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domenica 21 ottobre 2018

Rischio Vesuvio:la conventio ad excludendum...di MalKo



Vesuvio da Torre Annunziata

Il Vesuvio è un famosissimo vulcano che per il passato ha dato vita a eruzioni di diversa intensità, anche di tipo esplosivo (pliniana), come quella che nel 79 d.C. devastò e seppellì le città di Pompei, Ercolano, Stabia e Oplontis: oggi siti archeologici d’importanza mondiale.

Quando un vulcano come il Vesuvio produce un’eruzione esplosiva, forma una colonna eruttiva che spara letteralmente in aria una gran quantità di prodotti piroclastici di varie misure, misti a gas e vapori, che possono raggiungere nelle tipologie pliniane anche i 30 Km. di altezza.


Da questa colonna scura e minacciosa che s’innalza nel cielo accompagnata da scariche elettriche, in genere e dopo poco, si staccano masse di prodotti che, ricadendo lungo i fianchi del vulcano, si trasformano in colate piroclastiche: una sorta di valanghe travolgenti, con ammassi che scorrono velocemente con temperature oscillanti tra i 300° e i 600° Celsius.
Alcune simulazioni hanno consentito di stimare in meno di dieci minuti il tempo occorrente a una colata piroclastica per raggiungere sul versante sud occidentale del Vesuvio il mare.

Pericolosissimi sono anche i lahar, cioè colate rapide, in questo caso di fango, che si sviluppano quando l’acqua espulsa dall’eruzione sotto forma di vapore, condensa e si mescola alla cenere vulcanica, scivolando impetuosamente lungo i valloni erosivi che segnano il monte, per poi dilagare a valle con impeto, dando così spazio agli alluvionamenti melmosi.

La terza e non meno pericolosa manifestazione vulcanica, è quella della pioggia di cenere e lapilli, che andrebbe a interessare soprattutto la zona posta sottovento al vulcano, con potenze di deposito inversamente proporzionali alla distanza dal cratere. La cenere, con la sua componente vetrosa, oltre a creare difficoltà alla respirazione e alla circolazione dei veicoli e velivoli, riduce anche la visibilità. Accumulandosi poi in gran quantità sui tetti non spioventi, potrebbe determinare lo sprofondamento dei solai di copertura e a seguire quelli di piano. Inoltre, gli accumuli di prodotti piroclastici nella parte più alta degli edifici, potrebbero rendere i fabbricati maggiormente vulnerabili alle oscillazioni indotte dai terremoti, a causa dell’anomalo sovrappeso in sommità.

Le lave si presentano raramente nelle eruzioni esplosive; in ogni caso non rappresenterebbero un problema per l’incolumità delle persone, ma solo per le case e altri manufatti che si trovano lungo il percorso. Tra l’altro i flussi lavici sono praticamente incontenibili e difficilmente deviabili.

La cartina che vi mostriamo in basso, evidenzia quelle zone vesuviane e provinciali a differente pericolosità, a iniziare da quella più problematica in assoluto: la zona Rossa 1 (R1). Trattasi della prima area concentrica all’apparato vulcanico, che può essere invasa dalle colate piroclastiche, dai surges piroclastici, dalle colate di fango, e inoltre il settore diventerebbe bersaglio di imponenti ricadute di blocchi, bombe e lapilli. 



La zona Rossa 2 (R2) invece, è quella parte del territorio vesuviano ubicata a est del cono vulcanico, dove, per effetto dei venti dominanti spiranti, secondo elementi statistici, prevalentemente in quella direzione, è maggiore il rischio di massiccia ricaduta di cenere e lapilli con tutti i problemi che ne concernerebbero per la sicurezza, la visibilità e la mobilità dei cittadini.

La zona gialla è quella parte piuttosto estesa del territorio esterno alla zona rossa nel suo complessivo, dove in caso di eruzione si concretizzerebbero problematiche da accumulo di cenere in una misura presumibilmente minore rispetto alla zona R2. In ogni caso le conseguenze per la popolazione sarebbero rapportate alla distanza dal centro eruttivo e dalla direzione e intensità del vento in quel momento. Eventuali provvedimenti cautelativi, secondo le strategie adottate dalle autorità competenti, andrebbero assunti durante l’eruzione, dopo che si sia avuta contezza del settore territoriale maggiormente coinvolto dalla pioggia di cenere e lapilli.

Nella foto sottostante, il campo d’aviazione americano di Terzigno durante l’eruzione del Vesuvio del 1944. La pioggia di piroclastiti rese impraticabile l’aeroporto e danneggiò seriamente gli aerei che non ebbero il tempo di decollare.

1944 - Terzigno - Campo di volo americano "bombardato" dal Vesuvio


La zona blu comprende quei territori in zona gialla a nord del Vesuvio, altimetricamente classificabili depressi (conca di Nola), che in seguito all’eruzione potrebbero essere allagati e sommersi da oltre 2 metri d’acqua e fango. Non c’è ancora una chiara strategia operativa a difesa delle popolazioni che dimorano in zona blu, tra Acerra e Nola. L’entità del fenomeno comunque, avrebbe uno stretto rapporto con i depositi di cenere sottili capaci di impermeabilizzare i suoli. Anche in questo caso quindi, la direzione dei venti e l’entità della pioggia di cenere e lapilli condizionerebbe la vulnerabilità di questo settore, purtroppo in scarsa evidenza nei piani d’emergenza.

Un ulteriore elemento di pericolo intrinseco alle eruzioni, è dettato dai terremoti. Infatti, le eruzioni di solito sono precedute da sussulti sismici di tutto rispetto, con scosse e tremori che si manifesterebbero sia nella fase prodromica ma anche in modo piuttosto acuto durante l’eruzione.

La previsione delle eruzioni

Occorre subito dire che non è possibile prevedere sul lungo termine quando ci sarà un’eruzione del Vesuvio. A detta degli esperti, auspicabilmente i segnali geofisici e geochimici che si manifesteranno e anticiperanno l’approssimarsi del fenomeno eruttivo, possono essere immediatamente colti, grazie a una sorveglianza vulcanica diuturna, e potrebbero consentire di formulare, in una chiave probabilistica che andrebbe a perfezionarsi con il passare delle ore, una previsione corta o cortissima del fenomeno, cioè sul breve e brevissimo tempo. Nella fattispecie del discorso, possiamo parlare di ore, giorni e forse settimane.

Il tempo intercorrente tra l’insorgere degli indicatori di variazione dello stato di quiete del vulcano e la ripresa eruttiva, rimane quindi una incognita di fondamentale importanza per la componente tecnico politica deputata alla diramazione dell’allarme, e quindi alla salvaguardia delle popolazioni.

È opportuno precisare che la previsione anche corta come innanzi dicevamo, avrà sempre un taglio probabilistico e mai deterministico, perché la certezza dell’eruzione ci sarà data solo dall’effettiva e tangibile ripresa del fenomeno in tutta la sua virulenza energetica.

