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sabato 1 giugno 2019

Rischio Vesuvio: Pompei città resiliente? ... di MalKo




Il Vesuvio visto dagli scavi di Pompei


Il comune di Pompei è inserito in una campagna di sensibilizzazione avviata su scala internazionale dall’ufficio delle Nazioni Unite UNISDR, (United Nations International Strategy for Disaster Reduction), il cui fine è appunto la riduzione delle catastrofi nel senso più ampio del termine. La città degli Scavi che ricade nella zona rossa Vesuvio, fa parte di una rete di municipalità che si propongono l’obiettivo di migliorare la loro capacità di mitigare le calamità, magari in chiave preventiva, e anche di rafforzare la resilienza delle città alle post avversità naturali e antropiche derivanti pure dagli aspetti collaterali e attualissimi delle variazioni e i cambiamenti climatici che incidono sulla sopravvivenza degli uomini.

I rappresentanti delle amministrazioni civiche coinvolte nel progetto, si sono incontrate al tavolo del Dipartimento della Protezione Civile, organo della Presidenza del Consiglio dei Ministri, che rappresenta l’ufficio centrale di riferimento per la diffusione dei concetti protettivi emersi dai lavori programmatici di Hyogo Framework for Action 2005-2015 in Giappone, che continuano col Sendai Framework 2015 -2030. Le finalità di questi progetti riguardano la capacità di resilienza delle città, che dovranno adattarsi e organizzarsi per resistere alle avversità naturali classiche, ma anche alle implicazioni legate al riscaldamento globale, portatore di effetti estremi che si ripercuoterebbero sulla sicurezza dei cittadini.
A rappresentare l’amministrazione comunale pompeiana per i temi della protezione civile è stato il vicecomandante della Polizia Municipale Ferdinando Fontanella, che ha precisato che il comune svolge tutte le attività che gli competono, pur disponendo di soli due addetti e pochi mezzi e niente risorse economiche per l’elaborazione del piano di emergenza comunale. È notizia di questi giorni che la Regione Campania ha assegnato 74.000 euro alle necessità di pianificazione del Comune di Pompei, anche per elaborare un piano di evacuazione a fronte del rischio Vesuvio…
I danni derivanti dall’ambiente naturale dicevamo, certamente sono quelli mediamente più individuabili e comprensibili dalle popolazioni, ma la capacità di sopravvivere deve fare i conti anche con le metamorfosi dettate da altri fattori di rischio su scala planetaria, che oltre a produrre fenomeni estremi come le alluvioni e le siccità, possono comportare effetti collaterali di tutto rispetto, come i rischi legati al cambiamento delle condizioni sociali, economiche, ambientali e dall’uso del suolo.  Si potrebbero avere necessità di affrontare, per esempio, problematiche ad oggetto il mancato approvvigionamento di prodotti primari come l’acqua potabile e addirittura il pane.
Un altro elemento che bisogna tenere in debita considerazione, è il possibile crollo della tecnologia, soprattutto quella che ci offre i servizi in rete: se interrotti infatti, potrebbe scatenarsi il panico più assoluto, perché crollerebbero i servizi finanziari e informativi e organizzativi, oltre naturalmente a una certa solitudine sociale che, per molti individui, è insopportabile. D’altro canto in una globalizzazione a “pensiero unico” incentrata sugli aspetti finanziari e sulle politiche dei costi benefici, i rischi aumentano sensibilmente soprattutto per una certa fascia di popolazione, che in genere è quella povera e quella definita paria della società.
A Hyogo si è discusso sulla necessità di garantire che la riduzione del rischio di catastrofi sia una priorità delle nazioni e una priorità delle amministrazioni locali, forgiando una solida base istituzionale per l'attuazione dei programmi vertenti sul come utilizzare la conoscenza, l'innovazione e l'istruzione per costruire una cultura della sicurezza e della resilienza a tutti i livelli.
Occorre allora formare le comunità su quelle che sono le vulnerabilità dettate dai sistemi energetici naturali e in prospettiva sociali (finanza), che possono tradursi in rischi per le popolazioni. In un’ottica più grande e globale del pericolo del vivere in un mondo di interazioni e di rapide evoluzioni, occorre che i cittadini imparino ad acquisire il potere dell’adattabilità per rispondere alle necessità della sopravvivenza, a fronte delle possibili inclemenze che potrebbe riservarci il futuro. Essendo che ogni processo formativo parte innanzitutto dalla comprensione dei fenomeni da cui difendersi, forse è il caso di iniziare a formarci, magari anche come gioco per i giovani, in modo che la resilienza fisica e psicologica diventi intanto una disciplina da approfondire…
Per una problematica ad alta complessità come quella della resilienza delle comunità, occorre che i governi mondiali e centrali, aiutino i governi periferici, nel nostro caso spiccatamente i comuni, che rappresentano l’amministrazione più vicina ai bisogni di sicurezza dei cittadini. Per questo motivo, sarebbe auspicabile che si aprano finestre di reale dialogo tra le popolazioni e le municipalità anche in rete fra di loro, accomunati da fattori di rischio omogenei, pure per individuare innanzitutto i punti deboli dei territori che possono inficiare potenzialmente la resilienza delle comunità esposte.
Gli obiettivi che si prefiggono le organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite, sono quello di proseguire il percorso già avviato con le iniziative di Hyogo Framework for Action (2005/2015), incentrate sulla gestione delle catastrofi, con altri obiettivi previsti successivamente dai protocolli di Sendai Framework 2015/2030, quest'ultimi maggiormente volti alla gestione del rischio di catastrofe (prevenzione). In tutte e due i casi comunque, occorre dare diretta importanza alla capacità preventiva di mitigare le avversità naturali con tutti gli aspetti evolutivi dei cambiamenti climatici, ma anche quelle derivanti dalla tecnologia e dalla biologia che interesseranno per il futuro, nel breve e medio e lungo termine, tutta l’umanità. Il mondo non è statico e non è un comparto chiuso, e noi occupiamo quella parte superficiale del Pianeta dove tutti gli elementi a differente densità (aria, acqua, suolo), si toccano, si confrontano e si agitano grazie a due grandi motori: il calore solare e quello insito all’interno della massa terrestre…
La capacità di resilienza delle popolazioni che devono districarsi fra questi tre elementi tra l’altro in un contesto di conflittualità umana, deve essere accompagnato da una concreta attenzione delle classi governative ai più svariati livelli decisionali nazionali e internazionali, anche per garantire un’azione coordinata degli aiuti in favore delle comunità più deboli. Politiche che richiedono impegni finanziari notevoli, ma anche capacità di programmazione con approccio multidisciplinare su quello che generalmente viene definito lo sviluppo sostenibile e aggiungeremmo sicuro ed equo.
Il forum europeo sulla riduzione dei rischi da catastrofe naturale e antropica e climatica, ha acceso una particolare attenzione alla cosiddetta resilienza ai disastri delle città. I competenti uffici delle Nazioni Unite, su questi grandi temi hanno elaborato una Score card, cioè una sorta di check - list per aiutare i comuni anche italiani che aderiscono al progetto, a monitorare al meglio i progressi della loro azione mitigatrice dei pericoli e di capacità alla resilienza a fronte delle catastrofi, attraverso la sinergia tra le attività di prevenzione strutturale, di protezione civile e di costruzione di una cultura del rischio.
La card indica in 10 punti le azioni fondamentali a cui ogni comune deve o dovrebbe tendere per raggiungere i risultati anzidetti e così riassumibili:

