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giovedì 5 maggio 2022

Rischio Vesuvio e Campi Flegrei: la previsione dell'eruzione... di Malko

 


Nei Campi Flegrei, alcuni eventi sismici a bassa magnitudo ma con un trend energetico al rialzo, hanno destato non poche perplessità nei 550.000 dimoranti che popolano la caldera del super vulcano flegreo. I residenti si chiedono, senza esagerate apprensioni, se i tempi incominciano ad essere maturi per il passaggio dalla fase di attenzione a quella di pre allarme.

Dal punto di vista delle istituzioni, la direttrice dell’Osservatorio Vesuviano in un intervento rimandato sui social, ha confermato che in realtà quelle flegree sono energie sismiche che si sviluppano per bradisismo e che producono terremoti modesti, anche se a volte vengono avvertiti nettamente nel comprensorio flegreo. Gli eventi, continua la responsabile napoletana dell’INGV, si localizzano prevalentemente intorno ai 2 Km. di profondità, in quella che è l’area sismogenetica compresa tra la Solfatara e le emissioni di Pisciarelli. Gli altri parametri geofisici e geochimici del vulcano, precisa la dott.ssa Bianco, non sembrano denotare variazioni significative. Tra l’altro il monitoraggio in continuo effettuato dall’osservatorio vesuviano, non presenta segnali che possano eventualmente indicare dinamiche ascendenti del magma con annessa possibilità d’innesco di una eruzione. In conclusione, la dirigente rassicura e segnala che Il fenomeno del bradisismo al momento non è correlabile con un aumento della pericolosità vulcanica, ma con l’andare del tempo le deformazioni del terreno potrebbero incidere sulla resistenza statica degli edifici.

Parole perlopiù confortanti e in linea con le FAQ pubblicate nelle pagine web INGV dello stesso osservatorio vesuviano. Quivi la prima domanda ad oggetto giustappunto la previsione degli eventi vulcanici, contiene elementi molto confortevoli, che ad ogni buon conto riportiamo integralmente:

Domanda: È possibile prevedere la prossima eruzione del Vesuvio o dei Campi Flegrei? Risposta. Non è possibile prevedere a lungo termine quando ci sarà la prossima eruzione. Tuttavia, grazie alla sorveglianza del vulcano è possibile rilevare con ampio anticipo l'insorgenza di fenomeni precursori, che generalmente precedono un'eruzione, e procedere all'evacuazione prima che avvenga l'eruzione.

Secondo il nostro punto di vista, la parola ampio anticipo utilizzata dall'osservatorio vesuviano è in contrasto con i contenuti della direttiva della presidenza del consiglio (12/02/2021), che segnala la necessità di pubblicizzare i limiti scientifici delle previsioni probabilistiche. Lo stesso dipartimento della protezione civile però, ripete che le applicazioni di tipo probabilistico sono possibili solo per alcune fenomenologie che caratterizzano i vulcani attivi in forma permanente, ad esempio l’Etna e lo Stromboli. La lettura dell'articolo precedente chiarisce questi aspetti.

Nel campo della previsione degli eventi vulcanici, occorre dire che le eruzioni in genere possono essere preannunciate da fenomeni anche minimi monitorabili da strumentazioni ad alta tecnologia, compresa quella satellitare. Il problema grosso però, è dettato proprio dalla sensibilità degli strumenti, che possono registrare una condizione anche minimale di “irrequietezza” del magma con tutti i suoi prodotti liquidi e gassosi di cui è intriso, che accompagnano anomalie geochimiche e geofisiche, a cui non sempre corrisponde un allarme. Quindi: l’elevata tecnologia può solo anticipare la fase di attenzione, ma nulla può dirci sulla previsione dell’evento vulcanico che rimane ancorato a valutazione e tempistiche tutte umane, corroborate da basi statistiche molto limitate per il Vesuvio e ancora di più per i Campi Flegrei.  