In altre parole, il rischio del mancato allarme o del falso allarme sono fattori che non è possibile azzerare in quello che è un ambito disciplinare scientifico (geologia) zeppo di incognite derivanti da un ambiente senza un orizzonte di visibilità, purtuttavia dinamico e in ogni caso inesplorabile direttamente dall’uomo. Le perforazioni hanno raggiunto con grande difficoltà i dieci chilometri di profondità che sono ben poca cosa rispetto a un raggio medio terrestre di 6370 km.

Prima di lanciare l’allarme eruzione quindi, anche alla luce della grande quantità di persone da mobilitare, bisognerà attendere qualcosa di più concreto delle prime avvisaglie di irrequietezza vulcanica, perché talune variazioni potrebbero essere sintomi di ripristino degli equilibri interni dell’apparato vulcanico, magari dettati da semplici sommovimenti o modeste intrusioni magmatiche in profondità.

D’altra parte le filosofie della sicurezza inducono ovviamente a ritenere maggiormente accettabile un falso allarme, anche se il medesimo non è scevro da rischi, perché metterebbe in moto un gran numero di cittadini, in un contesto ambientale fatto di assetti stradali modesti e non congeniali alla movimentazione rapida della popolazione vesuviana. Da questo punto di vista la fascia litoranea che è anche quella ad alta densità abitativa, presenta le maggiori criticità perché la popolazione è stretta tra mare e monte.

Va ricordato inoltre, che la diramazione dell’allarme eruzione non è a cura dell’autorità scientifica ma di quella politica ai massimi livelli (Presidenza del Consiglio).

La zona rossa sancita da un apposito decreto, è rappresentata dall’insieme delle zone R1 e R2 (vedi immagine sottostante): trattasi dell’area di totale evacuazione della popolazione, ma anche dei soccorritori in caso di allarme vulcanico. La differenza sostanziale tra le due zone non sono le modalità di allontanamento preventivo, ma la disomogeneità delle attività di prevenzione delle catastrofi...



 Le strumentazioni di monitoraggio vulcanico

Le strumentazioni ipertecnologiche e super sofisticate di monitoraggio del Vesuvio, gestite dall’Osservatorio Vesuviano (INGV), aiutano nella decifrazione dello stato del vulcano, ma non sono la soluzione dell’incognita previsionale. La tecnologia da terrestre a satellitare, serve ad anticipare la cattura dei sintomi di irrequietezza vulcanica, ma nessun strumento è in grado di dire a che cosa porteranno quelle variazione dei parametri vulcanici così precocemente captati dagli strumenti.

Una strumentazione di alto o altissimo livello infatti, può solo anticipare lo stato di attenzione vulcanica, ma non aiuta ad anticipare la valutazione sulla dichiarazione dello stato di allarme, che sarà un’azione decisionale complessa ma necessariamente tutta umana, presumibilmente frutto di pareri interdisciplinari e di analisi del rischio nella sua complessità.
 
Campi Flegrei - Solfatara - Strumentazioni di monitoraggio


A corredo del discorso, occorre segnalare pure un’ulteriore incognita di non poco conto che ha sparigliato i teoremi della prevenzione delle catastrofi collegate al Vesuvio. Nonostante riteniamo che sia auspicabilmente abbordabile la previsione corta del fenomeno eruttivo, in realtà nessuno è in grado di stabilire dai sintomi captati o anche percepiti direttamente dall’uomo, quale sarà la taglia eruttiva (VEI) dell’eruzione che verrà! Cioè quante energie diromperanno dal sottosuolo vesuviano... Nel caso del Vesuvio, che nella sua storia eruttiva annovera range di manifestazioni energetiche molto diverse fra loro (VEI3, VEI4 e VEI5), definire la portata dell’eruzione prima dell’eruzione è puro azzardo, soprattutto se teniamo presente che la differenza tra i vari indici di esplosività vulcanica è a progressione logaritmica.

La pianificazione d’emergenza ruota prima ancora che sull’eruzione di riferimento sulla poco citata previsione ad excludendum dell’eruzione massima conosciuta, che è una VEI5 (pliniana). Una teoria, quella dell’esclusione, non supportata da premesse deterministiche ma solo probabilistiche su un’analisi molto ridotta di dati disponibili.





sabato 20 ottobre 2018

Rischio Vesuvio: l'eruzione del 1631 terrorizzò Napoli... di MalKo

Eruzione Vesuvio 1631 


L'eruzione che accese il Vesuvio il 16 dicembre del 1631, fu un evento vulcanico sub pliniano. Un fenomeno eruttivo che è stato contemplato come evento massimo di riferimento* che potrebbe presentarsi nel breve medio termine qualora il Vesuvio ponesse fine alla sua gradita quiescenza.  

Certamente quella del 1631 è stata un’eruzione molto distruttiva per la plaga vesuviana. Una catastrofe, che se dovesse piombarci addosso, in quello che è oggi un settore territoriale fortemente antropizzato, le conseguenze sarebbero pesantissime, con effetti dieci volte superiori a quelli riscontrati 387 anni fa…

Le avvisaglie che qualcosa si stava modificando nel ventre del monte si ebbero il 10 dicembre del 1631… Carpendo e assemblando un po' di notizie dagli archivi storici e dalle varie pubblicazioni esistenti su questo evento di spicco, si percepisce il polso della situazione che pervase le popolazioni vesuviane ma anche i napoletani in quei frangenti di assoluto pericolo.

Si legge che la notte del 15 dicembre del 1631, s'udirono nelle vicinanze del Vesuvio più di 30 scoppi simili a quelli procurati dai moschettoni, e ognuno di questi s’accompagnava a terremoti brevi e leggeri.

La mattina di martedì 16 dicembre 1631, l'Arcivescovo di Napoli Francesco Buoncompagno che soggiornava per convalescenza in una villa a Torre del Greco, dopo aver poco dormito per i sussulti litosferici della notte, si ritrovò col fuoco alla radice del monte, praticamente di fronte casa, e decise quindi di lasciare Torre per rientrare frettolosamente a Napoli, anche perché i terremoti incominciavano a incalzare paurosamente. Ad ogni scossa usciva precipitosamente all’aperto, per poi rientrare al cessare dei tremori perché fuori faceva freddo...

L’alto prelato decise di andarsene, ma non per la porta principale che dava proprio su quel temuto fuoco vulcanico che scivolava nella sua direzione, ma dal lato opposto.  Con l'aiuto del seguito che lo assisteva, si fece calare da un muro dalla parte del mare, dove stanziava una feluca con un equipaggio, che né per soldi, né per devozione, volle attraccare per consentirgli l’imbarco. L’Arcivescovo impaurito incominciò a camminare lungo la spiaggia per allontanarsi il più possibile dal fuoco vulcanico, finché non incontrò una barca di pescatori che acconsentì di condurlo a Napoli a forza di remi.

Nella città partenopea, intanto, la fibrillazione del popolo era alle stelle, perché come dicono le cronache del tempo, l’eruzione del Vesuvio fu spaventosa e immediatamente interpretata come un’apocalisse in itinere in danno dei peccatori continuamente minacciati dai terremoti… Tale eruzione tra l’altro, proprio perché fu intesa come un castigo divino, fece riscontrare un gran numero di conversioni religiose soprattutto da parte delle meretrici.