  1. Organizzarsi per la resilienza ai disastri.
  2. Identificare, comprendere e utilizzare gli scenari di rischio presenti e futuri.
  3. Rafforzare le capacità finanziarie per la resilienza.
  4.  Perseguire uno sviluppo umano resiliente.
  5.  Salvaguardare le interfacce naturali per migliorare le funzioni protettive offerte     dagli ecosistemi naturali.
  6.  Rafforzare la capacità istituzionale alla resilienza.
  7.  Comprendere e rafforzare la capacità della società alla resilienza.
  8.  Aumentare la resilienza delle infrastrutture.
  9.  Garantire una risposta efficace ai disastri.
  10. Accelerare il recupero e garantire una migliore ricostruzione. 
      Di questa score card, possiamo offrire il nostro punto di vista sull’attuale stato dell’arte con una disanima critica dei punti appena proposti, che al momento rimangono traguardi da raggiungere. Speriamo che il comune di Pompei diventi battistrada di un pensiero e di un'azione  volta innanzitutto alla mitigazione delle catatrofi in tutte i loro aspetti, forme e intensità.

  1.            Ovviamente la città di Pompei che fa parte di una più grande zona rossa composta da 25 municipalità, non ha ancora una progettualità di resilienza, così come non ha una pianificazione adeguatamente operativa per fronteggiare il pericolo eruttivo dettato dal Vesuvio.
  2.           Gli scenari di rischio a fronte del rischio Vesuvio sono stati elaborati sulla scorta dell’eruzione media di riferimento e non su quella massima conosciuta. Operazione decisionale proposta dall’INGV su basi statistiche… Questo significa un vulnus permanente anche in caso di successo evacuativo di quella che sarà la futura pianificazione d’emergenza e di evacuazione dell’area vesuviana.
  3.       I circa 74.000 euro che ha ricevuto il comune di Pompei dalla Regione Campania, non sono soldi integrativi per la causa della resilienza della città: una resilienza che ricordiamo comporterebbe di affrontare anche le variazioni e i cambiamenti climatici con tutte le conseguenze. In realtà tale cifra fa parte dei fondi europei di qualche anno fa finalizzati all’elaborazione di un piano di protezione civile comunale omnicomprensivo dei rischi e segnatamente quello vulcanico.
  4.       Lo sviluppo umano resiliente nella città di Pompei può riguardare solo il miglioramento delle vie di fuga e un adeguamento statico degli edifici alle sollecitazioni sismiche e ai depositi piroclastici. Ovviamente nella speranza che le correnti piroclastiche non vadano oltre il limite degli scavi archeologici…
  5.       A Pompei non ci sono particolari interfacce naturali capaci di migliorare la difesa passiva della cittadina mariana alle eruzioni. L’unica interfaccia utile a Pompei, è triste dirlo, è quella rappresentata dall’edificato dei Comuni di Boscotrecase e Boscoreale che s’interpongono fisicamente ad eventuali correnti piroclastiche che si staccherebbero dalla colonna eruttiva scorrendo lungo le pendici del vulcano verso sud sud est.
  6.       Non ci sono istituzioni che comprendono spiccatamente nei loro statuti il perseguimento delle politiche di rafforzamento della resilienza delle città. In Italia la risposta alle avversità è  prevalentemente post catastrofe. All’Aquila col terremoto del 6 aprile 2009, il modello d’intervento operativo è stato di tipo verticale senza concessioni particolari per la popolazione che non deve interferire con l’autorità costituita…
  7.       La società dell’area vesuviana, nella sua complessità e interezza, non ha dimostrato alcuna predisposizione alla resilienza bensì al business cementizio, buttandosi alle spalle qualsiasi avvertimento di pericolo sulla pericolosità dell'area vulcanica.
  8.       Le infrastrutture vesuviane, come tante altre, non hanno grande capacità di resilienza soprattutto perché i terreni vulcanici possono subire deformazioni che inficerebbero la rete dell’acqua, del gas e anche dell’elettricità, posto che i tralicci passano anche nella zona pedemontana del Vesuvio. Le reti fognarie e gli alvei e i canali sarebbero rapidamente invasi dai materiali piroclastici creando alluvionamenti dovuti alle precipitazioni copiose che accompagnano sovente le eruzioni. La viabilità è ai limiti della decenza. La cittadina di Pompei tra l’altro ricade in un quadrante statisticamente soggetto alla ricaduta dei prodotti piroclastici quale fenomeno susseguente qualsiasi tipo d'eruzione.
  9.       La risposta istituzionale ai disastri di bassa entità energetica è sufficientemente assicurata dalle istituzioni competenti (Vigili del Fuoco) in via ordinaria, ma anche dal sistema nazionale della protezione civile in un momento successivo all’emergenza. Per i grandi rischi invece, come può essere un’eruzione vulcanica, il sistema di aiuti è impreparato per una molteplicità di fattori, tra cui la mancata esperienza del mondo scientifico e istituzionale a un cotale evento naturale molto energetico. La possibilità di fronteggiare l’eruzione sul posto  al suo insorgere è inesistente. La difesa dalla catastrofe vulcanica quindi, con tutte le indeterminatezze che porta seco, può essere solo in chiave preventiva, evacuando la plaga vesuviana prima dell’eruzione. Questo vale per Pompei ma anche e soprattutto per i comuni costieri.
  10.       In caso di evento vulcanico non è possibile garantire una rapida ricostruzione e il rispristino della vita sociale in tempi brevi. Bisognerà allora e dopo la catastrofe, valutare col senno del poi il tessuto urbano compromesso, decidendo dove poter riedificare o recuperare o obliare…  Una interlocuzione chiara in tutti i suoi aspetti con le regioni deputate ad ospitare gli sfollati del Vesuvio poi, dovrà essere fatta adesso con il pieno coinvolgimento delle municipalità a rischio. In caso di evento vulcanico, la convivenza che non sarà brevissima, non sarà neanche facile: homo homini lupus
I piani di evacuazione a fronte del rischio Vesuvio, sono ancora incompleti e quindi la plaga vesuviana in caso di pericolo sarà molto probabilmente e nell’attualità alla mercé dell’approssimazione e dei disordini. I piani di evacuazione sono in una condizione permanentemente di aggiornamento: una sorta di saga della rivisitazione programmatica, che dura da ben 24 anni ininterrottamente, segnando così un tempo ben più lungo dei limiti imposti da Penelope per la realizzazione della famosa tela… e i Proci bivaccano ancora...





