Eruzione Vesuvio 1631 |
L'eruzione
che accese il Vesuvio il 16 dicembre
del 1631, fu un evento vulcanico sub pliniano. Un fenomeno eruttivo che è stato
contemplato come evento massimo di riferimento* che potrebbe presentarsi nel breve medio termine qualora il Vesuvio ponesse fine alla sua gradita
quiescenza.
Certamente
quella del 1631 è stata un’eruzione molto distruttiva per la plaga vesuviana. Una
catastrofe, che se dovesse piombarci addosso, in quello che è oggi un settore
territoriale fortemente antropizzato, le conseguenze sarebbero pesantissime, con
effetti dieci volte superiori a quelli riscontrati 387 anni fa…
Le
avvisaglie che qualcosa si stava modificando nel ventre del monte si ebbero il
10 dicembre del 1631… Carpendo e assemblando un po' di notizie dagli archivi
storici e dalle varie pubblicazioni esistenti su questo evento di spicco, si
percepisce il polso della situazione che pervase le popolazioni vesuviane ma
anche i napoletani in quei frangenti di assoluto pericolo.
Si
legge che la notte del 15 dicembre del 1631, s'udirono nelle vicinanze del
Vesuvio più di 30 scoppi simili a quelli procurati dai moschettoni, e ognuno di questi s’accompagnava a terremoti brevi e
leggeri.
La
mattina di martedì 16 dicembre 1631, l'Arcivescovo di Napoli Francesco Buoncompagno
che soggiornava per convalescenza in una villa a Torre del Greco, dopo aver
poco dormito per i sussulti litosferici della notte, si ritrovò col fuoco alla radice del monte,
praticamente di fronte casa, e decise quindi di lasciare Torre per rientrare
frettolosamente a Napoli, anche perché i terremoti incominciavano a incalzare
paurosamente. Ad ogni scossa usciva precipitosamente all’aperto, per poi
rientrare al cessare dei tremori perché fuori faceva freddo...
L’alto
prelato decise di andarsene, ma non per la porta principale che dava proprio su
quel temuto fuoco vulcanico che scivolava nella sua direzione, ma dal lato
opposto. Con l'aiuto del seguito che lo
assisteva, si fece calare da un muro dalla parte del mare, dove stanziava una
feluca con un equipaggio, che né per soldi, né per devozione, volle attraccare
per consentirgli l’imbarco. L’Arcivescovo impaurito incominciò a camminare
lungo la spiaggia per allontanarsi il più possibile dal fuoco vulcanico, finché
non incontrò una barca di pescatori che acconsentì di condurlo a Napoli a forza
di remi.
Nella
città partenopea, intanto, la fibrillazione del popolo era alle stelle, perché
come dicono le cronache del tempo, l’eruzione del Vesuvio fu spaventosa e
immediatamente interpretata come un’apocalisse in itinere in danno dei
peccatori continuamente minacciati dai terremoti… Tale eruzione tra l’altro,
proprio perché fu intesa come un castigo divino, fece riscontrare un gran
numero di conversioni religiose soprattutto da parte delle meretrici.
Nella
prima mattina del 16 dicembre gli scuotimenti tellurici furono più intensi, e
l’aria ancora nitida consentì di vedere sopra il Vesuvio in un crescendo
strepitoso, un fumo denso che assumeva la forma di un pino. Si sentì per due volte un terribile rimbombo
seguito da un incremento della nuvola vulcanica lì in cima, con dentro, dicono,
globi rumorosi di fuoco cocenti che segnavano la grande furia della montagna.
Occorre
aggiungere che il 16 dicembre le ceneri raggiunsero anche la città di
Benevento, dove il popolo spaventato passò poi la notte nell'Arcivescovato in
preghiera…
Nel
vesuviano i morti si contarono a migliaia ad opera delle colate piroclastiche:<<S'hebbe novella che il fiume che serpeva per
terra haveva bruciati e huomini, e armenti, e poderi, e case>>.