Interpretare allora, è la parola chiave proposta e richiesta alla commissione grandi rischi, che dovrà pronunciarsi, carte alla mano, sui risultati del monitoraggio vulcanico, con responsi difficilissimi da trarre da semplici dati per quanto accurati, che potranno oscillare su un ventaglio di possibilità che partono da innocui riequilibri profondi del magma a possibili e allarmanti condizioni pre eruttive. In tutti i casi non è l’osservatorio vesuviano che decide i livelli di allerta vulcanica, ma la commissione grandi rischi per il rischio vulcanico, atteso che a un livello di allerta superiore ad attenzione (giallo), corrisponde un importante corrispettivo operativo e amministrativo. Ricordiamo ancora una volta che il pulsante per l'evacuazione, quello rosso, è pigiabile solo dal premier: nell'attualità Mario Draghi. Di seguito i livelli attuali stabiliti dall’autorità scientifica:

In realtà, in assenza di soglie limite strumentali di riferimento, riferite a valori numerici codificati, il passaggio ascendente o discendente da uno dei 4 colori illustrati, sono legati a fattori umani. Precisiamo che le uniche due colorazioni che non è difficile determinare, sono quella verde e giallo, perché non prevedono azioni per la popolazione. La più difficile in assoluto è proprio quella del pre allarme (arancione), mentre per quella rossa temiamo prodromi probabilmente avvertiti direttamente dalla popolazione. Una condizione quest'ultima, non contemplata nei piani d'emergenza, ma che può essere la circostanza capace di alterare in negativo i comportamenti umani (panico), con tutto ciò che ne consegue, soprattutto in un contesto evacuativo organizzato secondo formule da gita aziendale. 

La valutazione dei tempi che segnano e accompagnano la previsione eruttiva nei Campi Flegrei e del Vesuvio, nelle carte dicevamo è molto rassicurante. Ampio anticipo riferisce l’osservatorio vesuviano: 72 ore riferiscono invece le istituzioni politiche e tecniche. Il presidente della Regione Campania De Luca, molto pragmaticamente disse che questi tre giorni a disposizione per l’evacuazione potrebbero esserci, ma potrebbero anche non esserci…. In realtà, da un punto di vista strettamente tecnico, se la previsione dell’evento vulcanico fosse possibile in un ambito ottimistico di ampio anticipo, non ci sarebbe nel percorso operativo la fase dubitativa diversamente chiamata di pre allarme, dove i cittadini che ne sentissero la necessità, potrebbero allontanarsi spontaneamente usufruendo pure di un contributo statale di autonoma sistemazione. La fase di preallarme consente in ultima analisi al cittadino, di scostarsi dalle indecisioni scientifiche, assumendo con propria iniziativa la responsabilità di allontanarsi dalla zona rossa.

Quanti terremoti e con quali intensità possono essere interpretati come precursori di eruzioni? E quali sono le concentrazioni di gas e le temperature e le deformazioni limiti del suolo quali sintomi prodromi dell’eruzione? Nessuno lo sa! Perchè le variabili d'intreccio di questi dati, possono essere numericamente considerevoli, ma in tutti i casi con combinazioni mai verificate, per esempio per apparati come i Campi Flegrei la cui ultima eruzione risale al 1538. Non ci sono elementi di comparazione per azzardare una previsione, non solo perché non abbiamo dei database di riferimento che vanno indietro per decine di secoli, ma anche perché ogni vulcano ha delle caratteristiche proprie non sovrapponibili in genere a qualsiasi altro vulcano.

Ci sembra il caso di chiedere un parere al Professor Giuseppe Mastrolorenzo, primo ricercatore presso l’osservatorio vesuviano, molto presente con le sue spiegazioni sui media nazionali e internazionali.

Professore, ai Campi Flegrei come al Vesuvio è possibile prevedere un’eruzione con ampio anticipo?

Se il “largo anticipo“ è inteso come un tempo ampiamente superiore a quello necessario a garantire la messa in sicurezza di tutte le comunità a rischio, la risposta è certamente no. Ho dovuto ricordare, come spesso ho evidenziato, anche con rapporti ad organi Istituzionali e di Protezione Civile, come la previsione di eruzioni, in vulcani, come il Vesuvio e i Campi Flegrei sia impossibile.

L’intrinseca imprevedibilità deriva dalla complessità dei sistemi vulcanici a tutti i livelli, dalla sorgente magmatica alla superficie, dai processi fisici, chimico-fisici a diverse scale spaziali e temporali, che controllano complessi processi di genesi ed evoluzione del magma e della sua risalita verso la superficie.