domenica 14 aprile 2019

Rischio Vesuvio: l'azzardo eruttivo... di MalKo


Vesuvio innevato e orlo calderico del Monte Somma


Con una certa assiduità abbiamo rimembrato in molti articoli che il Vesuvio sarà anche il più controllato e monitorato vulcano del sistema solare, ma non per questo possiamo sottintendere in automatico che il pericolo eruttivo sia sotto controllo.
Il monitoraggio, pure se effettuato con tecnologia spaziale, capace di misurare anche le impercettibili variazioni prodotte dal battito delle ali della famosa farfalla, può solo anticipare il livello di attenzione che a questo punto, e con la spinta sempre più ultratecnologica che ci lascia giocare d’anticipo, l’attenzione potrebbe diventare addirittura permanente. Non è certo però, che la scienza tecnologica associata alle conoscenze attuali, sia giunta allo stadio della risoluzione della previsione vulcanica, che, per molte ragioni, è intricata assai...

La pratica della previsione del rischio vulcanico ha ampi spazi di indeterminatezza, i cui motivi sono tutti da ricercarsi nei limiti dell’orizzonte visibile dei terreni. Certamente il sottosuolo profondo che è anche dinamico, può essere sondato attraverso sistemi indiretti di esplorazione, ma con una forte interpolazione sui dati che non raggiungono definizioni tridimensionali e quindi non soddisfano in pieno i requisiti di attendibilità per una garanzia previsionale.

Gli stessi 4 livelli di allerta vulcanica riportati nella tabella sottostante, sono una indicazione di massima di uno stato crescente d'inquietudine dell'apparato che si avvicina progressivamente all'eruzione. Purtroppo, tutte le energie e soprattutto quella vulcanica, hanno una loro progressione che solo il caso potrebbe rendere uniformemente accelerata. 

Livelli di allerta vulcanica
Questo spiega perché i livelli di allerta vulcanica possono avere una sequenzialità anche talmente veloce da saltare letteralmente un colore. Quindi, anche l’auspicio che in caso di crisi vulcanica si possa transitare per una condizione di preallarme, in realtà è una speranza, che se non dovesse concretizzarsi, comporterebbe ripercussioni sul piano di evacuazione la cui strategia conta moltissimo sull’allontanamento spontaneo della popolazione in questa fase arancione. L’allontanamento preventivo di chi ha già un punto di ricovero fuori dalla zona rossa,infatti, alleggerirebbe la spinta caotica evacuativa determinata da tutti i settecentomila vesuviani che si sposterebbero contemporaneamente alla dichiarazione dell’allarme rosso.

Occorre dire che sull’argomento previsione è sempre filtrata da alcuni ambienti vicini al mondo scientifico e istituzionale, la notizia che le eruzioni sono prevedibili con largo anticipo: addirittura mesi prima… Questo ha consentito a non pochi amministratori di obliare completamente le pratiche di prevenzione del rischio vulcanico, cavalcando la notizia che la salvezza delle popolazioni esposte al pericolo è certamente assicurata dalla previsione dell’evento, mesi o comunque almeno alcune settimane prima che il fenomeno si manifesti.

Non vogliamo né dissentire e né confermare questa interpretazione che rimane una speranza collettiva, però occorre rimanere sul dato reale che è quello dell’indeterminatezza della previsione vulcanica, tanto nel lungo che nel medio e nel breve termine. L'indeterminatezza potrebbe comportare falsi allarmi ma anche ritardati o mancati allarmi.

A questo punto è interessante verificare quello che scrive il competente Dipartimento della Protezione Civile:
Tra i rischi di protezione civile, quello vulcanico viene spesso considerato un rischio “prevedibile” perché si ritiene possano essere riconosciuti e misurati i fenomeni che pre-annunciano la risalita del magma verso la superficie, per questo detti “precursori” (terremoti, fratturazioni del terreno, deformazioni dell’edificio vulcanico, variazioni nell’emissione dei gas e delle temperature dei fluidi, ecc.). Si tratta però di una semplificazione che non tiene conto della complessità e dell’estrema variabilità delle fenomenologie vulcaniche e della difficoltà a valutarle e interpretarle…
…Tuttavia, anche se questi fenomeni vengono studiati e monitorati puntualmente, non è possibile prevedere con certezza, anche per le peculiarità che caratterizzano ogni vulcano, quando e come potrà avvenire un’eruzione vulcanica. Allo stato attuale delle conoscenze, non è infatti ipotizzabile alcuna forma di previsione deterministica.

