Il Golfo di Napoli visto dal Vesuvio |
“Campi Flegrei, Napoli e il Vesuvio: il trait d’union è una grande
camera magmatica? Intervista alla
Dott. Lucia
Pappalardo” di MalKo
Secondo l’ipotesi dello scienziato Alfred Rittman, dove oggi si slarga la caldera flegrea sorgeva un
vulcano simile al Vesuvio ma più grande: il noto geologo svizzero lo chiamava Archiflegreo…
La collina dei Camaldoli potrebbe essere il brandello più alto di ciò che
rimane del possente vulcano, che circa 39.000 anni fa produsse l’eruzione forse
più potente in assoluto nell’ambito del bacino mediterraneo: quella dell’ignimbrite campana.
L'Archiflegreo |
L’edificio vulcanico si smembrò per effetto delle
dirompenze e lasciò il posto a una caldera poi invasa dal mare e poi
rimodellata da tante altre eruzioni e dai fenomeni bradisismici che consentirono
al mare di dilagare o di arretrare, secondo i movimenti verticali dei suoli o
dei depositi di piroclastiti che accumulandosi scacciavano le acque.
I centri eruttivi che hanno flagellato la zona calderica
flegrea sono tanti: disseminati su un’area molto vasta, queste bocche
vulcaniche nel corso dei millenni hanno dato corpo a eruzioni prevalentemente
esplosive come quelle che 15.000 anni fa produssero nubi ardenti con depositi poi
diagenizzati, che hanno formato con il tempo quell’eccezionale e vasto basamento
di tufo giallo caotico, meglio noto
come tufo giallo napoletano, che ha fornito
materia prima alle popolazioni che si sono avvicendate nel corso dei secoli nell’area
partenopea.
Di certo sono stati proprio i banchi di tufo (grigio, stratificato
e caotico), a invogliare i primi colonizzatori greci che sbarcarono
sull’isolotto di Megaride (Castel dell’Ovo), a stanziarsi in zona, non solo perché
abbondava il prezioso litoide, ma anche per la malleabilità del tufo, che
consentiva con scavi a mano e
senza opere di contenimento, la realizzazione di tombe,
cisterne, acquedotti e vie di comunicazioni, come quella romana di Seiano ricavata nel cuore tufaceo della
collina di Posillipo. (Foto a lato).
Grotta di Seiano - Posillipo (Napoli) |
Che Napoli sia una città vulcanica a tutti gli effetti è assodato:
basti pensare che dal litorale è possibile scorgere il sorgere del Sole alle
spalle del Vesuvio, per poi vederlo tramontare a ovest nel ribollire dei fanghi
fumarolici del campo vulcanico flegreo. Una città stretta fra due vulcani insomma,
il cui trait d’union è appunto una sorta di parallelo del fuoco che si snoda su una grande
camera magmatica…
Alla Dott. Lucia
Pappalardo, esperta ricercatrice dell’Osservatorio Vesuviano, formuliamo
subito alcune domande:
Cosa si sa di questo vulcano Archiflegreo, che secondo
alcune teorie, migliaia di anni fa dominava la scena dei territori flegrei, oggi
calderici?
<< L’esistenza dell’Archiflegreo è un’ipotesi
formulata, negli anni 50, da Alfred Rittman che, sulla base dell’attuale
topografia, riteneva che all’inizio della sua storia eruttiva il vulcano
flegreo sarebbe stato costituito da un unico grande stratovulcano dell’ordine
di grandezza del Somma-Vesuvio, la cui parte centrale sprofondò in seguito ad
un’eruzione di eccezionale potenza che egli identificò con quella del Tufo Grigio Campano (in seguito
rinominata Ignimbrite Campana). La parte sommersa comprendeva, secondo il
Rittmann, oltre al Golfo di Pozzuoli anche parte del Golfo di Napoli. L’orlo
ancora visibile della parte emersa dell’Archiflegreo passava da Miliscola, a
Torregaveta, Cuma, Monte S. Severino, e poi per l’orlo settentrionale e
orientale del Piano di Quarto e per gli sprofondamenti di Pianura e Soccavo,
fino al pendio settentrionale di Posillipo.
La teoria dell’Archiflegreo non è mai stata dimostrata, ed
altri studi ipotizzano al contrario che l’eruzione dell’Ignimbrite Campana non
avvenne da un unico centro eruttivo ma in corrispondenza di estese fratture
>>.
E’ vero che l’eruzione dell’ignimbrite campana è stata la
più violenta mai registrata nel bacino mediterraneo, finanche superiore a
quella minoica ad opera del vulcano Santorini?