G. Passeri - Vesuvio: l'eruzione del 1631 |
Per
più giorni la cenere espulsa dal Vesuvio appestò l'aria ed oscurò la luce del giorno,
tanto da far scrivere allo scrittore Eliseo Danza <<che uno non vedeva
l'altro>>…
Nella
città di Napoli lo sgomento fu enorme, dando così spazio a una frenesia
religiosa senza precedenti. La gente sciamava per le strade gridando e
piangendo accalcandosi nelle piazze, incurante del freddo proprio della
stagione e della notte e neanche di un vento di tramontana che soffiava gelido.
Ma il popolo non voleva stare nelle case per paura delle continue scosse di
terremoto. Così anche quella notte, come per la precedente, per le vie ci
furono processioni di uomini e di donne che con calde lacrime tentavano di
smorzare quell'ira divina manifestatasi attraverso l’eruzione del Vesuvio. Per
tale motivo, quella notte fu di veglia per tutta la città, come il passato
giorno… anche se fu un giorno che diventò presto notte per la caligine che calò
implacabile.
Il
mercoledì mattina si vide verso il vulcano l'aria oscurata e il fuoco più
dilatato: crebbe l'orrore, perché quando sorse il Sole sopra l'orizzonte non si
vedeva il suo lume, essendo quella gran nuvola immanente e cresciuta di molto,
occupare tutto il cielo ed era talmente densa da risultare impenetrabile ai
raggi solari.
Piovve
cenere su Napoli: erano coperte finestre e balconi, ma anche strade e piazze.
Gli strati di cenere ricordavano col loro colorito biancastro la neve, ed
emanavano un cattivo odore, e il vento sollevando il materiale cinereo creava
un’aria pestilenziale poco adatta alla respirazione. La caligine sprigionava fetori
di Zolfo…
Nel
pomeriggio incominciò a piovere, e la pioggia, sebbene avesse in buona parte
diradato l'oscurità abbattendo la cenere in sospensione nell’aria, produsse
colate torrentizie, infangando le strade al punto da renderle impraticabili… Si
accrebbe così la paura ma anche i disagi per la gente che non poteva né
ripararsi e né prepararsi spiritualmente alla vicina sciagura. L'acqua piovana
accelerò la discesa della lava verso il mare: quest’ultimo si ritirò allargando
il lido, in modo che le navi quasi restassero in secca. Intanto sull'arena si
potevano osservare pesci morti. Nel racconto del Danza si legge: <<fu sì impetuoso un torrente d'acqua, che
quel monte buttò a guisa di bitume, e pece, che dopo d'havere disradicati
arbori, che il suo corso impedivano, diede nel mare, che si vidde in certa
parte essiccato, tanti pesci morti, simbolo del castigo d'Iddio>>.
Quel
pomeriggio la terra verso le 16 fu scossa da un violento terremoto così
gagliardo e lungo, riferiscono le cronache, che si temeva di soccombere, ma non
parve al principio tanto crudele, quanto fu poi benigno in darci qualche
tregua>>. Altre scosse telluriche seguitarono per tutta la notte con
frequenza tale da sembrare continue e con tale violenza che, temendo la rovina
delle case, gran parte delle persone preferirono permanere all'aperto o, nel
caso dei nobili, nelle proprie carrozze.
San Gennaro |
Sempre
mercoledì, l'Arcivescovo decise, nonostante la salute ancora cagionevole e la
pioggia battente, visto il contesto di estremo pericolo fisico e spirituale,
d'anteporre il pubblico beneficio alla propria salute. Indisposto come stava,
s'alzò dal letto e diede ordine alla Città di fare una processione per condurre
parimenti la testa e il sangue di S. Gennaro alla chiesa dell'Annunziata. Così
fu fatto, e al tramonto, nonostante la pioggia fosse ancora intensa, la processione
si snodò regolarmente…
Il
padre Ascanio Capece, nella sua lettera scritta il 20 dicembre di quell'anno al
fratello Antonio, narra: <<per le strade non si vedono altro che
processioni di fedeli che si battono a sangue, ma anche religiosi scalzi con vari
strumenti di penitenza, così come molte erano le donne scapigliate. La
processione fu un insieme di sospiri e invocazioni e flagelli, pianti a dirotto
e in molti gridavano a Dio misericordia e perdono.
