scacciavano le acque.
I centri eruttivi che hanno flagellato la zona calderica flegrea sono tanti: disseminati su un’area molto vasta, queste bocche vulcaniche nel corso dei millenni hanno dato corpo a eruzioni prevalentemente esplosive come quelle che 15.000 anni fa produssero nubi ardenti con depositi poi diagenizzati, che hanno formato con il tempo quell’eccezionale e vasto basamento di tufo giallo caotico, meglio noto come tufo giallo napoletano, che ha fornito materia prima alle popolazioni che si sono avvicendate nel corso dei secoli nell’area partenopea.

Di certo sono stati proprio i banchi di tufo (grigio, stratificato e caotico), a invogliare i primi colonizzatori greci che sbarcarono sull’isolotto di Megaride (Castel dell’Ovo), a stanziarsi in zona, non solo perché abbondava il prezioso litoide, ma anche per la malleabilità del tufo, che consentiva con scavi a mano e
Grotta di Seiano - Posillipo (Napoli)
senza opere di contenimento, la realizzazione di tombe, cisterne, acquedotti e vie di comunicazioni, come quella romana di Seiano ricavata nel cuore tufaceo della collina di Posillipo.  (Foto a lato).
Che Napoli sia una città vulcanica a tutti gli effetti è assodato: basti pensare che dal litorale è possibile scorgere il sorgere del Sole alle spalle del Vesuvio, per poi vederlo tramontare a ovest nel ribollire dei fanghi fumarolici del campo vulcanico flegreo. Una città stretta fra due vulcani insomma, il cui trait d’union è appunto una sorta di  parallelo del fuoco che si snoda su una grande camera magmatica…

Alla Dott. Lucia Pappalardo, esperta ricercatrice dell’Osservatorio Vesuviano, formuliamo subito alcune domande:

Cosa si sa di questo vulcano Archiflegreo, che secondo alcune teorie, migliaia di anni fa dominava la scena dei territori flegrei, oggi calderici?

<< L’esistenza dell’Archiflegreo è un’ipotesi formulata, negli anni 50, da Alfred Rittman che, sulla base dell’attuale topografia, riteneva che all’inizio della sua storia eruttiva il vulcano flegreo sarebbe stato costituito da un unico grande stratovulcano dell’ordine di grandezza del Somma-Vesuvio, la cui parte centrale sprofondò in seguito ad un’eruzione di eccezionale potenza che egli identificò con quella del Tufo Grigio Campano (in seguito rinominata Ignimbrite Campana). La parte sommersa comprendeva, secondo il Rittmann, oltre al Golfo di Pozzuoli anche parte del Golfo di Napoli. L’orlo ancora visibile della parte emersa dell’Archiflegreo passava da Miliscola, a Torregaveta, Cuma, Monte S. Severino, e poi per l’orlo settentrionale e orientale del Piano di Quarto e per gli sprofondamenti di Pianura e Soccavo, fino al pendio settentrionale di Posillipo.
La teoria dell’Archiflegreo non è mai stata dimostrata, ed altri studi ipotizzano al contrario che l’eruzione dell’Ignimbrite Campana non avvenne da un unico centro eruttivo ma in corrispondenza di estese fratture >>.

E’ vero che l’eruzione dell’ignimbrite campana è stata la più violenta mai registrata nel bacino mediterraneo, finanche superiore a quella minoica ad opera del vulcano Santorini?

<< L’Ignimbrite Campana è stata la più catastrofica tra le eruzioni di tutta l’area mediterranea: del resto la caldera dei Campi Flegrei è l’unico supervulcano attivo in Europa. L’eruzione del tufo grigio si verificò circa 40 mila anni fa, distrusse l’intera area campana e determinò un abbassamento della temperatura terrestre di alcuni gradi centigradi. L’eruzione Minoica del vulcano Santorini in Grecia, ha una magnitudo di circa 10 volte inferiore a quella dell’Ignimbrite Campana, mentre è molto simile all’eruzione flegrea di 15 mila anni fa denominata del Tufo Giallo Napoletano >>.