<< L’Ignimbrite Campana è stata la più catastrofica
tra le eruzioni di tutta l’area mediterranea: del resto la caldera dei Campi
Flegrei è l’unico supervulcano attivo in Europa. L’eruzione del tufo grigio si
verificò circa 40 mila anni fa, distrusse l’intera area campana e determinò un
abbassamento della temperatura terrestre di alcuni gradi centigradi. L’eruzione
Minoica del vulcano Santorini in
Grecia, ha una magnitudo di circa 10 volte inferiore a quella dell’Ignimbrite
Campana, mentre è molto simile all’eruzione flegrea di 15 mila anni fa
denominata del Tufo Giallo Napoletano >>.
Nell’ultima intervista che ci ha rilasciato, ha accennato
alla possibilità che la super eruzione dell’archiflegreo o dell’ignimbrite
campana abbia potuto contribuire notevolmente alla scomparsa dell’uomo di neanderthal. Una
piccola età glaciale? Ma una supereruzione in che termini può influire sul
clima globale e per quanto tempo?
<< Durante le supereruzioni sono disperse
nell’atmosfera enormi quantità di cenere e gas vulcanici in grado di
determinare sull’intero globo una riduzione della temperatura di diversi gradi
centigradi e anche per alcuni decenni: un vero e proprio “inverno vulcanico”.
Questo fenomeno è principalmente causato dall’emissione durante l’eruzione di
molecole di biossido di zolfo, che combinandosi con ossigeno e l’acqua già
presenti nell’atmosfera si trasformano in minuscole goccioline di acido solforico
in grado di schermare la radiazione solare. Alcune teorie stimano che dopo la
supereruzione del vulcano Toba in Indonesia avvenuta circa 75
mila anni fa, gli esseri umani da decine di migliaia si ridussero, a causa dei
drastici cambiamenti climatici, a poche migliaia, per cui l’uomo moderno
sarebbe un discendente dei sopravvissuti di Toba.
Inoltre, l’immediata conseguenza di una supereruzione
sarebbe la perdita di tutti i raccolti su aree vastissime: bastano, infatti,
pochi millimetri di cenere per distruggere gran parte delle colture ed
inquinare le acque potabili, e causare quindi una drastica riduzione di risorse
alimentari per tutti gli esseri viventi. Ovviamente altrettanto grave sarebbe
l’impatto di una supereruzione sulla nostra società
supertecnologica, con blocco dei trasporti aerei, delle comunicazioni via
satellite, della diffusione dell’energia elettrica etc... >>.
Dall’omonimo vulcano ubicato nella centralissima zona di Chiaia
(Napoli), si deve una discreta produzione di tufo giallo napoletano, ma anche
un allarme attuale rilanciato dai media
a proposito di territori a rischio che
riguardano anche la parte storica della città …
Che ne pensa?
<< Nell’area di Chiaia, nel cuore di Napoli, sono
stati riconosciuti relitti di antichi vulcani, che testimoniano che l’attività
eruttiva si estendeva anche nel territorio oggi occupato dalla città. I resti
di questi vulcani sono testimoni dell’esistenza di un serbatoio magmatico
profondo, comune all’intera area vulcanica campana >>.
In alcuni trattati di geologia si ribadisce che le
eruzioni esplosive sono generalmente frutto di camere magmatiche superficiali.
Quella ubicata a 8 Km. di profondità e
che vediamo in questo interessante spaccato, come dobbiamo inquadrarla?
Potrebbe illustrarci ancora una volta
questo figura ?
Spaccato struttura profonda area vulcanica napoletana |
Questa immagine è solo uno schema di quella che
potrebbe essere la struttura profonda dell’area vulcanica napoletana. In rosso
sono indicate le possibili zone di accumulo del magma. In particolare, gli
studi petrologici sulle rocce delle eruzioni passate dei vulcani napoletani,
indicano due possibili zone di accumulo di magma. La prima compresa tra i 6-8
km fino a 10 km di profondità al confine tra le rocce carbonatiche e quelle
metamorfiche, in cui staziona il magma più “leggero” (più ricco in silice e
gas) e quindi più “esplosivo”; è proprio da questa profondità che proveniva il
magma che alimentò le eruzioni catastrofiche di 2000 (l’eruzione di Pompei) e di 4000 anni fa (l’eruzione di Avellino) del Vesuvio. Una seconda più profonda, al
di sotto dei 15 km, in cui staziona il magma più denso (meno ricco in silice e
gas) e quindi meno esplosivo, che ha alimentato le eruzioni minori come
l’ultima del Vesuvio nel 1944. Il flusso di calore misurato in superficie,
indicato in giallo nella figura, mostra il
suo massimo valore al di sotto del
supervulcano flegreo dove probabilmente è localizzato il maggior volume di
magma.
