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sabato 20 ottobre 2018

Rischio Vesuvio: l'eruzione del 1631 terrorizzò Napoli... di MalKo

Eruzione Vesuvio 1631 


L'eruzione che accese il Vesuvio il 16 dicembre del 1631, fu un evento vulcanico sub pliniano. Un fenomeno eruttivo che è stato contemplato come evento massimo di riferimento* che potrebbe presentarsi nel breve medio termine qualora il Vesuvio ponesse fine alla sua gradita quiescenza.  

Certamente quella del 1631 è stata un’eruzione molto distruttiva per la plaga vesuviana. Una catastrofe, che se dovesse piombarci addosso, in quello che è oggi un settore territoriale fortemente antropizzato, le conseguenze sarebbero pesantissime, con effetti dieci volte superiori a quelli riscontrati 387 anni fa…

Le avvisaglie che qualcosa si stava modificando nel ventre del monte si ebbero il 10 dicembre del 1631… Carpendo e assemblando un po' di notizie dagli archivi storici e dalle varie pubblicazioni esistenti su questo evento di spicco, si percepisce il polso della situazione che pervase le popolazioni vesuviane ma anche i napoletani in quei frangenti di assoluto pericolo.

Si legge che la notte del 15 dicembre del 1631, s'udirono nelle vicinanze del Vesuvio più di 30 scoppi simili a quelli procurati dai moschettoni, e ognuno di questi s’accompagnava a terremoti brevi e leggeri.

La mattina di martedì 16 dicembre 1631, l'Arcivescovo di Napoli Francesco Buoncompagno che soggiornava per convalescenza in una villa a Torre del Greco, dopo aver poco dormito per i sussulti litosferici della notte, si ritrovò col fuoco alla radice del monte, praticamente di fronte casa, e decise quindi di lasciare Torre per rientrare frettolosamente a Napoli, anche perché i terremoti incominciavano a incalzare paurosamente. Ad ogni scossa usciva precipitosamente all’aperto, per poi rientrare al cessare dei tremori perché fuori faceva freddo...

L’alto prelato decise di andarsene, ma non per la porta principale che dava proprio su quel temuto fuoco vulcanico che scivolava nella sua direzione, ma dal lato opposto.  Con l'aiuto del seguito che lo assisteva, si fece calare da un muro dalla parte del mare, dove stanziava una feluca con un equipaggio, che né per soldi, né per devozione, volle attraccare per consentirgli l’imbarco. L’Arcivescovo impaurito incominciò a camminare lungo la spiaggia per allontanarsi il più possibile dal fuoco vulcanico, finché non incontrò una barca di pescatori che acconsentì di condurlo a Napoli a forza di remi.

Nella città partenopea, intanto, la fibrillazione del popolo era alle stelle, perché come dicono le cronache del tempo, l’eruzione del Vesuvio fu spaventosa e immediatamente interpretata come un’apocalisse in itinere in danno dei peccatori continuamente minacciati dai terremoti… Tale eruzione tra l’altro, proprio perché fu intesa come un castigo divino, fece riscontrare un gran numero di conversioni religiose soprattutto da parte delle meretrici.

Nella prima mattina del 16 dicembre gli scuotimenti tellurici furono più intensi, e l’aria ancora nitida consentì di vedere sopra il Vesuvio in un crescendo strepitoso, un fumo denso che assumeva la forma di un pino.  Si sentì per due volte un terribile rimbombo seguito da un incremento della nuvola vulcanica lì in cima, con dentro, dicono, globi rumorosi di fuoco cocenti che segnavano la grande furia della montagna.
Occorre aggiungere che il 16 dicembre le ceneri raggiunsero anche la città di Benevento, dove il popolo spaventato passò poi la notte nell'Arcivescovato in preghiera…

Nel vesuviano i morti si contarono a migliaia ad opera delle colate piroclastiche:<<S'hebbe novella che il fiume che serpeva per terra haveva bruciati e huomini, e armenti, e poderi, e case>>.