Tali processi, così come i parametri coinvolti, sono solo ipotizzabili, sulla base delle indagini geofisiche e vulcanologiche, svolte principalmente negli ultimi decenni. A tali limiti, si aggiunge la natura caotica dei processi, la cui evoluzione può variare drasticamente in funzione di minime variazioni dei parametri, fuori dalla portata di qualsiasi indagine scientifica.

In altri termini, anche se la crosta terreste fosse totalmente trasparente e potessimo vedere il magma   e definirne le proprietà in ogni punto, non saremmo in grado di prevedere un’eruzione e la sua intensità.

Ma la crosta è tutt’altro che trasparente, e le nostre conoscenze sono indirette e quasi esclusivamente basate su ipotesi e   modelli descrittivi, spesso in contrasto tra loro, e più o meno sostenute da pochi parametri misurabili. Anche se disponessimo di esperienza diretta di un grande numero di crisi eruttive monitorate in ogni fase, resterebbe comunque imprevedibile una futura eruzione. 

Premettendo una camera magmatica ubicata a circa 8 km. di profondità per entrambi gli apparati vulcanici citati, è assodato scientificamente che il magma prima di assurgere in superficie deve saturare camere magmatiche superficiali ubicate a 3-4 km. di profondità?

Anche il dibattito scientifico riguardo la profondità del magma prima degli eventi eruttivi rientra nella più generale tematica della modellistica vulcanologica, basata su dati indiretti, principalmente di natura magmatologica e geofisica.

Studi sulle rocce vulcaniche di eruzioni avvenute in passato, hanno indotto alcuni autori a ipotizzare uno stazionamento del magma a profondità di alcuni chilometri, per una successiva evoluzione pre-eruttiva. Tale processo è stato ipotizzato principalmente in relazione alle maggiori eruzioni del Somma-Vesuvio, e solo vagamente per i Campi Flegrei e per eruzioni minori.

Per quanto gli studi in merito rivestano un notevole interesse scientifico, sarebbe un vero azzardo affidare la sicurezza di milioni di persone all’ipotesi di un prolungato arresto della risalita del magma ad una profondità intermedia, per un tempo prolungato prima dell’evento eruttivo. La sosta di questa massa magmatica fusa, potrebbe consentirne  la facile identificazione, e quindi in assenza di tali  evidenze, per ragionamento  inverso si è portati ad escludere una eruzione.

Di fatto, quello dell’accumulo superficiale del magma, per lungo tempo, prima di una eruzione, resta solo un modello o un’ipotesi di lavoro, e non deve essere adottato a fini di sicurezza e protezione civile. In  realtà, con le  tecnologie attualmente disponibili,  può risultare critica anche l’individuazione di  un  processo  di  risalita  magmatica,  che  può  manifestarsi   attraverso fratture  nella  crosta,  di  dimensione   di alcuni  metri, ed  evolversi  rapidamente  con sismicità modesta e segnali, quali  deformazioni del  suolo , variazioni di accelerazione di gravità locale, flusso di  gas e di calore, difficilmente rilevabili, almeno  nelle prime  fasi  del processo di risalita ,e  magari  anche   in quelle immediatamente  precedenti l’eruzione  .

Ed è proprio questo, lo scenario che prudenzialmente deve essere considerato, mentre le ipotesi che prevedevano ottimisticamente evidenti precursori e manifestazioni rilevabili della risalita del magma, seppure scientificamente validi, comportano, se adottati a fini di protezione civile, un azzardo inaccettabile.

Contrariamente, lo scenario di una risalita “silenziosa” del magma, attraverso sottili condotti, non rilevabili, attraverso il monitoraggio geofisico e geochimico, comporta la concreta possibilità di un mancato allarme o di un allarme solo a eruzione in corso o imminente. Di conseguenza, anche una evacuazione in frangenti eruttivi, deve essere   considerata e pianificata: questa eventualità non è considerata nei piani di emergenza. La statistica ci pone di fronte all’evidenza di non pochi casi registrati nel mondo, di evacuazioni avvenute con eruzione in corso, dettate da vulcani esplosivi e non, tra l’altro sottoposti a sistemi di monitoraggio avanzati e piani di emergenza mirati.