Ovviamente questo limite predittivo soprattutto per una certa fascia di vulcani è di ordine mondiale e non nazionale, atteso che in questo come in altri campi, l'Italia vanta grandi competenze scientifiche. 
Il limite previsionale influenza quindi anche i livelli di allerta vulcanica che trovano un loro posizionamento all'interno di un quadro più generale di incertezza legata alle dinamiche del sottosuolo con le sue innumerervoli variabili.
Vediamo come il Dipartimento della Protezione Civile affronta il discorso livelli di allerta:

I livelli di allerta sono dichiarati dal Dipartimento della protezione civile, in stretto raccordo con le rispettive strutture di protezione civile regionali, sentito il parere, se i tempi e le modalità di evoluzione delle fenomenologie vulcaniche lo consentono, della Commissione Grandi Rischi - Settore Rischio Vulcanico. La valutazione si basa sulle segnalazioni delle fenomenologie e sulle valutazioni di pericolosità rese disponibili dall’Ingv-Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia e dagli altri Centri di Competenza, con particolare riguardo, per i vulcani siciliani, al Dipartimento di scienze della terra dell’Università di Firenze.
Per ogni vulcano, il passaggio da un livello di allerta al successivo può avvenire in anticipo rispetto al verificarsi delle fenomenologie, se le informazioni fornite dai Centri di Competenza lo consentono. In caso contrario, il passaggio può essere decretato a fenomeno osservato, quindi avvenuto o in corso. A questo proposito è utile sottolineare che il passaggio di livello di allerta può non avvenire necessariamente in modo sequenziale o graduale, essendo sempre possibili variazioni repentine o improvvise dell’attività dei vulcani, anche del tutto impreviste.

tipo di eruzione e corrispondente VEI

Anche in questo caso facendo la somma delle indeterminatezze, arriviamo alle perplessità legate alla scelta dell’eruzione di piano, cioè la tipologia eruttiva adottata per definire la zona rossa VEI4. Sempre il Dipartimento scrive:

...Le aree a rischio previste per un’eruzione sub-pliniana, assunta come scenario di riferimento per il nuovo Piano Vesuvio, coprono anche quelle previste per un’eruzione stromboliana, di minore energia.
Tuttavia, si sottolinea che nonostante sia stato individuato come evento di riferimento un’eruzione sub-pliniana, allo stato attuale delle conoscenze, qualora si presentassero fenomeni legati ad una probabile riattivazione, non sarebbe possibile stabilire dall’analisi dei precursori di quale tipo sarà l’eventuale eruzione.

A fronte di questa situazione che è lo specchio di un’attualità scientifica che tenta attraverso la strada della ricerca di dare risposte tanto per i vulcani quanto per i terremoti, sussiste nell'attualità uno stato di incertezza, magari anche minima, che comunque non garantisce in senso deterministico che il pericolo Vesuvio sia monitorabile in tutte le sue fasi d’insorgenza energetica.

La situazione è un pò più critica per i Campi Flegrei, dove alle difficoltà di previsione anche sul breve del fenomeno eruttivo, si aggiungerebbe l’indeterminatezza del punto dove potrebbe svilupparsi l’eruzione, che potrebbe essere più di uno e in un qualsiasi luogo all’interno della caldera, anche se occorre aggiungere che il maggior sollevamento del suolo (bradisismo) lo si riscontra nel sottosuolo puteolano che si affaccia al mare.

Se da un lato è stata adottata come chiave temporale per un’eruzione pliniana un arco di tempo minimo di 100 anni e massimo di 1000, nel flegreo l’ultima eruzione avvenne circa 500 anni fa: a questo punto quei territori dovrebbero presentare un gap pliniano medio per la posizione mediana che occupa il periodo di quiescenza all’interno della scala che abbiamo menzionato. Le autorità stimano al 4% tale eventualità eruttiva...

Nel discorso complessivo possono esserci d’aiuto i discorsi e le circostanze legate al terremoto dell’Aquila del 6 aprile 2009. In quell’occasione la commissione grandi rischi che poi in giudizio non fu considerata tale, asserì una settimana prima del forte terremoto, che le scosse sismiche che si protraevano da mesi non era certo che costituissero un campanello d’allarme predittivo per un evento più intenso. Purtroppo 309 morti e 1.600 feriti testimoniarono il contrario…

In quell’occasione il Sindaco Cialente per il perdurare della fenomenologia sismica, fu fortemente provato ancorchè pressato dalle domande dei cittadini che chiedevano se c’era pericolo a rimanere nelle case. Il Sindaco ovviamente non sapeva cosa rispondere… Nell'area vesuviana o flegrea se venissero percepiti gli eventi sismici incalzanti, verrebbe chiesto ai Sindaci se c'è pericolo a permanere nella zona rossa. Non a caso abbiamo parlato di terremoti perchè nella relazione Barberi del 1990 i sismi e la localizzazione degli ipocentri, pare che siano la discriminante per tentare una previsione sul medio breve termine dell'eruzione.

Teoricamente i sindaci non dovrebbero assumere alcuna iniziativa in questa pianificazione nazionale a proposito dell’evacuazione della zona rossa, che dovrebbe essere una decisione spettante alla Presidenza del Consiglio: ma se la situazione contingente legata al rischio, che è un fattore molto complesso, dovesse suggerire una tale determinazione prudenziale, il Sindaco potrebbe decidere da solo? Il problema è che se l'evacuazione la decide la Presidenza del Consiglio sono previsti per le famiglie che si allontanano dei contributi di autonoma sistemazione (CAS). Diversamente, in assenza di uno stato di preallarme, l'evacuazione diventerebbe spontanea ma fuori dal contesto operativo: quindi, teoricamente nessuno potrebbe vietare l'allontanamento ma nessun cittadino potrebbe chiedere l'aiuto economico.

Sarebbe da discuterne, perchè così come successe a Cialente, nel caso in cui il preallarme dovesse cogliersi grazie alla percezione dei sensi, magari in un contesto temporale esiguo per attendere le decisioni della Commissione Grandi Rischi, il Sindaco avrebbe margini di autonomia decisionale?