G. Passeri - Vesuvio: l'eruzione del 1631

Per più giorni la cenere espulsa dal Vesuvio appestò l'aria ed oscurò la luce del giorno, tanto da far scrivere allo scrittore Eliseo Danza <<che uno non vedeva l'altro>>…

Nella città di Napoli lo sgomento fu enorme, dando così spazio a una frenesia religiosa senza precedenti. La gente sciamava per le strade gridando e piangendo accalcandosi nelle piazze, incurante del freddo proprio della stagione e della notte e neanche di un vento di tramontana che soffiava gelido. Ma il popolo non voleva stare nelle case per paura delle continue scosse di terremoto. Così anche quella notte, come per la precedente, per le vie ci furono processioni di uomini e di donne che con calde lacrime tentavano di smorzare quell'ira divina manifestatasi attraverso l’eruzione del Vesuvio. Per tale motivo, quella notte fu di veglia per tutta la città, come il passato giorno… anche se fu un giorno che diventò presto notte per la caligine che calò implacabile.

Il mercoledì mattina si vide verso il vulcano l'aria oscurata e il fuoco più dilatato: crebbe l'orrore, perché quando sorse il Sole sopra l'orizzonte non si vedeva il suo lume, essendo quella gran nuvola immanente e cresciuta di molto, occupare tutto il cielo ed era talmente densa da risultare impenetrabile ai raggi solari.

Piovve cenere su Napoli: erano coperte finestre e balconi, ma anche strade e piazze. Gli strati di cenere ricordavano col loro colorito biancastro la neve, ed emanavano un cattivo odore, e il vento sollevando il materiale cinereo creava un’aria pestilenziale poco adatta alla respirazione. La caligine sprigionava fetori di Zolfo…

Nel pomeriggio incominciò a piovere, e la pioggia, sebbene avesse in buona parte diradato l'oscurità abbattendo la cenere in sospensione nell’aria, produsse colate torrentizie, infangando le strade al punto da renderle impraticabili… Si accrebbe così la paura ma anche i disagi per la gente che non poteva né ripararsi e né prepararsi spiritualmente alla vicina sciagura. L'acqua piovana accelerò la discesa della lava verso il mare: quest’ultimo si ritirò allargando il lido, in modo che le navi quasi restassero in secca. Intanto sull'arena si potevano osservare pesci morti. Nel racconto del Danza si legge: <<fu sì impetuoso un torrente d'acqua, che quel monte buttò a guisa di bitume, e pece, che dopo d'havere disradicati arbori, che il suo corso impedivano, diede nel mare, che si vidde in certa parte essiccato, tanti pesci morti, simbolo del castigo d'Iddio>>.

Quel pomeriggio la terra verso le 16 fu scossa da un violento terremoto così gagliardo e lungo, riferiscono le cronache, che si temeva di soccombere, ma non parve al principio tanto crudele, quanto fu poi benigno in darci qualche tregua>>. Altre scosse telluriche seguitarono per tutta la notte con frequenza tale da sembrare continue e con tale violenza che, temendo la rovina delle case, gran parte delle persone preferirono permanere all'aperto o, nel caso dei nobili, nelle proprie carrozze.

San Gennaro
Sempre mercoledì, l'Arcivescovo decise, nonostante la salute ancora cagionevole e la pioggia battente, visto il contesto di estremo pericolo fisico e spirituale, d'anteporre il pubblico beneficio alla propria salute. Indisposto come stava, s'alzò dal letto e diede ordine alla Città di fare una processione per condurre parimenti la testa e il sangue di S. Gennaro alla chiesa dell'Annunziata. Così fu fatto, e al tramonto, nonostante la pioggia fosse ancora intensa, la processione si snodò regolarmente…

Il padre Ascanio Capece, nella sua lettera scritta il 20 dicembre di quell'anno al fratello Antonio, narra: <<per le strade non si vedono altro che processioni di fedeli che si battono a sangue, ma anche religiosi scalzi con vari strumenti di penitenza, così come molte erano le donne scapigliate. La processione fu un insieme di sospiri e invocazioni e flagelli, pianti a dirotto e in molti gridavano a Dio misericordia e perdono.