Nell’ultima intervista che ci ha rilasciato, ha accennato alla possibilità che la super eruzione dell’archiflegreo o dell’ignimbrite campana abbia potuto contribuire notevolmente alla  scomparsa dell’uomo di neanderthal. Una piccola età glaciale? Ma una supereruzione in che termini può influire sul clima globale e per quanto tempo?

<< Durante le supereruzioni sono disperse nell’atmosfera enormi quantità di cenere e gas vulcanici in grado di determinare sull’intero globo una riduzione della temperatura di diversi gradi centigradi e anche per alcuni decenni: un vero e proprio “inverno vulcanico”. Questo fenomeno è principalmente causato dall’emissione durante l’eruzione di molecole di biossido di zolfo, che combinandosi con ossigeno e l’acqua già presenti nell’atmosfera si trasformano in minuscole goccioline di acido solforico in grado di schermare la radiazione solare. Alcune teorie stimano che dopo la supereruzione del vulcano Toba in Indonesia avvenuta circa 75 mila anni fa, gli esseri umani da decine di migliaia si ridussero, a causa dei drastici cambiamenti climatici, a poche migliaia, per cui l’uomo moderno sarebbe un discendente dei sopravvissuti di Toba.
Inoltre, l’immediata conseguenza di una supereruzione sarebbe la perdita di tutti i raccolti su aree vastissime: bastano, infatti, pochi millimetri di cenere per distruggere gran parte delle colture ed inquinare le acque potabili, e causare quindi una drastica riduzione di risorse alimentari per tutti gli esseri viventi. Ovviamente altrettanto grave sarebbe l’impatto di una supereruzione sulla nostra società supertecnologica, con blocco dei trasporti aerei, delle comunicazioni via satellite, della diffusione dell’energia elettrica etc... >>.

Dall’omonimo vulcano ubicato nella centralissima zona di Chiaia (Napoli), si deve una discreta produzione di tufo giallo napoletano, ma anche un allarme attuale  rilanciato dai media a proposito  di territori a rischio che riguardano anche la parte storica della città …  Che ne pensa?

<< Nell’area di Chiaia, nel cuore di Napoli, sono stati riconosciuti relitti di antichi vulcani, che testimoniano che l’attività eruttiva si estendeva anche nel territorio oggi occupato dalla città. I resti di questi vulcani sono testimoni dell’esistenza di un serbatoio magmatico profondo, comune all’intera area vulcanica campana >>.

In alcuni trattati di geologia si ribadisce che le eruzioni esplosive sono generalmente frutto di camere magmatiche superficiali. Quella  ubicata a 8 Km. di profondità e che vediamo in questo interessante spaccato, come dobbiamo inquadrarla? Potrebbe illustrarci  ancora una volta questo figura ? 

Spaccato struttura profonda area vulcanica napoletana
Questa immagine è solo uno schema di quella che potrebbe essere la struttura profonda dell’area vulcanica napoletana. In rosso sono indicate le possibili zone di accumulo del magma. In particolare, gli studi petrologici sulle rocce delle eruzioni passate dei vulcani napoletani, indicano due possibili zone di accumulo di magma. La prima compresa tra i 6-8 km fino a 10 km di profondità al confine tra le rocce carbonatiche e quelle metamorfiche, in cui staziona il magma più “leggero” (più ricco in silice e gas) e quindi più “esplosivo”; è proprio da questa profondità che proveniva il magma che alimentò le eruzioni catastrofiche di 2000 (l’eruzione di Pompei) e di 4000 anni fa (l’eruzione di Avellino) del Vesuvio. Una seconda più profonda, al di sotto dei 15 km, in cui staziona il magma più denso (meno ricco in silice e gas) e quindi meno esplosivo, che ha alimentato le eruzioni minori come l’ultima del Vesuvio nel 1944. Il flusso di calore misurato in superficie, indicato in giallo nella figura, mostra il suo massimo valore al di sotto del supervulcano flegreo dove probabilmente è localizzato il maggior volume di magma.