Analoghe
descrizioni sono fatte sempre dal Danza: molti buoni servi di Dio per le
strade, chi con catene al collo, altri con funi, molti con crocifissi nelle
mani, altri con pietre pubblicamente ad alta voce infervorati, andavano
confortando tutti a chiedere misericordia, e al prepararsi alla morte. Più avanti
si vedevano donzelle verginelle molta delle quali scalze, mani giunte, crini
distesi e disciolti, che ad alta voce gridavano piangenti e acclamanti: Misericordia
Signore! È certo che vi era qualche ragione di sperar bene dalla divina
Misericordia; poiché s'è fatta tale commozione da tutta la città, che non so se
si sia mai più vista o udita una cosa simile. Per le strade altro non si
vedeva, così di giorno come di notte, processioni di Religiosi e di Secolari e
delle confraternite tutte scalze, che o si battevano a sangue, o portavano
alcune insegne funeste di dolore e pentimento.
Riguardo
alle manifestazioni rituali di quei giorni, Giovan Battista Manso scrisse:<<
in tutte le chiese è il Santissimo Sacramento esposto, le confessioni e le
comunioni son state fatte a tutti finanche alle donne, pubbliche peccatrici.
Per tutte le strade sono continue processioni e il Cardinale e il Vice Re uniti
ne fecero ieri, giovedì, un'altra anche solennissima con la medesima testa e
sangue di San Gennaro a S. Maria di Costantinopoli; i preti gesuiti condussero
al Duomo, nello stesso tempo con una sontuosa processione, la reliquia di S.
Ignazio... >>.
Il
terzo giorno dell'eruzione, cioè giovedì 18 dicembre 1631, la cenere continuò a
tal punto ad oscurare la luce del sole che furono necessari dei lumi come se
fosse notte. Nel pomeriggio prima il vento e poi la pioggia rischiararono un
poco l'aria. Verso sera, causa ancora la pioggia, dallo stesso monte torrenti
impetuosi in poco tempo inondarono d'acqua Marigliano e Pomigliano e altre
terre vicine. I danni che il profluvio delle acque provocò a Pomigliano e ai
casali vicini sono descritti in un avviso del 20 dicembre del 1631:
<<Verso la sera si videro venire da Pomigliano d'Arco e da altri casali
situati nel piano delle falde di detta Montagna, distanti dal fuoco più di 4
miglia, gli abitanti particolarmente spaventati perché erano riusciti a fatica
a scampare alla morte che stava per sopraffarli a causa del pericolo dettato
dall’acqua che, scendendo dalla montagna, aveva portato con se tanta di quella
cenere da seppellire letteralmente le case più basse mentre di quelle più alte
a malapena si scorgevano i tetti>>.
Durante
la notte si sentirono nella città deboli terremoti, mentre la mattina seguente
si mitigò la tempesta e si diradò alquanto l'oscurità dei giorni precedenti:
allora si poteva vedere il disco del sole e le falde della montagna, che in
parte consumata verso la cima presentava un'ampia apertura il cui labbro,
perché era tutto coperto di cenere, pareva fosse di marmo, simile a quello delle
fonti, e da mezzo il monte in luogo di zampilli d'acqua salivano fumi neri di
caliginose ceneri. Il sabato e i successivi giorni si videro esalare vapori dal
cratere del Vesuvio con molto meno impeto e in minor quantità rispetto ai
giorni precedenti, tuttavia il cielo fu sereno solo fino al pomeriggio, durante
il quale tornò a turbarsi provocando, come aveva fatto il mercoledì e i giorni
seguenti, una fittissima pioggia; ma nel frattempo le scosse di terremoto
cominciarono ad attenuarsi fino ad esaurirsi del tutto.
La
distruzione dei paesi intorno al Vesuvio provocò un grande esodo verso Napoli:
il Danza scrive:<< che le genti
degli bruciati paesi fuggite in Napoli, e in necessità ridotte, s'esponevano al
pubblico mendicare per aver perduto in sì poche ore quanto nel corso de' tanti,
e tanti loro Antenati, avevano acquistato […]>>.