Analoghe descrizioni sono fatte sempre dal Danza: molti buoni servi di Dio per le strade, chi con catene al collo, altri con funi, molti con crocifissi nelle mani, altri con pietre pubblicamente ad alta voce infervorati, andavano confortando tutti a chiedere misericordia, e al prepararsi alla morte. Più avanti si vedevano donzelle verginelle molta delle quali scalze, mani giunte, crini distesi e disciolti, che ad alta voce gridavano piangenti e acclamanti: Misericordia Signore! È certo che vi era qualche ragione di sperar bene dalla divina Misericordia; poiché s'è fatta tale commozione da tutta la città, che non so se si sia mai più vista o udita una cosa simile. Per le strade altro non si vedeva, così di giorno come di notte, processioni di Religiosi e di Secolari e delle confraternite tutte scalze, che o si battevano a sangue, o portavano alcune insegne funeste di dolore e pentimento.

Riguardo alle manifestazioni rituali di quei giorni, Giovan Battista Manso scrisse:<< in tutte le chiese è il Santissimo Sacramento esposto, le confessioni e le comunioni son state fatte a tutti finanche alle donne, pubbliche peccatrici. Per tutte le strade sono continue processioni e il Cardinale e il Vice Re uniti ne fecero ieri, giovedì, un'altra anche solennissima con la medesima testa e sangue di San Gennaro a S. Maria di Costantinopoli; i preti gesuiti condussero al Duomo, nello stesso tempo con una sontuosa processione, la reliquia di S. Ignazio... >>.

Il terzo giorno dell'eruzione, cioè giovedì 18 dicembre 1631, la cenere continuò a tal punto ad oscurare la luce del sole che furono necessari dei lumi come se fosse notte. Nel pomeriggio prima il vento e poi la pioggia rischiararono un poco l'aria. Verso sera, causa ancora la pioggia, dallo stesso monte torrenti impetuosi in poco tempo inondarono d'acqua Marigliano e Pomigliano e altre terre vicine. I danni che il profluvio delle acque provocò a Pomigliano e ai casali vicini sono descritti in un avviso del 20 dicembre del 1631: <<Verso la sera si videro venire da Pomigliano d'Arco e da altri casali situati nel piano delle falde di detta Montagna, distanti dal fuoco più di 4 miglia, gli abitanti particolarmente spaventati perché erano riusciti a fatica a scampare alla morte che stava per sopraffarli a causa del pericolo dettato dall’acqua che, scendendo dalla montagna, aveva portato con se tanta di quella cenere da seppellire letteralmente le case più basse mentre di quelle più alte a malapena si scorgevano i tetti>>.

Durante la notte si sentirono nella città deboli terremoti, mentre la mattina seguente si mitigò la tempesta e si diradò alquanto l'oscurità dei giorni precedenti: allora si poteva vedere il disco del sole e le falde della montagna, che in parte consumata verso la cima presentava un'ampia apertura il cui labbro, perché era tutto coperto di cenere, pareva fosse di marmo, simile a quello delle fonti, e da mezzo il monte in luogo di zampilli d'acqua salivano fumi neri di caliginose ceneri. Il sabato e i successivi giorni si videro esalare vapori dal cratere del Vesuvio con molto meno impeto e in minor quantità rispetto ai giorni precedenti, tuttavia il cielo fu sereno solo fino al pomeriggio, durante il quale tornò a turbarsi provocando, come aveva fatto il mercoledì e i giorni seguenti, una fittissima pioggia; ma nel frattempo le scosse di terremoto cominciarono ad attenuarsi fino ad esaurirsi del tutto.

La distruzione dei paesi intorno al Vesuvio provocò un grande esodo verso Napoli: il Danza scrive:<< che le genti degli bruciati paesi fuggite in Napoli, e in necessità ridotte, s'esponevano al pubblico mendicare per aver perduto in sì poche ore quanto nel corso de' tanti, e tanti loro Antenati, avevano acquistato […]>>.