Negli scenari previsti per il Vesuvio, la possibilità che il vulcano possa produrre  un’eruzione pliniana è affrancata all’1% di possibilità in un periodo compreso tra i 60 e i 200 anni. Dell’11% se si considera una fascia temporale semplicemente superiore ai 60 anni.Statisticamente è corretto?

<<Si. Si tratta di stime probabilistiche ottenute considerando l’insieme delle eruzioni del Vesuvio precedute da un periodo di riposo compreso rispettivamente tra 60 e 200 anni (1%) o maggiore di 60 anni (11%). La probabilità che si verifichi un‘eruzione pliniana, in caso di ripresa dell’attività vulcanica al Vesuvio, sale al 20% se nel calcolo vengono considerate anche le eruzioni di vulcani simili al Vesuvio sparsi nel  mondo.
Del resto le eruzioni pliniane sono eventi straordinari ma che si ripetono in natura con una certa frequenza. Nel ventesimo secolo almeno una decina di strato vulcani hanno generato eruzioni pliniane, le più recenti sono quella del vulcano Pinatubo nelle Filippine e del Cerro Hudson in Chile del 1991, del vulcano El Chichòn in Messico del 1982 e l’eruzione del St Helens nello stato di Washington del 1980. Nel secolo precedente si verificarono altrettante eruzioni catastrofiche, tra le quali quelle più note del Krakatoa in Indonesia del 1883 in cui persero la vita circa 36000 persone anche a causa dello tsunami che seguì la tremenda esplosione e quella del Tambora del 1815 che disperse nell’atmosfera grandi quantità di gas e cenere, provocando un forte raffreddamento di tutto il pianeta, tanto che il successivo anno 1816 venne definito come “l’anno senza estate” o “l’anno della povertà”. Il periodo di riposo che ha preceduto questi eventi è molto variabile, da alcuni secoli nel caso già citato del Pinatubo fino a pochi anni nel caso dell’eruzione pliniana del 1913 del Colima in Messico>>.  


In altri testi ancora viene affermato che la camera magmatica del Vesuvio non ha ancora magma a sufficienza per produrre una pliniana… La valutazione attuale in quanta metri cubi stima il prodotto astenosferico esistente?

<<In effetti, gli studi di tomografia hanno individuato all’incirca a 8 km di profondità uno strato a bassissima velocità delle onde P ed S che è stato interpretato come una zona di fusione parziale della crosta superiore che si estende su una superficie di circa 400 km2. Assumendo uno spessore tra 0.5 e 2.0 km, il volume di questa riserva magmatica sarebbe compreso tra 200 e 800 km3>>.

Non ci sono noti scenari di rischio eruttivo per l’isola d’Ischia. Forse che statisticamente una ripresa eruttiva è da considerarsi estremamente remota?

<< L’isola d’Ischia è un vulcano in attività da almeno 150 mila anni, la sua ultima eruzione risale al 1302 D.C. e produsse la colata lavica dell’Arso. L’isola è un vulcano esplosivo ad alto rischio, specialmente nel periodo estivo quando la popolazione residente aumenta notevolmente per l’arrivo dei turisti. Purtroppo non è possibile stabilire tra quanto tempo ci sarà una nuova eruzione, ma il vulcano è ben monitorato dall’INGV, come del resto tutti gli altri vulcani attivi, e questo consentirà con alta probabilità di rilevare i segnali premonitori di una ripresa dell’attività vulcanica, in tempo utile per allertare la popolazione >>.

Il vulcano di Roccamonfina è spento?