Nella prima mattina del 16 dicembre gli scuotimenti tellurici furono più intensi, e l’aria ancora nitida consentì di vedere sopra il Vesuvio in un crescendo strepitoso, un fumo denso che assumeva la forma di un pino.  Si sentì per due volte un terribile rimbombo seguito da un incremento della nuvola vulcanica lì in cima, con dentro, dicono, globi rumorosi di fuoco cocenti che segnavano la grande furia della montagna.
Occorre aggiungere che il 16 dicembre le ceneri raggiunsero anche la città di Benevento, dove il popolo spaventato passò poi la notte nell'Arcivescovato in preghiera…

Nel vesuviano i morti si contarono a migliaia ad opera delle colate piroclastiche:<<S'hebbe novella che il fiume che serpeva per terra haveva bruciati e huomini, e armenti, e poderi, e case>>.

G. Passeri - Vesuvio: l'eruzione del 1631

Per più giorni la cenere espulsa dal Vesuvio appestò l'aria ed oscurò la luce del giorno, tanto da far scrivere allo scrittore Eliseo Danza <<che uno non vedeva l'altro>>…

Nella città di Napoli lo sgomento fu enorme, dando così spazio a una frenesia religiosa senza precedenti. La gente sciamava per le strade gridando e piangendo accalcandosi nelle piazze, incurante del freddo proprio della stagione e della notte e neanche di un vento di tramontana che soffiava gelido. Ma il popolo non voleva stare nelle case per paura delle continue scosse di terremoto. Così anche quella notte, come per la precedente, per le vie ci furono processioni di uomini e di donne che con calde lacrime tentavano di smorzare quell'ira divina manifestatasi attraverso l’eruzione del Vesuvio. Per tale motivo, quella notte fu di veglia per tutta la città, come il passato giorno… anche se fu un giorno che diventò presto notte per la caligine che calò implacabile.

Il mercoledì mattina si vide verso il vulcano l'aria oscurata e il fuoco più dilatato: crebbe l'orrore, perché quando sorse il Sole sopra l'orizzonte non si vedeva il suo lume, essendo quella gran nuvola immanente e cresciuta di molto, occupare tutto il cielo ed era talmente densa da risultare impenetrabile ai raggi solari.

Piovve cenere su Napoli: erano coperte finestre e balconi, ma anche strade e piazze. Gli strati di cenere ricordavano col loro colorito biancastro la neve, ed emanavano un cattivo odore, e il vento sollevando il materiale cinereo creava un’aria pestilenziale poco adatta alla respirazione. La caligine sprigionava fetori di Zolfo…

Nel pomeriggio incominciò a piovere, e la pioggia, sebbene avesse in buona parte diradato l'oscurità abbattendo la cenere in sospensione nell’aria, produsse colate torrentizie, infangando le strade al punto da renderle impraticabili… Si accrebbe così la paura ma anche i disagi per la gente che non poteva né ripararsi e né prepararsi spiritualmente alla vicina sciagura. L'acqua piovana accelerò la discesa della lava verso il mare: quest’ultimo si ritirò allargando il lido, in modo che le navi quasi restassero in secca. Intanto sull'arena si potevano osservare pesci morti. Nel racconto del Danza si legge: <<fu sì impetuoso un torrente d'acqua, che quel monte buttò a guisa di bitume, e pece, che dopo d'havere disradicati arbori, che il suo corso impedivano, diede nel mare, che si vidde in certa parte essiccato, tanti pesci morti, simbolo del castigo d'Iddio>>.

Quel pomeriggio la terra verso le 16 fu scossa da un violento terremoto così gagliardo e lungo, riferiscono le cronache, che si temeva di soccombere, ma non parve al principio tanto crudele, quanto fu poi benigno in darci qualche tregua>>. Altre scosse telluriche seguitarono per tutta la notte con frequenza tale da sembrare continue e con tale violenza che, temendo la rovina delle case, gran parte delle persone preferirono permanere all'aperto o, nel caso dei nobili, nelle proprie carrozze.

San Gennaro
Sempre mercoledì, l'Arcivescovo decise, nonostante la salute ancora cagionevole e la pioggia battente, visto il contesto di estremo pericolo fisico e spirituale, d'anteporre il pubblico beneficio alla propria salute. Indisposto come stava, s'alzò dal letto e diede ordine alla Città di fare una processione per condurre parimenti la testa e il sangue di S. Gennaro alla chiesa dell'Annunziata. Così fu fatto, e al tramonto, nonostante la pioggia fosse ancora intensa, la processione si snodò regolarmente…

Il padre Ascanio Capece, nella sua lettera scritta il 20 dicembre di quell'anno al fratello Antonio, narra: <<per le strade non si vedono altro che processioni di fedeli che si battono a sangue, ma anche religiosi scalzi con vari strumenti di penitenza, così come molte erano le donne scapigliate. La processione fu un insieme di sospiri e invocazioni e flagelli, pianti a dirotto e in molti gridavano a Dio misericordia e perdono.

Analoghe descrizioni sono fatte sempre dal Danza: molti buoni servi di Dio per le strade, chi con catene al collo, altri con funi, molti con crocifissi nelle mani, altri con pietre pubblicamente ad alta voce infervorati, andavano confortando tutti a chiedere misericordia, e al prepararsi alla morte. Più avanti si vedevano donzelle verginelle molta delle quali scalze, mani giunte, crini distesi e disciolti, che ad alta voce gridavano piangenti e acclamanti: Misericordia Signore! È certo che vi era qualche ragione di sperar bene dalla divina Misericordia; poiché s'è fatta tale commozione da tutta la città, che non so se si sia mai più vista o udita una cosa simile. Per le strade altro non si vedeva, così di giorno come di notte, processioni di Religiosi e di Secolari e delle confraternite tutte scalze, che o si battevano a sangue, o portavano alcune insegne funeste di dolore e pentimento.

Riguardo alle manifestazioni rituali di quei giorni, Giovan Battista Manso scrisse:<< in tutte le chiese è il Santissimo Sacramento esposto, le confessioni e le comunioni son state fatte a tutti finanche alle donne, pubbliche peccatrici. Per tutte le strade sono continue processioni e il Cardinale e il Vice Re uniti ne fecero ieri, giovedì, un'altra anche solennissima con la medesima testa e sangue di San Gennaro a S. Maria di Costantinopoli; i preti gesuiti condussero al Duomo, nello stesso tempo con una sontuosa processione, la reliquia di S. Ignazio... >>.

Il terzo giorno dell'eruzione, cioè giovedì 18 dicembre 1631, la cenere continuò a tal punto ad oscurare la luce del sole che furono necessari dei lumi come se fosse notte. Nel pomeriggio prima il vento e poi la pioggia rischiararono un poco l'aria. Verso sera, causa ancora la pioggia, dallo stesso monte torrenti impetuosi in poco tempo inondarono d'acqua Marigliano e Pomigliano e altre terre vicine. I danni che il profluvio delle acque provocò a Pomigliano e ai casali vicini sono descritti in un avviso del 20 dicembre del 1631: <<Verso la sera si videro venire da Pomigliano d'Arco e da altri casali situati nel piano delle falde di detta Montagna, distanti dal fuoco più di 4 miglia, gli abitanti particolarmente spaventati perché erano riusciti a fatica a scampare alla morte che stava per sopraffarli a causa del pericolo dettato dall’acqua che, scendendo dalla montagna, aveva portato con se tanta di quella cenere da seppellire letteralmente le case più basse mentre di quelle più alte a malapena si scorgevano i tetti>>.