Negli scenari previsti per il Vesuvio, la possibilità che
il vulcano possa produrre un’eruzione
pliniana è affrancata all’1% di possibilità in un periodo compreso tra i 60 e i
200 anni. Dell’11% se si considera una fascia temporale semplicemente superiore
ai 60 anni.Statisticamente è corretto?
<<Si. Si tratta di stime probabilistiche ottenute
considerando l’insieme delle eruzioni del Vesuvio precedute da un periodo di
riposo compreso rispettivamente tra 60 e 200 anni (1%) o maggiore di 60 anni (11%).
La probabilità che si verifichi un‘eruzione pliniana, in caso di ripresa
dell’attività vulcanica al Vesuvio, sale al 20% se nel calcolo vengono considerate anche le eruzioni di vulcani
simili al Vesuvio sparsi nel mondo.
Del resto le eruzioni pliniane sono eventi straordinari ma
che si ripetono in natura con una certa frequenza. Nel ventesimo secolo almeno
una decina di strato vulcani hanno generato eruzioni pliniane, le più recenti
sono quella del vulcano Pinatubo
nelle Filippine e del Cerro Hudson
in Chile del 1991, del vulcano El
Chichòn in Messico del 1982 e l’eruzione del St Helens nello stato di Washington del 1980. Nel secolo precedente
si verificarono altrettante eruzioni catastrofiche, tra le quali quelle più
note del Krakatoa in Indonesia del
1883 in cui persero la vita circa 36000 persone anche a causa dello tsunami che
seguì la tremenda esplosione e quella del Tambora
del 1815 che disperse nell’atmosfera grandi quantità di gas e cenere,
provocando un forte raffreddamento di tutto il pianeta, tanto che il successivo
anno 1816 venne definito come “l’anno senza estate” o “l’anno della povertà”.
Il periodo di riposo che ha preceduto questi eventi è molto variabile, da
alcuni secoli nel caso già citato del Pinatubo
fino a pochi anni nel caso dell’eruzione pliniana del 1913 del Colima in Messico>>.
In altri testi ancora viene affermato che la camera
magmatica del Vesuvio non ha ancora magma a sufficienza per produrre una
pliniana… La valutazione attuale in quanta metri cubi stima il prodotto
astenosferico esistente?
<<In effetti, gli studi di tomografia hanno
individuato all’incirca a 8 km di profondità uno strato a bassissima velocità
delle onde P ed S che è stato interpretato come una zona di fusione parziale
della crosta superiore che si estende su una superficie di circa 400 km2.
Assumendo uno spessore tra 0.5 e 2.0 km, il volume di questa riserva magmatica
sarebbe compreso tra 200 e 800 km3>>.
Non ci sono noti scenari di rischio eruttivo per l’isola
d’Ischia. Forse che statisticamente una ripresa eruttiva è da considerarsi
estremamente remota?
<< L’isola d’Ischia è un vulcano in attività da
almeno 150 mila anni, la sua ultima eruzione risale al 1302 D.C. e produsse
la colata lavica dell’Arso. L’isola
è un vulcano esplosivo ad alto rischio, specialmente nel periodo estivo quando
la popolazione residente aumenta notevolmente per l’arrivo dei turisti.
Purtroppo non è possibile stabilire tra quanto tempo ci sarà una nuova
eruzione, ma il vulcano è ben monitorato dall’INGV, come del resto tutti gli altri vulcani attivi, e questo
consentirà con alta probabilità di rilevare i segnali premonitori di una
ripresa dell’attività vulcanica, in tempo utile per allertare la popolazione
>>.
Il vulcano di Roccamonfina è spento?
<< Sì: il vulcano Roccamonfina è spento. L’ultima
eruzione risale a circa 50 mila anni fa con la nascita di due duomi lavici, il
Monte Santa Croce ed il Monte Lattani accresciuti all’interno dell’antico
stratovulcano. La sua attività iniziò circa 630 mila anni fa, ed il vulcano è
noto soprattutto per le cosiddette “Ciampate del Diavolo”, una serie di
orme umane impresse nel tufo vulcanico di un'eruzione esplosiva di 385 mila
anni fa. Si tratta di 56 impronte distribuite in tre tracce lasciate da tre
diversi individui, appartenenti all'uomo
di Heidelberg, vissuto nel Pleistocene medio e progenitore dell'uomo di Neanderthal, che scesero
lungo il pendio formato dalle ceneri ancora poco consolidate dell’eruzione. La
successiva litificazione della cenere in tufo ha permesso alle impronte di
giungere intatte fino a noi >>.
La redazione ringrazia la Dott.ssa Lucia Pappalardo, primo
ricercatore presso L’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia –
Osservatorio Vesuviano (Napoli), per la preziosa e gentile collaborazione giornalistica.
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