<< Sì: il vulcano Roccamonfina è spento. L’ultima eruzione risale a circa 50 mila anni fa con la nascita di due duomi lavici, il Monte Santa Croce ed il Monte Lattani accresciuti all’interno dell’antico stratovulcano. La sua attività iniziò circa 630 mila anni fa, ed il vulcano è noto soprattutto per le cosiddette “Ciampate del Diavolo”, una serie di orme umane impresse nel tufo vulcanico di un'eruzione esplosiva di 385 mila anni fa. Si tratta di 56 impronte distribuite in tre tracce lasciate da tre diversi individui, appartenenti all'uomo di Heidelberg, vissuto nel Pleistocene medio e progenitore dell'uomo di Neanderthal, che scesero lungo il pendio formato dalle ceneri ancora poco consolidate dell’eruzione. La successiva litificazione della cenere in tufo ha permesso alle impronte di giungere intatte fino a noi >>.

La redazione ringrazia la Dott.ssa Lucia Pappalardo, primo ricercatore presso L’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia – Osservatorio Vesuviano (Napoli), per la preziosa  e gentile collaborazione giornalistica. 


domenica 20 ottobre 2013

Il vulcano Palinuro: lo tsunami e l'esercitazione TWIST...di Malko


Lo stretto di Messina

“Il Vulcano sommerso Palinuro origina uno Tsunami nel Tirreno: è solo un’esercitazione, la TWIST… ” di MalKo