Durante la notte si sentirono nella città deboli terremoti, mentre la mattina seguente si mitigò la tempesta e si diradò alquanto l'oscurità dei giorni precedenti: allora si poteva vedere il disco del sole e le falde della montagna, che in parte consumata verso la cima presentava un'ampia apertura il cui labbro, perché era tutto coperto di cenere, pareva fosse di marmo, simile a quello delle fonti, e da mezzo il monte in luogo di zampilli d'acqua salivano fumi neri di caliginose ceneri. Il sabato e i successivi giorni si videro esalare vapori dal cratere del Vesuvio con molto meno impeto e in minor quantità rispetto ai giorni precedenti, tuttavia il cielo fu sereno solo fino al pomeriggio, durante il quale tornò a turbarsi provocando, come aveva fatto il mercoledì e i giorni seguenti, una fittissima pioggia; ma nel frattempo le scosse di terremoto cominciarono ad attenuarsi fino ad esaurirsi del tutto.

La distruzione dei paesi intorno al Vesuvio provocò un grande esodo verso Napoli: il Danza scrive:<< che le genti degli bruciati paesi fuggite in Napoli, e in necessità ridotte, s'esponevano al pubblico mendicare per aver perduto in sì poche ore quanto nel corso de' tanti, e tanti loro Antenati, avevano acquistato […]>>.

Nel territorio del Regno si cercò di dare almeno la prima assistenza a quelle persone, offrendo loro un luogo in cui ricoverarsi e ristorarsi o inviando provviste nei paesi che ne necessitavano. Per dimora si assegnò ai forestieri, che erano scampati alla furia del vulcano ricoverandosi nella città, le case di S. Gennaro provviste di tutto il necessario.  Furono mandati soldi ai rifugiati che si accamparono a S. Maria dell'Arco, ma quest’ultimi rifiutarono l’offerta perché lì non c’erano viveri da comprare: il Vice Re allora fece acquistare una gran quantità di provviste e li mandò << subito con ogni caritatevole diligenza>>.

Nei giorni successivi al giovedì, diminuito il pericolo, ci s'impegnò a portare in salvo le popolazioni di quei paesi che l'eruzione, provocando enormi danni, aveva isolato da Napoli. Pertanto furono inviate galere e altri vascelli a Torre e altri luoghi convicini per salvar quella gente che non poteva fuggir per terra per scampare dalle fiamme.  Inoltre, le navi servirono anche a:<<mettere buone guardie per difesa delle robe, acciò non fossero rubate, havendo ogn'uno lasciato quanto haveva>>. Furono, anche, mandate molte compagnie addette alla sepoltura dei cadaveri e alla manutenzione delle strade, sia per scongiurare il pericolo di epidemie sia per evitare l’isolamento reciproco di Napoli e le altre città del circondario.

Nella Relatione si racconta:<< venerdì il Vice Re mandò lì 500 guastatori per far seppellire i morti di quei villaggi che sono in gran numero o di fuoco, o di terremoto, o dalla cenere affogati, che poi sono stati trovati tra le medesime ceneri sepolti, de' quali alcuni erano così sfatti che con ogni facilità se ne scendevano a pezzi le membra>>…

Dal poema << Il Vesuvio fiammeggiante>> si ha idea di un allontanamento dallo sterminator Vesevo di fuggitivi segnati e sconsolati che lasciarono le loro case senza nulla da mangiare e con l’anima in pena per aver perduto ad opera delle fiamme vulcaniche, chi il figlio, la moglie e chi la casa che era l’unico bene… Chi si rifugiò ad Aversa, chi a Salerno, ed altri ancora a Castellammare, chi nella nobile Gaeta o a Pozzuoli; altri nuclei di fuggitivi vanno a Sessa, altri ancora a Sorrento, a  Teano, a Caserta, a Benevento. Capua, recitano le cronache, fu la Città maggiormente impietosita dalla catastrofe che aveva colpito quegli sventurati...tra questi una compagnia di soldati spagnoli scalzi e sporchi come se fossero sopravvissuti all'inferno.

Da un documento antico ritrovato e tradotto dal dott. Giovanni Ricciardi dell’Osservatorio Vesuviano si legge: << Di tutti gli incendi del monte Vesuvio che tante volta ha reso la Campania disgraziata, nessuno è stato più funesto di quello del 16 dicembre 1631, compresa quella che ebbe luogo sotto Tito Vespasiano e di cui Plinio il giovane e Dione Cassio fanno una scrupolosa descrizione. Si ebbero allora, difatti due città, Ercolano e Pompei, distrutte per il fuoco; questa volta non sono solamente Torre del Greco e Torre dell'Annunziata, le due città che sorsero dalle ceneri di Ercolano e di Pompei, ma tutti i borghi e villaggi giacenti intorno al Vesuvio che vediamo incendiati e distrutti, quali i villaggi di Trocchia, di Massa, di Pollena, di S. Sebastiano, di S. Anastasio, di Palma, di Bosco, di Resina, di Cremano, questo bruciato per la seconda volta, dei borghi di Somma, di Ottaiano, di Lauro. In quanto al borgo di Marigliano, al villaggio di Saviano e all'antica città di Nola, inondati dalle acque sgorgate di recente dalla montagna, non hanno sofferto molto meno degli altri>>...


° l'evento massimo di riferimento è la taglia eruttiva adottata per poter mettere a punto la pianificazione d'emergenza nell'area vesuviana.



sabato 28 luglio 2018

Rischio Vesuvio? Un esercizio di retorica... di MalKo


Golfo di Napoli all'alba

Qualche mese fa gli eurodeputati del M5S Piernicola Pedicini e Dario Tamburrano hanno presentato un’interrogazione alla Commissione europea per sapere se, una ripresa eruttiva del Vesuvio o dei Campi Flegrei, comporterebbe una partecipazione dell’organismo comunitario di protezione civile alle operazioni di soccorso.

In particolare, si legge dai giornali, gli eurodeputati hanno chiesto all’organismo Ue, se il meccanismo unionale di protezione civile prevede un impegno collettivo di tutti gli Stati membri per sopperire ad eventuali carenze operative, qualora si rendesse necessario fronteggiare un’eruzione del Vesuvio.

La risposta è stata che, in caso di eruzione del Vesuvio, le autorità italiane possono chiedere assistenza al Centro di coordinamento di protezione civile della Ue (ERCC). Purtuttavia, chiarisce la commissione europea, pur avendo condiviso un certo livello d’informazione sul rischio vulcanico, non ci sono piani d’intervento specifici condivisi, perché questi rientrano tra le responsabilità e gli obblighi a livello nazionale.