  

domenica 7 aprile 2019

Rischio Vesuvio: la VII commissione e i gemellaggi in Campania...di MalKo


Il Vesuvio visto dal mare


L’organizzazione dei piani d’emergenza e di evacuazione a fronte del rischio Vesuvio, prevede che in caso di allarme vulcanico i comuni del vesuviano che rientrano nella zona rossa (R1+R2), devono evacuare portandosi nelle regioni italiane e/o province autonome con cui c’è un’intesa di fondo sui gemellaggi.

Per rendere operativi gli accordi con tutte le regioni, il 09. 01. 2019 il governatore De Luca e il capo del dipartimento della protezione civile Borrelli, avevano chiesto alle amministrazioni comunali interessate, di sottoscrivere i protocolli d’intesa con le regioni deputate all’accoglienza, entro il termine perentorio del 28 febbraio 2019, secondo lo schema qui riportato.

Tavola dei gemellaggi
La VII commissione consiliare della regione Campania però, il 29.01.2019 ha approvato un documento a firma dei consiglieri Oliviero, Amato, Beneduce, Muscarà, e Viglione, ad oggetto “il piano di evacuazione per il rischio vulcanico in Campania e gemellaggi”. Questo documento, in concreto, chiede che la Regione Campania nel dotarsi di un piano di allontanamento della popolazione residente nelle zone rosse a fronte del rischio vulcanico, punti a rivitalizzare e valorizzare le aree interne della Regione Campania.
 La VII commissione consiliare, si legge nel documento, impegna la giunta regionale a:

Sollecitare la convocazione di un tavolo tecnico di confronto presso il Dipartimento di Protezione Civile della Presidenza del Consiglio dei Ministri, per l’aggiornamento del Piano di Evacuazione dell’ Area Vesuviana, secondo il principio per cui i gemellaggi avvengono all’interno del territorio regionale, al fine di ridurre i centri decisionali per la gestione del rischio, limitare i fenomeni di spopolamento di diverse aree del territorio regionale e favorire, attraverso le intese con i territori interessati, processi sinergici di crescita economica, culturale e sociale, che mitighino, nel contempo, il rischio vulcanico.

A Sollecitare l’applicazione del medesimo principio anche nelle attività di pianificazione di emergenza per il rischio vulcanico in area flegrea.



Ad attuare, parallelamente, un meccanismo d’infrastrutturazione sociale, che informi e formi la popolazione delle zone vesuviana e flegrea dei comuni di accoglienza.

A promuovere l’organizzazione, in via sperimentale, sotto la supervisione ed il coordinamento della Protezione Civile, di una esercitazione che interessi almeno 40.000 cittadini vesuviani, che dovranno raggiungere i comuni di accoglienza, individuati tra quelli delle aree interne soggette a spopolamento e con surplus abitativi.

A fornire, sulla base degli indirizzi e dei criteri generali formulati dal Dipartimento della Protezione Civile, linee guida alle Province di Caserta, Salerno, Benevento ed Avellino, per predisporre aree di accoglienza di breve, medio e lungo periodo.

A sollecitare tutti i comuni ancora inadempienti alla redazione dei “Piani Comunali di Protezione Civile o di Emergenza.



La VII, si legge, <<per addivenire a queste conclusioni, ha svolto un ciclo di audizioni con le associazioni del territorio, per valutare lo stato di attuazione delle attività di previsione e prevenzione avviate in collaborazione con il Dipartimento della Protezione Civile Nazionale relative al rischio vulcanico in Regione Campania per l’area vesuviana e flegrea, nell’ambito delle quali sono emerse alcune valutazioni sulla necessità che i piani di evacuazione prevedano una più stretta sinergia con i territori limitrofi in ambito regionale e con le aree interne>>.

Incominciamo col dire che la previsione dell’evento vulcanico è legata a elementi probabilistici, una sorta di exit poll che finiscono di essere tali solo nel momento in cui una colonna eruttiva avverte che si è raggiunto il 100% del campione previsionale che da statistico diventa reale. Gli strumenti anche di tecnologia spaziale infatti, possono solo anticipare la fase di attenzione, ma non forniscono elementi utili per la risoluzione del problema della previsione deterministica dell’eruzione, non solo nel lungo termine ma anche nel breve periodo.

La difficoltà di una valutazione sul decorso temporale dei fenomeni precursori dell’eruzione è argomento vecchio ma irrisolto. In altre parole, il problema principale che si tenta di risolvere, è quello di riuscire a fornire una previsione di eruzione in tempo utile per avviare la procedura di evacuazione della popolazione a rischio, senza dover fare i conti con i falsi allarmi, o peggio ancora con i ritardati o i mancati allarmi.

Il secondo problema riguarda la determinazione dello stile eruttivo dell’eruzione futura. Purtroppo non è possibile stabilire in anticipo l’intensità eruttiva, se non attraverso calcoli statistici, che a loro volta hanno consentito di determinare i confini della zona rossa (statistica), che altro non è che il territorio su cui si possono abbattere le famigerate colate piroclastiche, e nella zona Rossa 2 grandi quantità di cenere e lapilli.

Se si sovradimensionasse troppo la zona rossa, si avrebbe l’aumento dei tempi di evacuazione col rischio di incappare nell’eruzione. Se invece si sottostimasse la zona rossa, si accelererebbero le procedure evacuative, ma di contro si rischierebbe di lasciare sul posto una certa quantità di abitanti totalmente alla mercé dell’eruzione. Questo significa a proposito della prevenzione della catastrofe vulcanica, che aiuterebbe moltissimo una formula preventiva comprendente un’estensione della zona rossa contemporaneamente a un decremento del numero di abitanti.

Le principali tipologie eruttive del Vesuvio espresse in VEI (Volcanic Explosivity Index). 


L’eruzione che il mondo scientifico ha inteso adottare come scenario di riferimento per delimitare la zona rossa Vesuvio, è quella VEI4. Come s’intuisce anche dalla tabella soprastante, trattasi di un’eruzione mediamente intensa e non quella massima conosciuta (Pliniana). Questo significa che anche col successo previsionale ed evacuativo, l’insorgere seppure poco probabile di un’eruzione di taglia maggiore di quella prevista dal piano, comporterebbe una catastrofe senza precedenti.
Da questa determinazione energetica (VEI4) è scaturita la zona rossa totale i cui limiti cartografici sono meglio evincibili nell’immagine sottostante.