Alcuni senatori del Movimento a Cinque Stelle (M5S), hanno predisposto un’interrogazione parlamentare che mette in discussione la scelta della città di Salerno come centro dell’esercitazione internazionale denominata TWIST, in cui si simula la formazione di un maremoto generato da una frana staccatasi dal vulcano sommerso Palinuro, con onde che s’infrangono sul litorale cittadino e provinciale salernitano.
A detta dei rappresentanti stellati, la manifestazione avrebbe avuto risvolti più realistici se si fosse tenuta nella zona dello stretto di Messina (foto d'apertura). L’assessore alla protezione civile del comune di Salerno, De Pascale, si è meravigliato dell’appunto parlamentare incolpando i grillini di inesattezza e di incoerenza  con qualche spunto polemico anche sull’energia geotermica associata al vulcanoMarsili.
Le onde di Tsunami si formano generalmente per effetto di un terremoto, di una frana o di un’eruzione vulcanica. Pure la caduta in mare di un asteroide potrebbe formare onde altissime, in questo caso e con un pizzico di fantasia, potremmo accostare il rischio proveniente dal cosmo a una sorta di frana dalla massa non preventivabile, che piomba da altezze impensabili a velocità di alcune migliaia di metri al secondo fiondandosi nel mare. Se ciò avvenisse, le conseguenze ovviamente sarebbero apocalittiche…
“Fortunatamente” la maggior parte degli tsunami sono associati in genere a violenti terremoti, come quello che avvenne in mare a Creta il 21 luglio del 365. La scossa sismica che superò l’ottavo grado della scala Richter, generò uno tsunami che flagellò Alessandria d’Egitto, Cipro, la Palestina, la Tunisia, la Cirenaica, ma anche la Sicilia e la Calabria con onde che superarono i dieci metri d’altezza.
I maremoti più violenti che si sono avuti in Italia afferiscono a due eventi sismici tra i massimi registrati nella nostra Penisola, con magnitudo superiore al settimo grado Richter, come quello potentissimo dell’11 gennaio del 1693 che flagellò la Sicilia orientale (Val di Noto). La cronaca cita crolli,rovine e onde di dieci metri che spazzarono la costa.  Ancora più tragico per il numero altissimo di vittime fu il terremoto del 28 dicembre 1908 localizzato sempre in Sicilia nello stretto di Messina. Alle case che crollarono, si dovettero aggiungere i danni provocati dalle onde di maremoto che, come quelle sismiche, investirono anche la città di Reggio Calabria, disastrandola in quella che sarà ricordata come la maggiore calamità europea del ventesimo secolo.
Il terremoto di Lisbona nel 1755 cagionò sommovimenti che in questo caso superarono l’ottavo grado della scala Richter. Subito dopo il sisma si ebbe un ritiro delle acque seguito da un possente maremoto che invase il tessuto litoraneo cittadino aggravando una situazione già notevolmente drammatica. Le onde si propagarono pure nell’Atlantico raggiungendo i Caraibi e altre isole ubicate a circa cinquemila chilometri di distanza dalla capitale europea.
Il primo aprile del 1946 un terremoto verificatosi nei pressi dell’arcipelago delle Auletine formò uno tsunami che dopo quasi cinque ore si riversò sulle Hawaii con onde alte che inflissero alla città di Hilo pesanti danni.  L’intensità del sisma non fu particolarmente violenta. Da qui il dubbio che non fu solo il terremoto a smuovere le acque…
Nel dicembre del 2004 un fortissimo terremoto sconquassò i fondali di Sumatra generando uno tsunami che sferzò l’isola in modo particolarmente violento colpendo anche a distanza e nel giro di due ore lo Sri Lanka e la Thailandia e altri luoghi lontani ma esposti radialmente al fenomeno con gravissime perdite di vite umane.
Tsunami si sono verificati pure recentemente in Giappone nel 2011. Le immagini fornite dai media con l’irrefrenabile ingressione del mare nell’entroterra furono veramente angoscianti. In quel caso fu allarme all’allarme con la fuga di elementi radioattivi dalla centrale nucleare di Fukushima che presentò grossi problemi a uno dei reattori. I sistemi elettrici di emergenza tarati per un’onda anomala di sei metri, furono sommersi dalle acque che raggiunsero invece i quattordici metri di altezza. Bisogna anche dire che quello di Tohoku è stato il più forte sisma mai registrato nella terra del Sol levante con una magnitudo nove della scala Richter.
Le frane, anche quelle sottomarine, sono probabilmente al secondo posto come eventi capaci di produrre tsunami. Tra questi si annoverano alcuni importanti fenomeni come quello di Terranova nel 1929 e quello che occorse nel Golfo d’Alaska nel 1958. Nel mese di dicembre 2002 una frana inizialmente sub marina e poi aerea si staccò dal vulcano Stromboli, nel nostro Tirreno, generando un’onda anomala che cagionò danni solo sui vicini litorali fortunatamente quasi deserti.