Infatti, al capo I comma 3 del disposto europeo n.1313/2013 inerente appunto gli obiettivi generali di una protezione civile europea, si precisa che: il meccanismo unionale promuove la solidarietà tra gli Stati membri attraverso la cooperazione e il coordinamento delle attività, fatta salva la responsabilità primaria degli Stati membri di proteggere dalle catastrofi le persone, l'ambiente e i beni, compreso il patrimonio culturale, sul loro territorio e di dotare i rispettivi sistemi di gestione delle catastrofi di mezzi sufficienti per affrontare in modo adeguato e coerente catastrofi di natura e dimensioni ragionevolmente prevedibili e per le quali possono essere preparati.

In altre parole, e l’esempio dei drammatici incendi boschivi che si sono sviluppati in Grecia alcuni giorni fa, ci suggeriscono la risposta, che è quella che si può chiedere l’aiuto europeo quando l’evento catastrofico si è materializzato e le forze e i mezzi messi in campo dallo stato sovrano non sono sufficienti per fronteggiare il disastro. Non è che con la stagione secca si può chiedere l’aiuto europeo a scopo precauzionale…

Pedicini e Tamburrano  molto pragmaticamente e prima di chiamare in causa Bruxelles, avrebbero dovuto e potuto indagare sullo stato dell’arte innanzitutto in Italia, ponendo le giuste domande al capo dipartimento della protezione civile Angelo Borrelli e anche al presidente della Regione Campania De Luca, magari chiamando in causa pure il sindaco De Magistris, che ha l’esclusiva di amministrare una metropoli infra vulcani, con importanti e popolosi quartieri ubicati a destra e a manca in zone rosse invadibili dai micidiali flussi piroclastici.

A favore della cronaca, possiamo ribadire che il piano di emergenza Vesuvio con tutte le sue criticità strategiche dettate da un totale ottimismo procedurale, è stato in linea di massima completato. Sono così noti gli scenari eruttivi, i livelli di allerta, le fasi operative e la catena di comando da mettere in piedi all’occorrenza.
Il piano di evacuazione invece, langue nella sua incompletezza, perché ci sono ancora dei grossi nodi da sciogliere sulle scelte operative che prevedono l’allontanamento della popolazione secondo congetture e modalità che riconducono maggiormente ai piani di mobilità che caratterizzano di solito i grandi eventi sportivi o canori o religiosi o fieristici.

zona rossa Vesuvio (zona da evacuare in caso di allarme vulcanico)

Uno dei Comuni più attivi e che da tempo tenta di darsi una organizzazione locale di protezione civile idonea per mettere in sicurezza i cittadini dal rischio Vesuvio, era ed è il Comune di Portici. Ebbene, questa città nel 2001 diede vita a un’esercitazione (Vesuvio 2001,) ampia e complessa ma completamente obliata dai media. Fu testato il piano evacuativo con tutti i mezzi di trasporto utilizzabili grazie alle infrastrutture presenti in loco: autovetture, treni e navi. L’allontanamento del campione di popolazione avvenne in direzione dell’Emilia Romagna, precisamente nella località di Bellaria Igea Marina. L’esercitazione durò 3 giorni e per la prima volta su input comunale si testò pure la funzione ad oggetto la salvaguardia dei beni culturali e l’impiego del naviglio veloce con il rapido approdo e partenza di un catamarano dal porto del Granatello…

Oggi Portici si ritrova stravolta nel suo primitivo impianto evacuativo, con la metà della popolazione che dovrebbe andare via con autobus che dovrebbero infilarsi nei budelli cittadini per imbarcare gente dalle aree di attesa comunale, per poi procedere in direzione del porto di Napoli. Qui imbarcarsi su navi in direzione Genova, sbarcare e risalire sui Bus onde procedere per la regione Piemonte. Una regione diversa dall’iniziale gemellaggio (Emilia Romagna) e che fino ad oggi non ha lasciato registrare neanche una telefonata interlocutoria con l'amministrazione porticese. Portici quindi, ha ancora tutto da discutere…

Il pericolo vulcanico, diciamola tutta, non interessa moltissimo coloro che abitano lontano dagli apparati a rischio. È un problema in definitiva tutto napoletano…  Un po' come quando in una trasmissione televisiva di taglio medico si parla di una determinata malattia: chi non ce l’ha cambia canale e chi ce l’ha zittisce i presenti per ascoltare meglio.  D’altra parte, pure i mandati della politica durano un tempo giudicabile statisticamente in linea con la percezione di una perdurevole pace vulcanica, e quindi generalmente gli amministratori danno spazio ad altre priorità meno drammatiche e antitetiche con il rischio vulcanico, e più fruttifere in termini di consenso elettorale.

Ad assumere una posizione critica sul rischio vulcanico in Campania, più incisiva di un semplice pourparler estemporaneo, è un onere che hanno assunto una piccola manciata di esperti… Una società saggia utilizzerebbe la quiete vulcanica per pianificare tutti quegli interventi necessari per agire di prevenzione, perché nessuna certezza deterministica al momento ci può pervenire dalla previsione dell’evento eruttivo che è ancora una meta scientificamente e significativamente lontana. Così come non è possibile azzardare nessuna previsione sulla intensità eruttiva: un fattore non meno importante della previsione dell’evento. Tant’è che mentre è probabile che un’eruzione possa essere preceduta da prodromi significativi, l’intensità eruttiva invece, non ha fenomeni anticipatori! Non ha segnali premonitori! Non ha avvisaglie! La scala eruttiva, cioè l’indice di esplosività vulcanica (VEI), si potrà determinare solo al termine dell’eruzione. Questo significa che se dovesse risultare erronea la taglia dell’eruzione di riferimento adottata e utilizzata per la stesura dei piani di evacuazione, si verificherebbe pur nel successo evacuativo una immane tragedia vulcanica.
Ovviamente le disquisizioni fin qui fatte valgono per il Vesuvio ma anche per il super vulcano dei Campi Flegrei; quest’ultimo, essendo un distretto calderico molto vasto, racchiude dentro di sé un’ulteriore incognita geologica circa il centro o i centri eruttivi che non è possibile localizzare in anticipo.

L’apice delle spinte sotterranee che caratterizzarono il bradisismo di Pozzuoli del 1983/ 1984 erano tutte concentrate nel sottosuolo marino appena a sud del porto di Pozzuoli, nel tratto di mare prospiciente il Rione Terra. Oggi, alcuni indizi, come i rimescolamenti acquiferi, e i microsismi e le emanazioni gassose e gli aumenti di temperatura, ci riportano a un punto d’irrequietezza localizzato tra la Solfatara, le fumarole di Pisciarelli e ancora nella zona di Monte Nuovo e Bagnoli, con una certa incertezza dettata da un sottosuolo assolutamente enigmatico e schermato da una sorta di lamina orizzontale.
D’altra parte e lo vogliamo ricordare, la zona rossa flegrea non identifica solo il luogo dove potrebbe aprirsi una bocca eruttiva, bensì l’area che potrebbe essere invasa dalle colate piroclastiche. Trovarsi sulla bocca del fucile o lungo la traiettoria del proiettile, in definitiva non cambia le dinamiche della sicurezza, se non per i tempi e le distanze che bisognerà percorrere all'occorrenza per mettersi al sicuro dalle nubi ardenti.