La zona rossa Vesuvio circondata dalla zona gialla e in alto da quella blu.

I livelli di allerta, quelli che determinerebbero il preallarme, cioè la fase di evacuazione spontanea e poi l’allarme con conseguente abbandono totale della zona rossa, in realtà non hanno un incremento temporale uniformemente progressivo; questo vuol dire che potremmo passare direttamente dalla fase di attenzione a quella di allarme senza il livello intermedio su cui contano tantissimo le autorità di protezione civile per ridurre il numero dei vesuviani prima dell’allarme vero e proprio.
Questi preamboli servono a far capire che non ci possono essere tentennamenti aggravati da indecisioni sulla destinazione degli sfollati, qualora si dovesse dichiarare operativa la fase di evacuazione del vesuviano.


La zona rossa nella sua interezza conta circa 700.000 abitanti. La cifra corrisponde alla popolazione di una città come Palermo, o se volete alla somma degli abitanti della provincia di Avellino e Benevento…
La VII commissione consiliare regionale Campania, quella che tratta ambiente e protezione civile, suggerisce che in caso di allarme vulcanico i vesuviani potrebbero essere allocati nella parte interna della regione, in quella dove è particolarmente sentito il problema dell’abbandono dei paesi, dello spopolamento, garantendo così un sinergismo tra procedura evacuativa, territori limitrofi e aree interne che andrebbero ripopolate.

In linea di principio il concetto ha una sua logica, ma intanto oltre che a scontrarsi con i numeri bisognerebbe chiedersi i motivi dello spopolamento delle aree interne. Innanzitutto le cause potrebbero ascriversi al pericolo sismico e al dissesto geologico e agli alluvionamenti che hanno comportato in qualche caso l’abbandono di intere cittadine. Secondo alcuni dati la Campania è la terza regione italiana incalzata dal dissesto idrogeologico soprattutto con la provincia di Salerno.

Ai problemi di origine naturale e poi a quelli storici come l’abbandono dei monti e quelli infrastrutturali che sono proprie di zone montuose e collinari dell’entroterra, qualsiasi progetto di reinsediamento abitativo potrà essere appetibile solo quando verranno incrementate le vie di comunicazioni e quei servizi non solo di primaria importanza che rendono accettabile un perdurevole stanziamento fuori mano.
Il beneventano e l’avellinese sono le due province dove il numero di abitanti è diminuito. Caserta e Salerno godono invece di un discreto indice demografico perché ad occidente confinano col mare quale zona molto ambita e votata anche per il futuro a un maggiore affollamento.

In linea di massima il progetto di poter usufruire di alloggi lì dove le case sono state lasciate per emigrazione di varia natura, anche economica, dovrebbe avere come presupposto di fattibilità la gratuità dell’appartamento o del casolare, perché se non è di proprietà l’abitazione, difficilmente il titolare dell’alloggio potrà avere convenienza a ristrutturarlo privatamente. D’altra parte neanche si può caricare sulle tasche pubbliche una tale iniziativa, perché occorrerà recuperare e mantenere l’efficienza statica e ove occorra antisismica e infrastrutturale e tecnologica delle magioni reintrodotte nel circuito abitativo: in comodato d'uso o proprietà?
Qualsiasi tipo di edificato recuperato all’abitabilità in pianta stabile, necessita poi della buona manutenzione delle strade, assolutamente fondamentali per raggiungere l’entroterra, compreso tutti i servizi di urbanizzazione. Un entroterra che nelle mire dei destinatari del progetto di reinsediamento post evacuazione, potrebbe poi tradursi in una spiccata volontà di insediarsi prevalente nelle due province maggiormente ambite, che sono il salernitano e il casertano. I cilentani con il loro parco,  se dovesse passare il progetto della VII, dovrebbero iniziare a preoccuparsi perché il concetto di entroterra associato a quello di territori limitrofi, è molto politicamente interpretabile…

In tutti i casi la VII ha commesso forse un grave errore mischiando le problematiche dell’abbandono dell’entroterra con il piano di evacuazione della zona rossa Vesuvio, perché i numeri in gioco e i tempi di realizzo di una progettualità reinsediativa pianificata, sono troppo ampi e misurabili a colpi di decenni; quindi occorrono pianificazioni e incentivi e fondi, magari anche europei, traducibili in durate non conciliabili con le esigenze di una pianificazione di emergenza per un rischio che non ha intervalli temporali certi. Diciamo chiaramente che una cosa è il ripopolamento strutturale delle zone interne, e un’altra cosa è il piano di evacuazione che serviva già ieri, e che dobbiamo ringraziare solo la pace geologica se non abbiamo dovuto fare i conti con questa grave mancanza istituzionale volta alla tutela delle popolazioni esposte.

Anche il concetto di aree di accoglienza a breve, medio e lungo termine che si legge nelle indicazioni della settima commissione, non ha un grandissimo senso, perché la differenziazione sui tempi di permanenza in una tendopoli o similare, derivano dalle strutture e infrastrutture a servizio del campo, così come le caratteristiche del circondario e le inclemenze meteorologiche e la stagione e la morfologia dei luoghi. Una tendopoli però, per sua natura in ogni caso è da ritenersi temporanea, nel senso breve del termine. Una roulottopoli per un cotale numero di utenti richiederebbe grandi spazi di parcheggio già in tempi di pace.  Insediamenti preventivi che utilizzino prefabbricati rispetto a un’emergenza che potrebbe presentarsi anche a distanza di secoli, non è proponibile perché i prefabbricati richiedono continua manutenzione.  I tempi dell’emergenza vulcanica e del ripristino delle zone colpite poi, ricordiamolo bene, possono misurarsi ad anni…