Alle eruzioni vulcaniche sottomarine e marine, si addebitano maremoti importanti come quello che seguì la famosa esplosione del vulcano Krakatoa in Indonesia nel 1883, riportata negli annali come tra le più potenti eruzioni mai verificatasi sul Pianeta.
In quel caso pare che ci siano state una serie di concause a generare un treno di onde di maremoto: un’esplosione dovuta all’acqua di mare entrata nella camera magmatica, i flussi piroclastici che si staccarono copiosi dal vulcano e molto probabilmente e come causa predominante il collasso e lo sprofondamento dell’apparato vulcanico che si sbriciolò. Per avere un’idea del fenomeno tsunami che si ebbe col Krakatoa nella sua dirompenza massima, si cita sovente una nave da guerra che fu presa dalle onde e deposta a più di due chilometri all’interno della giungla.
Alla stregua del Krakatoa bisogna citare la più remota eruzione di Thera (Santorini) verificatasi nel 1650 a.C. in Grecia. Pare che questa sia stata l’eruzione più potente in assoluto almeno negli ultimi diecimila anni, che causò anche uno tsunami che è indicato come fattore predominante della forse leggendaria e rovinosa caduta di Atlantide. Di sicuro le onde spazzarono violentemente l’isola di Creta e con essa la civiltà minoica che si dissolse probabilmente anche per i frequenti terremoti che flagellavano l’area. Da questa eruzione comunque, si formarono onde di maremoto che raggiunsero pure l’Italia nel settore rivolto a est. Il distretto di Santorini e dintorni è ancora oggi da tenere sotto strettissima osservazione…
L’ultimo grande maremoto generatosi nel Mediterraneo orientale per effetto di un forte sisma (8° Richter), fu quello che si sviluppò nei pressi dell’isola di Rodi l’8 agosto 1303.  
Le conclusioni che possiamo trarre vanno nella direzione che anche il mare nostrum può essere interessato da onde di maremoto, anche se l’oceano Pacifico rimane il luogo preferenziale di formazione di questo spettacolare e micidiale fenomeno che acquista vigore dalle profondità marina.
Nel Mediterraneo le sorgenti che possono generare maremoti sono abbastanza vicine alla costa. Quindi, sensori di allarme o altri sistemi tecnologicamente all’avanguardia che in altri luoghi si rivelano molto utili per la salvaguardia delle collettività rivierasche, da noi devono fare i conti con tempi troppo stretti per essere di una certa efficacia protettiva per le popolazioni costiere. Questo significa che bisogna lavorare intanto sulla prevenzione evitando di costruire strutture particolarmente importanti in prossimità dei litorali esposti. La centrale di Fukushima ad esempio, forse andava edificata nell’entroterra.
Le scogliere o altre barriere possono se non difendere almeno mitigare gli effetti delle onde di tsunami,soprattutto per i punti più vulnerabili della costa. Le case in cemento armato resistono meglio al passaggio dell’acqua, così come sui litorali indifesi risulta provvidenziale non costruire al piano terra.
Generalmente il ritiro improvviso ed esteso delle acque (anche il contrario) dal bagnasciuga potrebbe essere un indicatore di rischio, mentre la notizia di forti scosse di terremoto localizzate in mare, dovrebbe indurre la popolazione esposta a prestare attenzione ad eventuali comunicati radio di allarme.
La possibilità di sfruttare l’energia geotermica dai fluidi caldi che circolano nel vulcano sottomarino Marsili è un bel progetto. L’utilizzo della geotermia in mare aperto potrebbe mitigare i pericoli derivanti dal riporto in superficie di sostanze non proprio innocue contenute nelle acque minerali calde, anche se il processo necessita di una valutazione d’impatto ambientale. 
Il problema del Marsili nella faccenda del geotermico e dei tsunami, sono i costoni instabili e scoscesi del vulcano sommerso, soggetti alla permanente forza di gravità. Un loro distacco per motivi naturali o artificiali potrebbe generare una frana dagli esiti incerti a proposito della formazione di un maremoto. Per avere un quadro ineccepibile sui livelli di rischio legati al deepwater drilling, abbiamo formulato un preciso quesito all’INGV nel mese di agosto. Siamo in attesa di una risposta che quando arriverà pubblicheremo.
Per quanto riguarda la scelta di Salerno come luogo dove si svolgerà tra pochi giorni l’esercitazione di protezione civile TWIST (Tidal Wave in southern Thyrrenian sea), la statistica degli eventi depone a sfavore della panoramica città. E’ la Sicilia ad essere soggetta particolarmente al rischio maremoto. Basta vedere la cartina in basso che abbiamo introdotto nell’articolo per lasciare intuire anche visivamente che la Trinacria è esposta ai possenti fenomeni dell’arco ellenico, sede di grande instabilità geologica, a quelli dell’arco calabro ed ancora  a quelli dell’arco eolico, comprensivo appunto dei vulcani Marsili, Palinuro,ecc…