Nel
territorio del Regno si cercò di dare almeno la prima assistenza a quelle
persone, offrendo loro un luogo in cui ricoverarsi e ristorarsi o inviando
provviste nei paesi che ne necessitavano. Per dimora si assegnò ai forestieri,
che erano scampati alla furia del vulcano ricoverandosi nella città, le case di
S. Gennaro provviste di tutto il necessario.
Furono mandati soldi ai rifugiati che si accamparono a S. Maria
dell'Arco, ma quest’ultimi rifiutarono l’offerta perché lì non c’erano viveri
da comprare: il Vice Re allora fece acquistare una gran quantità di provviste e
li mandò << subito con ogni
caritatevole diligenza>>.
Nei
giorni successivi al giovedì, diminuito il pericolo, ci s'impegnò a portare in
salvo le popolazioni di quei paesi che l'eruzione, provocando enormi danni,
aveva isolato da Napoli. Pertanto furono inviate galere e altri vascelli a
Torre e altri luoghi convicini per salvar quella gente che non poteva fuggir
per terra per scampare dalle fiamme.
Inoltre, le navi servirono anche a:<<mettere buone guardie per difesa delle robe, acciò non fossero rubate,
havendo ogn'uno lasciato quanto haveva>>. Furono, anche, mandate
molte compagnie addette alla sepoltura dei cadaveri e alla manutenzione delle
strade, sia per scongiurare il pericolo di epidemie sia per evitare l’isolamento
reciproco di Napoli e le altre città del circondario.
Nella
Relatione si racconta:<< venerdì
il Vice Re mandò lì 500 guastatori per far seppellire i morti di quei villaggi
che sono in gran numero o di fuoco, o di terremoto, o dalla cenere affogati,
che poi sono stati trovati tra le medesime ceneri sepolti, de' quali alcuni
erano così sfatti che con ogni facilità se ne scendevano a pezzi le
membra>>…
Dal
poema << Il Vesuvio fiammeggiante>> si ha idea di un allontanamento
dallo sterminator Vesevo di fuggitivi segnati e sconsolati che lasciarono le
loro case senza nulla da mangiare e con l’anima in pena per aver perduto ad
opera delle fiamme vulcaniche, chi il figlio, la moglie e chi la casa che era
l’unico bene… Chi si rifugiò ad Aversa, chi a Salerno, ed altri ancora a Castellammare,
chi nella nobile Gaeta o a Pozzuoli; altri nuclei di fuggitivi vanno a Sessa,
altri ancora a Sorrento, a Teano, a
Caserta, a Benevento. Capua, recitano le cronache, fu la Città maggiormente
impietosita dalla catastrofe che aveva colpito quegli sventurati...tra questi una compagnia di soldati spagnoli scalzi e sporchi come se fossero sopravvissuti all'inferno.
Da
un documento antico ritrovato e tradotto dal dott. Giovanni Ricciardi
dell’Osservatorio Vesuviano si legge: << Di tutti gli incendi del monte
Vesuvio che tante volta ha reso la Campania disgraziata, nessuno è stato più
funesto di quello del 16 dicembre 1631, compresa quella che ebbe luogo sotto
Tito Vespasiano e di cui Plinio il giovane e Dione Cassio fanno una scrupolosa
descrizione. Si ebbero allora, difatti due città, Ercolano e Pompei, distrutte
per il fuoco; questa volta non sono solamente Torre del Greco e Torre
dell'Annunziata, le due città che sorsero dalle ceneri di Ercolano e di Pompei,
ma tutti i borghi e villaggi giacenti intorno al Vesuvio che vediamo incendiati
e distrutti, quali i villaggi di Trocchia, di Massa, di Pollena, di S.
Sebastiano, di S. Anastasio, di Palma, di Bosco, di Resina, di Cremano, questo
bruciato per la seconda volta, dei borghi di Somma, di Ottaiano, di Lauro. In
quanto al borgo di Marigliano, al villaggio di Saviano e all'antica città di
Nola, inondati dalle acque sgorgate di recente dalla montagna, non hanno sofferto
molto meno degli altri>>...
° l'evento massimo di riferimento è la taglia eruttiva adottata per poter mettere a punto la pianificazione d'emergenza nell'area vesuviana.
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