Utilizzare le case in muratura abbandonate come seconde case significa accollarsi una spesa non indifferente che graverà su chi le acquisisce a prescindere se trattasi di una amministrazione pubblica o privati cittadini. Certo, il patrimonio edilizio recuperato potrebbe allettare gli interessati magari come case vacanze, ma non c’è una grande richiesta in tal senso per le zone interne, bellissime, ma relegate agli amatori della campagna e delle colline e dei monti e della pace in genere.
Le due province che soffrono di spopolamento sono quella avellinese e beneventana. A conti fatti escludendo Napoli, le altre quattro province hanno un numero di comuni pari a 458. Questo significa ipoteticamente che per ogni comune dovrebbero destinarsi, calcolando solo il 50% degli sfollati del Vesuvio, 764 abitanti per ogni singola municipalità.
dati tratti dal sito tuttitalia.it 

A voler garantire assistenza abitativa alla metà della popolazione di Portici ad esempio, quindi 27.288 abitanti, con il tasso di 764 unità per comune, i porticesi dovrebbero stringere protocolli d’intesa con circa 36 municipalità. Nell’avellinese su 118 comuni 111 hanno cadauno meno di 10.000 abitanti e Avellino (54.353 ab.) ha quasi l’identico numero di residenti di Portici. Nel beneventano su 78 comuni 73 hanno popolazioni inferiori alle 10.000 unità per paese. La città di Benevento (59.945 ab.) ha una popolazione di poco superiore a quella di Portici (54.577 ab.).
Gli elementi sopra riportati dimostrano che qualsiasi aggregazione massiva in ambiti territoriali campani delle popolazioni sfollate, stravolgerebbe gli equilibri sociali ed economici e anche territoriali dell'esistente.

L’errore che si sta commettendo, è quello di aver offerto un ulteriore alibi ai comuni vesuviani per non adempiere alla sottoscrizione dei gemellaggi con le altre regioni italiane. La proposta della VII in tutti i casi è un po' un guazzabuglio, perché  mette insieme la volontà di pianificare gli interventi sul territorio per ovviare allo spopolamento interno, con esigenze di protezione civile che, in nome della prevenzione delle catastrofi, potrebbe contare su soldi e mano libera dagli appigli burocratici, che non porterebbero però a un grande successo antropico strutturato. Per ottenere questo risultato auspicabile, ci vuole l'esca del lavoro nell'entroterra...

La prevenzione della catastrofe vulcanica prevede l'immediata messa in sicurezza dei vesuviani prima che avvenga l'eruzione, collocando velocemente la popolazione  fuori dalla zona rossa. Successivamente o contemporaneamente, si procederà per una destinazione alloggiativa provvisoria o sufficientemente stabile, ma in nessun caso bisognerà ritardare le dinamiche di salvataggio iniziale. 

Non diamo spazio a idee di neocolonialismo regionale, ancorché se non ci sono garanzie di equità tra i cittadini. Facciamo prima i conti e le valutazioni sulle opportunità offerte dall'entroterra, magari anche fuori dal concetto emergenziale come meriterebbe,  e solo in un secondo momento a proposito dell'evacuazione in regione, se tornano i numeri e gli spazi e le volontà e le soluzioni grideremo Eureka!














domenica 30 dicembre 2018

Rischio Vesuvio: Pompei in Sardegna... di MalKo

Vesuvio visto dagli scavi archeologici di Pompei

Forse non tutti sanno che il gruppo di lavoro A, cioè la commissione di esperti vulcanologi incaricata dal dipartimento della Protezione Civile di definire la zona rossa Vesuvio, riferì esplicitamente nelle conclusioni, che buona parte del territorio comunale di Pompei poteva essere estrapolato dal perimetro di massima pericolosità vulcanica.

Anche la linea nera Gurioli, introdotta dalla Commissione Grandi Rischi per circoscrivere scientificamente il limite d’invasione dei micidiali flussi piroclastici, non include la parte sud - sud - est di Pompei, portando alla conclusione che la famosa cittadina mariana è totalmente vulnerabile alle sole eruzioni di taglio pliniano, come quella che nel 79 d.C. sconvolse e seppellì letteralmente Pompei, ma anche Ercolano, Oplontis e Stabia…

La taglia eruttiva pliniana (VEI5) è stata esclusa dagli scienziati dell’INGV dal ventaglio delle probabilità di accadimento almeno per i prossimi 130 anni: il che equivale un po’ azzardosamente a una previsione deterministica. Tant’è che lo scenario eruttivo adottato per la redazione del piano d’emergenza Vesuvio, prende in esame solo eventi e fenomenologie di media portata (VEI3; VEI4), perché gli scienziati, come dicevamo in precedenza, ritengono che per oltre un secolo una eventuale interruzione della quiete vulcanica del Vesuvio, ci porterebbe a dover fronteggiare solo eruzioni ultra stromboliane o al massimo sub pliniane. La notizia è data con sicurezza scientifica, nonostante i sistemi magmatici siano molto complessi e ben poco decifrabili in anticipo e con accuratezza prognostica…

Il sindaco della città di Pompei ha tenuto lunedì 17 dicembre 2018 una riunione con i vertici regionali della protezione civile della Sardegna: Regione con cui i pompeiani sono gemellati, per vedersi riconosciuta accoglienza, qualora dovesse rendersi necessario fronteggiare il pericolo vulcanico, da cui bisognerà sottrarsi in anticipo attraverso l’evacuazione preventiva della popolazione verso l’isola nuragica.

Secondo le indicazioni ricavate dalle procedure di evacuazione, i cittadini di Pompei che non hanno nella loro disponibilità un mezzo di locomozione, dovrebbero confluire ove necessario con formula assistenziale, in una o più aree di attesa localizzate all’interno del territorio comunale.

idea di massima di un'area di attesa comunale

Dall’area di attesa poi, occorre attendere gli autobus messi a disposizione dalla Regione Campania, che si incaricherebbero di prelevare e trasportare gli sfollati fuori dalla zona rossa e fino all’area d’incontro.