zona rossa Campi Flegrei (zona da evacuare in caso di allarme vulcanico)

Le amministrazioni comunali hanno riversato totalmente sulla previsione dell’evento eruttivo la salvaguardia dei cittadini esposti all’imprevedibile fenomeno vulcanico. Una convinzione un po' navigata e da pesce in barile maturata negli anni grazie alle autorità scientifiche che per troppo tempo hanno diffuso la convinzione che le strumentazioni ultra tecnologiche e ultra sensibili, alcuni mesi prima di un possibile evento eruttivo, avrebbero consentito di percepire i mutamenti delle dinamiche all’interno del sottosuolo profondo vulcanico, dando così la possibilità di diramare un allarme in un tempo largamente utile. Con questa premessa non c’è bisogno di un piano di evacuazione ma di una semplice pianificazione di allontanamento organizzato.
Le autorità di protezione civile però, capito l'andazzo delle responsabilità, da poco precisano che i livelli di allerta vulcanica sono imponderabili e possono essere anche repentini nelle loro variazioni, e che il livello verde non esclude affatto la probabilità eruttiva. In altre parole nulla è scontato e nulla è garantito.

La ministra Barbara Lezzi ha visitato il sito di Bagnoli constatando che è un luogo dalle grosse potenzialità che va bonificato e recuperato. Speriamo che l'entusiasmo si concentri e si fermi alle strutture balneari da riconsegnare alle popolazioni e non alluda a futuri insediamenti residenziali o di rinascita della spianata nel senso abitativo magari con la formula della riqualificazione urbana. Bagnoli, ricordiamolo, è in piena zona rossa flegrea…

La comunità europea materialmente è impossibilitata a fornire un aiuto in caso di allarme eruttivo, perché il piano di emergenza Vesuvio o Campi Flegrei, prevede solo azioni e soluzioni da mettere in atto prima dell’evento eruttivo e non si sa con quali margini di tempo. L’evacuazione della popolazione dovrà attuarsi necessariamente con largo anticipo sul fenomeno vulcanico: un anticipo che nessun esperto al mondo è capace di quantificare. Sappiamo solo che scendere sotto i tre giorni a disposizione, quale fattore temporale limite indicato dagli esperti regionali e dipartimentali, significa entrare nel campo delle gravi criticità operative. In tutti i casi, le politiche globali di sicurezza sono ancora in alto mare e possiamo affermare che le autorità italiane non hanno profuso tutti gli sforzi necessari per mettere in sicurezza il vesuviano e il flegreo. La mediazione tra progresso, sviluppo e interessi di parte, non riesce a sposarsi e a convivere con le necessità della prevenzione delle catastrofi, che tra l’altro richiede politiche e visioni addirittura secolari…

In Grecia l’incendio boschivo sviluppatosi nell’Attica orientale, è stato paragonato all’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., cioè le fiamme che avanzavano implacabili e la gente che si riversava verso il mare in cerca di salvezza. Secondo gli esperti, il dramma non è da ricercarsi solo nella dimensione dell’incendio, bensì nelle case e casette (molte abusive), improvvidamente addossate le une alle altre in mezzo alle pinete con troppe strade cieche che non portavano da nessuna parte. Lo stato ellenico sottodimensionato nei servizi per la crisi economica, è risultato alla fine impotente per scongiurare la catastrofe...


25 luglio 2018 - Incendio in Grecia (Attica orientale). 
La popolazione si riversa in mare per salvarsi dalle fiamme.

Il giorno 21 settembre 2018 presso il comune di Portici si terrà un convegno dove si parlerà del Vesuvio e delle criticità dei piani di emergenza e di evacuazione: ci sarà in questo contesto e a seguire, anche un confronto scientifico sulla nuova frontiera delle onde radio LF quali precursori di terremoti, con esperti del settore che proporranno una ricerca scientifica ad oggetto il Vesuvio.



venerdì 15 giugno 2018

Rischio vulcanico ai Campi Flegrei: la caldera dei dubbi... di MalKo

Il Macellum - Pozzuoli (Campi Flegrei)

I Campi Flegrei e il Vesuvio rappresentano nel panorama nazionale e probabilmente internazionale, il problema di protezione civile più grande in assoluto. Nel primo caso il motivo è da ricercarsi nella posizione geografica della caldera flegrea, che nel corso dei secoli si è ritrovata ad essere nell’attualità una depressione fertile e in alcuni punti mofetica, appartenente ai territori occidentali dell’area metropolitana di Napoli, con i popolosi quartieri di Bagnoli, Fuorigrotta, Soccavo, Posillipo e Pianura. Lo stesso dicasi per altri comuni contigui come Pozzuoli, Bacoli e Quarto, tutti rientranti nella zona rossa flegrea, che classifica i territori ad alta pericolosità vulcanica.  

La zona rossa dei Campi Flegrei (550.000 abitanti).
Il bradisismo è uno dei fenomeni che segna quest’area, lasciando intuire tutta la vivacità del sottosuolo puteolano, tra l’altro con movimenti zonali di rigonfiamento dei suoli e viceversa. Un fenomeno che sembra accompagnarsi a una genesi riconducibile in ogni caso al calore terrestre.
Alcune teorie ci portano ad inquadrare il bradisismo come fenomeno meccanico dovuto al magma che si è intrufolato nel sottosuolo, fino a 3 – 4 chilometri dalla superficie, o anche al riscaldamento di acque di falda e juvenili pregne di gas magmatici. Un aumento di temperatura dovuto forse a questa intrusiva fonte di calore, che genera vapore surriscaldato capace di imprimere pressioni di prim’ordine agli strati che sono in alto. D’altra parte, entrambe le ipotesi sono conciliabili tra loro, e l’una non esclude l’altra: anzi, l’una esalta l’altra.
Pure le quantità industriali di anidride carbonica che si liberano nell’atmosfera a ridosso della Solfatara di Pozzuoli, sembrano ricondurci a una componente magmatica non meglio localizzata ad alcuni chilometri nel sottosuolo, oppure a una importante fratturazione degli strati rocciosi che facilitano gli interscambi acquiferi e gassosi pure dalle sorgenti magmatiche più profonde.

La figura sottostante ci aiuta a comprendere le due teorie associate al fenomeno del bradisismo. Nel primo caso il magma s’insinua dicevamo in ascesa negli strati rocciosi e tufacei che incontra, deformandoli e riscaldando l’acqua di cui sono pregni apportandone altra juvenile che circola per pressione, temperatura e densità e dislivelli. Nel secondo caso, grazie alla fratturazione degli strati litoidei, le acque circolano nelle profondità flegree surriscaldandosi a una fonte calorica magmatica piuttosto statica. In entrambi i casi quindi, la componente termica magmatica è garantita, a prescindere se sia più o meno superficiale. 