Lo stretto di Messina poi, rappresenta certamente una strettoia geografica dove le eventuali onde di maremoto provenienti non solo da est, potrebbero aumentare la loro altezza.
La campagna informativa “Maremoto: io non rischio!” che precede il momento esercitativo, avrebbe avuto quindi una maggiore enfasi se si fosse svolta nella località italiana maggiormente e realmente sferzata da questo fenomeno nel passato, cioè la Sicilia orientale con le città di Catania, Messina, Augusta e Siracusa. Fermo restante che anche nel Tirreno meridionale il rischio maremoto comunque sussiste, anche se non ci sembra immediatamente evincibile dalla letteratura scientifica una storia pregressa di onde particolarmente alte e invadenti.Il futuro però, e lo riconosciamo, è sempre un'incognita anche geologicamente parlando...
Probabilmente la città di Salerno è stata indicata centro dell’esercitazione per sopperire a esigenze di varia natura che poco hanno a che fare con gli scenari tsunamici. Alla stregua del centro direzione e comando (DICOMAC) che sarà installato sulla litoranea (stadio Arechi) a pochi passi dal mare. Una decisione, si legge nel depliant, condizionata dalle esigenze esercitative. Quindi, la scelta delle tende pneumatiche è solo un caso…

lunedì 27 maggio 2013

Il Marsili e l'incubo del 21 maggio 2011


" 21 maggio 2011: incubo Marsili? " 
di MalKo

Pare che l’allarme, circa la possibilità che il 21 maggio 2011 venga la fine del mondo, o comunque quella dell’Italia meridionale o forse di tutti i paesi che si affacciano sul Mediterraneo,  a causa di un’onda di tsunami generata dal vulcano sottomarino Marsili, sia stato raccolto da più di qualcuno in termini di apprensione.
C’è anche chi anticipa le sue angosce all’11 maggio, perché un’ulteriore  profezia, preannuncia un catastrofico terremoto nella zona di Roma: si  dice sia una previsione di Raffaele Bendandi, ma non si hanno certezze.
Un’onda di tsunami generalmente può essere associata a tre eventi calamitosi: un forte sisma localizzato in mare o a ridosso di esso; un’eruzione vulcanica marina o sub marina o una consistente massa, di solito rocciosa, che precipita in acqua ancor più se velocemente. Nella fattispecie potrebbe essere un meteorite o una frana staccatasi da un monte o, nel nostro caso (Marsili), da un vulcano. Ovviamente alla base del “sistema tsunami” concorrono due elementi fondamentali: una notevole energia e  il mare.  In realtà frane che spostano masse d’ acqua le abbiamo avute anche in terra ferma.
La tragedia del Vajont, nel 1963, fu causata appunto dal traboccamento di un’ingente quantità d’acqua da un bacino artificiale (diga), a causa di una frana (oltre 250 milioni di metri cubi) staccatasi dal Monte TocL’onda anomala (chiamiamola impropriamente cosìche si generò, superò di circa 100 metri in altezza il margine della diga, rovinando a valle con una corsa che distrusse  villaggi  e causò perdite umane ingenti.
Un forte terremoto è il fenomeno che forse più siamo abituati ad associare quale causa del prodursi di uno tsunami. I sommovimenti ai bordi delle faglie ubicate sui fondali marini, infatti, hanno la capacità, in determinate condizioni, di imprimere un vigoroso movimento alle masse d’acqua marina sovrastanti. Le onde con questa genesi, percorrono centinaia e centinaia di chilometri ad alta velocità, prima di infrangersi  sui tratti costieri che vengono scavalcati  dall’incedere imperioso delle acque anche per diversi chilometri nell’entroterra  .
In Italia il maremoto più richiamato nei testi è quello che si verificò  il 28 dicembre 1908 a seguito di un sisma violentissimo (10° grado Mercalli), che sconquassò le città di Reggio Calabria e Messina. Il più recente invece, è di pochi anni fa (2002): una frana staccatasi dai versanti scoscesi dello Stromboli, causò un’onda anomala con effetti prevalentemente locali  e  senza arrecare danni alle persone che, fortunatamente e per la stagione invernale, non erano esposte sulle spiagge.