Nell’area d’incontro, i cittadini verrebbero presi in consegna dalla Regione con cui sono gemellati, che assicurerebbe il coordinamento dei mezzi di trasporto necessari per garantire lo spostamento delle popolazioni fino ai punti di prima accoglienza e successivamente nelle strutture di accoglienza.
Schematizzazione allontanamento popolazione in caso di allarme vulcanico

Per evacuare i cittadini da Pompei in Sardegna c'è uno schema da rispettare: gli sfollati verrebbero trasportati nelle aree d’incontro che sono state individuate nel porto di Salerno; da qui con l’impiego di navi traghetto si arriverebbe a Cagliari e poi in modo intermodale alle varie strutture di accoglienza disseminate sull’isola.

Le cronache giornalistiche portano la notizia che l’incontro tra l’amministrazione regionale Sarda e quella comunale di Pompei, si è caratterizzata per un nulla di fatto in quanto la Regione Campania pare che non abbia inviato alcun dirigente o esponente politico a presenziare alla discussione che doveva essere propedeutica ai protocolli d’intesa necessari per dettagliare operativamente le procedure di accoglienza.

Perché i vertici regionali campani hanno disertato l’incontro rendendo vana la trasferta degli omologhi sardi non è dato saperlo… Uno dei motivi potrebbe essere che l’amministrazione di Pompei si sia spinta troppo in avanti rispetto all’attuale stato dell’arte della pianificazione emergenziale nel suo complesso, che dovrebbe forse subire un processo di maggiore riflessione e in ogni caso di coinvolgimento di altri attori amministrativi e istituzionali.

Anticipare gli accordi sull’accoglienza potrebbe risultare in questo momento inopportuno, soprattutto se si è agito senza una preventiva intesa con la Regione Campania che ha la responsabilità del trasporto  dalle aree di attesa a quelle d’incontro, così come la Regione o le Regioni concorrenti dovranno presiedere alle operazioni di traghettamento e di accoglienza delle popolazioni sfollate, presumibilmente coordinandosi con le Capitanerie di Porto che devono indicare procedure e varchi, e spazi e servizi infrastrutturali, e poi con la Polizia che dovrà definire modalità utili per mantenere l’ordine pubblico, e con i Vigili del Fuoco per una sicurezza gestionale connessa in ogni caso agli affollamenti.

Secondo la bozza di piano di evacuazione, è misurato in 25.440 unità il numero dei pompeiani che occorrerà evacuare dalla zona rossa in caso di allarme vulcanico, utilizzando mezzi collettivi (Bus), ma anche veicoli privati. Infatti, l’intera popolazione di Pompei dovrà convergere nel porto di Salerno, ma non tutto è chiarissimo e ben spiegato, perché non siamo riusciti a rintracciare il piano di emergenza e di evacuazione che dovrebbe essere già stato elaborato dalla Polizia municipale di Pompei, che ha la responsabilità delle attività di protezione civile sul territorio…

A leggere per sommi capi le strategie del piano di evacuazione generale, è stato previsto orientativamente che il 50% dei cittadini di Pompei, cioè circa 12.720 residenti, necessiterebbero di essere prelevati dalle aree di attesa comunali e trasferiti con gli Autobus regionali fino all’area di primo incontro individuata nel porto di Salerno.
L’altro 50% della popolazione residente si muoverebbe da Pompei utilizzando il parco auto privato, raggiungendo parimenti il porto di Salerno per imbarcarsi sulle navi traghetto. Quindi, nell’area portuale salernitana si ammasserebbero quasi 25.440 cittadini e circa 6000 autovetture: ovviamente sono stime e non dati certificati.

Traghetto tipo per Sicilia e Sardegna

L’impegno navale dovrebbe allora commisurarsi su circa 10 ferry boat o corse corrispondenti per il trasporto delle autovetture, e circa 16 traghetti per trasportare l’intera popolazione. I dati sono assolutamente indicativi e tutti dipendenti dal tipo di navi che s’impegnerebbero all’occorrenza.

Un altro elemento che comporterebbe qualche affanno nelle pratiche d'imbarco, è la contemporanea evacuazione, sempre dal porto di Salerno, di circa 25.007 scafatesi, che sarebbero trasportati sempre con autobus, dalle aree di attesa del comune di Scafati al porto di Salerno, per essere imbarcati su navi traghetto ma in direzione della Sicilia, presumibilmente con destinazione Palermo.


Gli altri 25.007 cittadini che si muoverebbero da Scafati con mezzi propri, seguirebbero presumibilmente il tracciato autostradale della Salerno Reggio Calabria, per raggiungere lo stretto di Messina e da lì la Trinacria.
Quindi e riassumendo: il porto di Salerno è area d’incontro per 2 comuni della zona rossa: Pompei e Scafati per un totale di 50.447 persone e circa 6000 veicoli.
Facendo un po’ di calcoli, per trasportare i 37.727 abitanti tra pompeiani e scafatesi al porto di Salerno, occorrerebbero circa 10 corse orarie di Autobus, per un arco di tempo diuturno misurato in 48 ore. In totale occorrerebbero quindi 471 corse di autobus dalla zona rossa al porto di Salerno…

Consigliamo di valutare bene la necessità di impegnare la Sardegna, che forse poteva rimanere una Regione di riserva per spostamenti di secondo livello e non legati all’evacuazione preventiva.

Sarebbe anche necessario valutare una reale strategia evacuativa d’emergenza, perché quella attuale di allontanamento messa a punto dalle autorità competenti, non è particolarmente efficace a fronteggiare situazioni impreviste che possono materializzarsi anche per il solo insorgere di prodromi eruttivi incalzanti e largamente percepibili, senza per questo chiamare in causa l’imminenza di un’eruzione.

Le filosofie legate alla precauzione, consiglierebbero di elaborare un piano B di evacuazione, autoportante e immediatamente finalizzato a porre fuori dalla zona rossa il maggior numero possibile di vesuviani e nel minor tempo possibile. E poi si pubblichino i piani comunali se esistono, perché fino ad ora siamo stati costretti a partire dal risultato finale, una sorta di formula inversa, per intuire la strategia di salvaguardia dei cittadini dal rischio eruttivo, ma senza ritrovarla scritta nei dettagli da nessun’altra parte… A tal proposito un vademecum  distribuito ai cittadini sarebbe molto utile.
Qualsiasi rettifica o precisazione sull'argomento verrebbe immediatamente pubblicata nei commenti...