Le teorie comprendono la probabilità che il bradisismo sia dovuto al magma che s'insinua, frattura e rilascia fluidi acquosi e gassosi. La seconda ipotesi prevede una circolazione delle acque all’interno di un quadro fessurativo molto esteso nel sottosuolo, che favorisce l’interscambio di calore, vapore e gas.  
Un’altra teoria interessante che riguarda questo distretto, è quella che ci riporta a uno strato laminare di roccia elastica ubicato a un paio di chilometri nel sottosuolo: una sorta di scudo che parrebbe aver contenuto fino a questo momento le ingenti spinte che derivano da un magma o dai fluidi che spingono dal di sotto, e che vengono indirizzati marginalmente all’ostacolo. Potrebbe essere magma espanso orizzontalmente? Questa lamina elastica si deformerebbe per effetto delle spinte, inducendo il sollevamento dei suoli; d’altra parte questo plafond è anche responsabile di una difficile prospezione del sottosuolo attraverso il metodo sismico indotto da cariche in superficie.
Che ci sia una situazione enigmatica per quanto apprensiva su quello che “bolle” nel sottosuolo flegreo è di tutta evidenza. Tra l’altro, mentre le autorità fino a poco tempo fa ostentavano sicurezza e buon controllo della situazione anche da un punto di vista della previsione eruttiva, oggi lo sono molto meno e si legge a chiari lettere nei comunicati, che i quattro livelli di allerta vulcanica non hanno regole aritmetiche nel loro incedere al rialzo, e si può quindi passare da una fase di attenzione a quella di allarme in tempi veramente minimi. Così come gli organi governativi dipartimentali hanno specificato che il livello di allerta base (verde), non corrisponde a un rischio eruttivo zero.
Il Dr. Luca De Siena

Il Dottor Luca De Siena, Sismologo e Vulcanologo, ricercatore ed esperto di prospezioni sismiche, ha prodotto un importante studio pubblicato su Scientific Report ad oggetto proprio il sottosuolo dei Campi Flegrei, dando spazio all’analisi dei sismogrammi che si ottennero e a cura degli americani, negli anni peggiori del bradisismo (’83 – ’84), caratterizzati da migliaia di eventi sismici e sollevamento accentuato. 

Dottor De Siena, come mai gli americani sulla scena del bradisismo flegreo degli anni ’80?

Gli americani avevano a disposizione la migliore tecnologia per il rilevamento di onde sismiche. Ricordiamoci che la scienza del monitoraggio in molti paesi, compresa l’Italia, nei primi anni ’80 era in una fase nascente. L’iniziativa di creare un progetto di monitoraggio sismico avanzato di complemento e completamento delle stazioni già esistenti, aveva una forte motivazione anche sulla base dell’attività Flegrea degli anni 1982-1984. Il prof. Roberto Scarpa (Università di Salerno), fu uno dei promotori e organizzatori Italiani della rete. Richard Aster è stato invece il referente Americano.

Come ha fatto a procurarsi i sismogrammi relativi alla crisi bradisismica dell’84?

I rilevamenti furono fatti nel primo semestre del 1984. I sismogrammi sono a disposizione di tutti i ricercatori che intendano usarli. Sebbene non depositati in un database, durante il mio dottorato è stato facile reperirli in quanto erano nelle disponibilità dell’Osservatorio Vesuviano. Questi dati americani sono stati cruciali, ancorchè preservati in originale, e fino ad oggi tutte le mappe sismologiche dell’unrest dell’epoca (tomografie), sono state elaborate sulla scorta di queste informazioni.

Ovviamente i sismogrammi inquadrano la situazione di 40 anni fa. Le condizioni rimangono inalterate rispetto agli eventi bradisismici degli anni ’80?

Le condizioni sono certamente diverse rispetto agli eventi bradisismici dei primi anni ’80, almeno da un punto di vista sismologico. Invece di migliaia di scosse con picchi di centinaia in un giorno, e profondi fino a 4.5 km, la sismicità di oggi è superficiale ed a bassa intensità, ed impatta prevalentemente nella zona centrale della caldera (Pozzuoli, Solfatara, Pisciarelli).

La sacca magmatica, ci sembra di capire, potrebbe anche essere un insieme di magma e fluidi e gas: a che profondità è stata localizzata e con quale estensione?

Questo è un argomento dibattutissimo, in quanto anche le migliori tecnologie odierne non sono in grado di darci sicurezza su profondità e presenza di magma. Alcuni studi sostengono che il sollevamento Flegreo non sia dovuto a magma, piuttosto a gas prodotti dalle rocce profonde del sottosuolo. Altri sostengono che il magma sia arrivato al disotto dei 4 km, ed abbia rilasciato fluidi caldi che hanno permeato il sistema superficiale. Altri ancora sostengono la presenza di magma a ~2.5 km di profondità. Inoltre, alcuni studi proverebbero che, sebbene il magma fosse presente nella crisi 1982 - 1984, non sarebbe invece riscontrato nell’ attuale fase bradisismica.
I miei studi hanno sempre evidenziato una presenza magmatica, già supposta in precedenza da altri autori, per il 1984. Quello che in questi lavori sembra emergere con chiarezza, è che qualcosa (una intrusione o iniezione di fluidi) sotto Pozzuoli ha fratturato il sistema vulcanico nei primi 3 km. Questa zona si è aperta nell’84 ed ha progressivamente cambiato (per esempio scaldato) il sistema idrotermale superficiale. Un nostro studio appena pubblicato, dimostra che questa zona è ancora “aperta”, ma per lo più è asismica. Da questa sorta di “bocca”, che potrebbe essere un bacino di fluidi con o senza magma, si assiste alla migrazione dei predetti fluidi e gas verso est, per lo più nella zona di Pisciarelli (Solfatara).

Si riesce a definire il camino di risalita del magma in superficie?

In questo momento non ci sono prove che il magma stia risalendo in superficie. Penso ci sia un accordo vasto sul fatto che in superficie, almeno per ora, arrivino fluidi e gas. Ovviamente la situazione potrebbe cambiare, ma l’attenzione delle autorità nazionali ed internazionali sul problema mi sembra molto cresciuta, magari permettendo una risposta preventiva migliore, qualora eventuali segnali dovessero indicare l’arrivo di magma potenzialmente eruttivo.

Nell’attualità, in che zona flegrea si stanno concentrando i preoccupanti segnali geofisici e geochimici che denotano una condizione di unrest, di irrequietezza vulcanica?

Non sono aggiornato sugli ultimi sviluppi della geochimica ma penso che il sistema Pisciarelli-Solfatara, da questo punto di vista rimanga il più interessante.

Possibili eruzioni freatiche rappresentano il pericolo statisticamente maggiore?

Sebbene non abbia abbastanza dati e sia più che altro un esperto di imaging sismico, una eruzione magmatica ad oggi mi sorprenderebbe molto.  D’altronde storicamente gli episodi di esplosioni freatiche nell’area sono noti per essere di piccola entità e comunque di scarsa frequenza. In ogni caso non possono essere escluse.

Questa sorta di lama o di scudo composto da materiale compatto ma elastico ubicato a meno di 2000 metri sottoterra, cosa comporta nelle dinamiche del sottosuolo flegreo?