La dirompenza vulcanica può a sua volta creare uno tsunami. Il vulcano Krakatoa ubicato tra le isole di Giava e Sumatra, da questo punto di vista è stato uno spettacolare protagonista con l’eruzione del 1883, definita la più grande mai avvenuta in epoca storica. Cagionò onde altissime, anche di alcune decine di metri, che spazzarono le vicine isole da costa a costa. Una nave, racconta la cronaca dell’epoca, fu scaraventata direttamente nella giungla. Le onde furono più di una e, come detto, con altezze considerevoli. Dopo l’eruzione, dell’isola vulcanica Krakatoa, non rimase altro che qualche brandello di terra.
Le teorie  dell’illustre Bendandi sulla previsione dei terremoti invece, afferiscono a cicli e congiunzioni astrali (generalizzando), come causa dei sommovimenti litosferici. Senza entrare nel merito di argomenti che non conosciamo bene, rileviamo che un’eventuale e non escludibile componente astrale che faciliti gli squilibri e gli equilibri litosferici, per effetto di attrazioni, allineamenti, congiunzioni e altro, in termini di cause ed effetti dovrebbe essere correlata nei dettagli alle variabili tutte terrestri della litosfera. Interrelazioni quindi, molto difficili da interpretare e quantificare e decifrare, al punto da rendere sostanzialmente impraticabile la strada della previsione puntiforme o quasi dei terremoti, attraverso il movimento dei corpi celesti.
Comunque, se queste profezie o previsioni come dir si voglia, dovessero rilevarsi attendibili, giorno più giorno meno, (ma ci sentiamo di escluderlo), sarebbe una vera rivoluzione e uno smacco epocale per le più prestigiose accademie scientifiche nazionali e internazionali. Temiamo che non sia così. Temiamo che la previsione dei terremoti sia ancora una scienza imperfetta, anche se alcune tecniche come quelle introdotte dal ricercatore Giuliani, meritino ampia considerazione sperimentale.
Purtroppo, non è ancora una realtà neanche la previsione a medio o lungo termine delle eruzioni vulcaniche. Sul breve e brevissimo periodo le percentuali di attendibilità della stima sui tempi eruttivi raggiungono cifre interessanti, ma non di matematica certezza.  Ancora peggio è la previsione del distacco di una frana da un’altura, soprattutto se sottomarina come nel caso del  Marsili.
Tutti questi fenomeni che abbiamo citato possono verificarsi oggi, domani o dopodomani o anche tra un millennio o due: non è dato saperlo… ci si muove  sulle ipotesi rispetto a un sistema dinamico (la Terra) in cerca di equilibrio.
Sul vulcano Marsili è bene che si pronuncino coloro che lo studiano più che i parascienziati. D’altra parte il vulcano non erutta da un bel po’ di tempo. Questo significa che i segni delle famigerate frane, come produttrici di tsunami, li possiamo rinvenire tutti sul fondo marino. Avremo in tal modo un’idea non solo della quantità dei materiali che si distaccano dal monte, ma anche la quantità numerica degli eventi franosi fin qui avvenuti. Sarebbe una buona base di partenza per intuire i rischi derivanti dal Marsili, ma anche dai suoi “compagni” quiescenti. Tutti vulcani che devono essere oggetto di studi, sempre più mirati, per mettere insieme dati utili a quantificare i livelli di rischio per le popolazioni esposte.
D’altra parte ogni tanto giunge la notizia che qualche nuovo vulcano viene individuato nel Tirreno. Sarebbe quindi auspicabile che si privilegi innanzitutto un piano di scandaglio dei fondali marini con elaborazione di carte tematiche. In seconda battuta si definiscano gli apparati vulcanici da controllare e il sistema migliore per farlo. Spendere un patrimonio per monitorare un solo vulcano senza sapere se ce ne sono altri e se quelli conosciuti possono assurgere a problema, potrebbe non essere la soluzione migliore.
Bisogna poi fare una riflessione nella discussione generale: quale affidabilità può dare un sistema tecnico – politico come il nostro, dove si lanciano allarmismi su di un vulcano sottomarino (Marsili) ubicato a 150 chilometri dalle coste campane e  ancora da studiare e, quindi, ancora da valutare nella sua interezza in termini di rischio, e nulla si fa per il Vesuvio sul cui ventre sonnecchiano seicentomila “addormentati” abitanti  a distanza zero? Eppure sulla pericolosità del Vesuvio concordano tutti: parascienziati e scienziati, e statistiche e perfino il buon senso…
Chi semina allora allarmismi  con la storia del Marsili? Non quelli che lo studiano di certo. I latini per individuare un colpevole partivano da un concetto bellissimo: cui prodest? (a chi giova?)