Nel territorio del Regno si cercò di dare almeno la prima assistenza a quelle persone, offrendo loro un luogo in cui ricoverarsi e ristorarsi o inviando provviste nei paesi che ne necessitavano. Per dimora si assegnò ai forestieri, che erano scampati alla furia del vulcano ricoverandosi nella città, le case di S. Gennaro provviste di tutto il necessario.  Furono mandati soldi ai rifugiati che si accamparono a S. Maria dell'Arco, ma quest’ultimi rifiutarono l’offerta perché lì non c’erano viveri da comprare: il Vice Re allora fece acquistare una gran quantità di provviste e li mandò << subito con ogni caritatevole diligenza>>.

Nei giorni successivi al giovedì, diminuito il pericolo, ci s'impegnò a portare in salvo le popolazioni di quei paesi che l'eruzione, provocando enormi danni, aveva isolato da Napoli. Pertanto furono inviate galere e altri vascelli a Torre e altri luoghi convicini per salvar quella gente che non poteva fuggir per terra per scampare dalle fiamme.  Inoltre, le navi servirono anche a:<<mettere buone guardie per difesa delle robe, acciò non fossero rubate, havendo ogn'uno lasciato quanto haveva>>. Furono, anche, mandate molte compagnie addette alla sepoltura dei cadaveri e alla manutenzione delle strade, sia per scongiurare il pericolo di epidemie sia per evitare l’isolamento reciproco di Napoli e le altre città del circondario.

Nella Relatione si racconta:<< venerdì il Vice Re mandò lì 500 guastatori per far seppellire i morti di quei villaggi che sono in gran numero o di fuoco, o di terremoto, o dalla cenere affogati, che poi sono stati trovati tra le medesime ceneri sepolti, de' quali alcuni erano così sfatti che con ogni facilità se ne scendevano a pezzi le membra>>…

Dal poema << Il Vesuvio fiammeggiante>> si ha idea di un allontanamento dallo sterminator Vesevo di fuggitivi segnati e sconsolati che lasciarono le loro case senza nulla da mangiare e con l’anima in pena per aver perduto ad opera delle fiamme vulcaniche, chi il figlio, la moglie e chi la casa che era l’unico bene… Chi si rifugiò ad Aversa, chi a Salerno, ed altri ancora a Castellammare, chi nella nobile Gaeta o a Pozzuoli; altri nuclei di fuggitivi vanno a Sessa, altri ancora a Sorrento, a  Teano, a Caserta, a Benevento. Capua, recitano le cronache, fu la Città maggiormente impietosita dalla catastrofe che aveva colpito quegli sventurati...tra questi una compagnia di soldati spagnoli scalzi e sporchi come se fossero sopravvissuti all'inferno.

Da un documento antico ritrovato e tradotto dal dott. Giovanni Ricciardi dell’Osservatorio Vesuviano si legge: << Di tutti gli incendi del monte Vesuvio che tante volta ha reso la Campania disgraziata, nessuno è stato più funesto di quello del 16 dicembre 1631, compresa quella che ebbe luogo sotto Tito Vespasiano e di cui Plinio il giovane e Dione Cassio fanno una scrupolosa descrizione. Si ebbero allora, difatti due città, Ercolano e Pompei, distrutte per il fuoco; questa volta non sono solamente Torre del Greco e Torre dell'Annunziata, le due città che sorsero dalle ceneri di Ercolano e di Pompei, ma tutti i borghi e villaggi giacenti intorno al Vesuvio che vediamo incendiati e distrutti, quali i villaggi di Trocchia, di Massa, di Pollena, di S. Sebastiano, di S. Anastasio, di Palma, di Bosco, di Resina, di Cremano, questo bruciato per la seconda volta, dei borghi di Somma, di Ottaiano, di Lauro. In quanto al borgo di Marigliano, al villaggio di Saviano e all'antica città di Nola, inondati dalle acque sgorgate di recente dalla montagna, non hanno sofferto molto meno degli altri>>...


° l'evento massimo di riferimento è la taglia eruttiva adottata per poter mettere a punto la pianificazione d'emergenza nell'area vesuviana.



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