Nuovi studi di rock-physics ci dicono che questo scudo (caprock) potrebbe spiegare le importanti deformazioni (1.8 metri) senza eruzione registrate all’inizio degli anni ‘70 e nel 1983-84. È uno scudo duttile, che si deforma ma è difficile da spezzare. Questa interfaccia sismica a quelle profondità lavora anche al contrario, rivelandosi un problema per ottenere immagini adeguate dei Flegrei, in quanto per esempio riflette gran parte dell’energia sismica generata da sorgenti artificiali utilizzate per le prospezioni in profondità.  Sicuramente l’interfaccia è visibile negli studi tomografici.

Nell’analisi dei sismogrammi è stata accertata una camera magmatica a circa 8 chilometri dalla superficie?

Un lavoro fondamentale del RISSC lab, Dipartimento di Fisica, Federico II (Zollo et al. 2008) identifica una interfaccia sismica a quelle profondità con la sismica a riflessione. Il risultato si correla perfettamente con altri studi di modellistica, geochimica e petrologia. Questo è un risultato ottenuto da dati dell’esperimento SERAPIS realizzato a mare (2001). Fare di più a quelle profondità è molto difficile.

In termini di sicurezza, ci sono differenze per i residenti rispetto alla loro posizione all’interno della caldera?

Direi di sì. Gli studi più importati sia di modellistica sia di statistica multivariata indicano nella zona tra Bagnoli e la Solfatara quella con la massima probabilità di apertura bocche. Detto questo, il sottosuolo è complesso; se ad esempio fluidi e/o magma trovassero fratture adeguate, potrebbero spostarsi lateralmente. Questo è successo nel secondo semestre del 1984, con sismicità spostatasi verso Monte Nuovo ed a mare.

Cosa proporrebbe per migliorare la conoscenza del sottosuolo e quindi una migliore valutazione sugli indici di pericolosità vulcanica, tanto dei Campi Flegrei quanto per il Vesuvio e Ischia?

Certamente più fondi alla ricerca ed alle istituzioni che si occupano di monitoraggio. Mentre in Italia l’allerta terremoti è alta a causa degli eventi anche recenti con il loro carico funesto e distruttivo, sono passati 70 anni dall’ultimo fumo uscito dalla bocca del Vesuvio. Non abbiamo neanche sperimentato un’eruzione dei Campi Flegrei; paradossalmente ci si occupa di quello che la cronaca ci rimanda visivamente, e nel caso dei vulcani napoletani, ovviamente, la quiete colpisce meno e non cattura attenzioni particolari. Investire nella ricerca e nel monitoraggio ci consentirebbe di cogliere molte informazioni, anche da un piccolo evento freatico, su quelli che sono i processi profondi a tutto vantaggio della sicurezza areale.

Il Deep Drilling Project Campi Flegrei (Bagnoli), è un progetto perforativo molto discusso che non si sa se avrà una continuazione. La trivella avrebbe dovuto raggiungere i 3800 metri di profondità per indagare la caldera sotto Pozzuoli, lì a mare, per carpire informazioni di taglio scientifico ma anche di potenzialità geotermiche…. Una sua idea nel merito Dottor De Siena?

Il Deep Drilling é un sistema d’indagine diretto, direi un grande successo islandese, che sta portando solo adesso, e dopo un’esperienza durata 10 anni, i suoi frutti migliori in termini di sviluppo tecnologico e ricerca avanzata. Le mie attività lavorative prevedono consulenze per ditte che hanno nei loro obiettivi la ricerca di idrocarburi e fonti geotermiche ad alto rendimento. A tal fine si utilizzano tecnologie raffinatissime e tecniche di rilevamento da decine di milioni di euro. Nonostante le enormi risorse impiegate, piú di una volta su cinque si perfora nel posto sbagliato. Gli stessi islandesi commisero un clamoroso errore di perforazione, con la trivella che doveva spingersi fino a 4 chilometri di profondità per carpire fluidi super critici, e invece a 2 chilometri incappò nel magma perdendo così la turbina da taglio.

Ovviamente, portare il modello islandese a Napoli, nei Campi Flegrei, é stato difficilissimo. Le polemiche sono state inevitabili e collegate ad alcuni concetti così riassumibili: sapete davvero dove perforare? Siete sicuri non ci sia magma nei primi 2 km? Con che tecniche perforate? Le incertezze relative alla prospezione sismica del sottosuolo flegreo, a causa delle sue caratteristiche particolari che non restituiscono profili altamente attendibili utilizzando sismicità artificiale di superficie, è un dato fondamentale che bisognava e bisogna tenere in debito conto. E ancora: innalzare torri di trivellazioni e impiantare un cantiere in un territorio metropolitano densamente abitato, comporta fattori di rischio aggiuntivi rispetto al contesto islandese, e di ciò bisognava tenerne conto. Inoltre, in Italia manca l’esperienza pregressa per un tale tipo di sondaggio, che non è esente da inconvenienti di percorso. Accontentiamoci intanto e allora delle notizie, dei dati che fin qui sono emersi dai carotaggi del pozzo pilota di Bagnoli, con i suoi 500 metri di profondità.

Concludiamo l’Intervista ringraziando il Dott. Luca De Siena, ricercatore e docente dell’Università Aberdeen di Scozia, per gli importanti chiarimenti che ci ha fornito sugli aspetti del sottosuolo flegreo. Contiamo quanto prima di conoscere l’ulteriore lavoro che si appresta a pubblicare.


Nei primi chilometri del sottosuolo flegreo avvengono quindi interscambi non meglio quantificabili e qualificabili: o il magma con qualche intrusione è entrato nelle acque del sottosuolo flegreo, o viceversa le acque di questa plaga circolando hanno trovato il magma. L’elemento conclusivo è che in entrambi i casi abbiamo a che fare con processi che si attagliano a un territorio ad alto rischio vulcanico.  Ci si può solo interrogare se permanere in questo settore a rischio, o viceversa andarsene per non dover affrontare chissà quando un’emergenza vulcanica.  

L’unico strumento che si offre come mediazione tra il permanere e l’andarsene, è un valido piano di evacuazione da mettere in atto all’occorrenza e ben prima dell’eruzione. Come accennava il Dott. De Siena, in Italia i terremoti sono anche mediaticamente l’evento con cui ci si confronta maggiormente. Il terremoto è repentino e comporta due necessità: sotterrare i morti e ricostruire nel segno dell’antisismico. E poi, mentre per la prevenzione del rischio sismico possiamo agire anche in forma singola e diretta, magari decidendo di riqualificare staticamente la struttura dove abitiamo, l’eruzione vulcanica non prevede formule di protezione unifamiliare, se non quella preventiva di cambiare luogo di residenza. Diversamente allora, l’azione delle popolazioni flegree e vesuviane, deve essere necessariamente collettiva, incidendo sulle priorità della politica e pretendendo la predisposizione di ogni misura utile per mitigare il rischio vulcanico, esaltando il ruolo del piano di emergenza e di evacuazione quale annesso essenziale, con tutte le strutture che ne faciliterebbero l’applicazione. In area vulcanica lo sviluppo possibile e sostenibile deve misurarsi alle esigenze evacuative e non viceversa… 

Un particolare ringraziamento al Dott. Luca De Siena, Sismologo e Vulcanologo, ricercatore e docente presso l'Università Aberdeen di Scozia, per l'interessante intervista che ci ha concesso.