Il bradisismo flegreo può essere considerato un fenomeno che non riguarda direttamente le caratteristiche vulcaniche dell’area? Se l’ascesa del suolo dovesse continuare bisognerà preoccuparsi dei terremoti e quindi della statica dei palazzi o del pericolo vulcanico che avanza?

L’attività   sismica, associata all’attuale fase bradisismica, costituisce certamente un fondamentale indicatore dello stato e dell’evoluzione del sistema vulcanico, anche se per quanto detto di difficile interpretazione.

Coesistono modelli contrastanti sulle cause e la possibile evoluzione del bradisismo, ma in generale, la sismicità è interpretata come un effetto diretto del rilascio dello stress, prodotto dalla deformazione degli ultimi chilometri della struttura calderica per complessi processi di   circolazione dei fluidi all’interno del sistema geotermico, verosimilmente a causa di modificazioni nel sistema magmatico sottostante e/o della permeabilità dello stesso sistema geotermico.

L’esperienza delle passate crisi bradisismiche, suggerisce che la sismicità, e lo stesso bradisismo, non sono necessariamente precursori di eruzioni. In tempi storici, infatti, l’unico caso di eruzione a seguito di una prolungata   fase bradisismica, è quella del Monte Nuovo nel 1538. Ma è superfluo ribadire, come   nessuna valutazione probabilistica può avere senso per sistemi con così ampie lacune conoscitive.

Circa il rischio direttamente connesso con la sismicità, questo è risultato modesto nelle passate fasi bradisismiche, fino a magnitudo di poco superiori al quarto grado Richter. Ma è evidente, come dati gli elevati valori di accelerazione locale, dovuta alla bassa profondità ipocentrale, nonché alla diffusa disomogeneità dei terreni interessati, si renderebbe necessaria una valutazione accurata delle condizioni statiche degli edifici pubblici e privati, nell’intera area calderica dei Campi Flegrei, dei settori occidentali dell’area urbana napoletana e dei comuni limitrofi.

Il Professor Mastrolorenzo ha espresso con chiarezza il suo pensiero scientifico circa la previsione degli eventi vulcanici e la variante bradisismica. Di questo lo ringraziamo.

Da un punto di vista tecnico invece, occorre ricordare che non ci sono strumenti per quanto tecnologicamente avanzati, capaci di apportare sicurezze matematiche al vivere quotidiano delle popolazioni esposte al rischio vulcanico, tanto nel vesuviano quanto nei Campi Flegrei.

Purtuttavia è necessario avere contezza del rischio areale, ma poi occorre avere pure l’arguzia per comprendere che se da un lato la nostra corsa verso la conoscenza dei fenomeni vulcanici ad un certo punto si ferma per raggiunti limiti conoscitivi, nulla ci vieta di essere civicamente e criticamente presenti sul territorio, favorendo politiche organizzative, strutturali e infrastrutturali, capaci di mettere per quanto possibile in sicurezza la terra dove viviamo. Un territorio quello flegreo, che non potrà essere ancora oltre sovraccaricato di abitanti, magari adottando il prima possibile un vincolo di inedificabilità totale residenziale nella zona rossa, alla stregua di quanto fatto per il Vesuvio. Il sindaco Manfredi intanto deve sciogliere il rebus Bagnoli...





domenica 4 aprile 2021

Rischio vulcanico ai Campi Flegrei: la teoria delle teorie… di Malko


Il rischio vulcanico nell’area napoletana per numeri ed energie in gioco è un problema veramente notevole e per molti versi sottostimato: a fronte di una cotale minaccia, le uniche armi che disponiamo sono tutte concentrate nella conoscenza non univoca dei processi che innescano un’eruzione e la possibilità di individuarli e prevederli.

La previsione a lungo termine di un’eruzione non è possibile. La previsione corta e cortissima invece, potrebbe essere un traguardo maggiormente abbordabile ma ricco di incognite che potrebbero fare la differenza tra la corretta predizione e la catastrofe.

Per avere il successo evacuativo occorrerebbe che l’istituto di vigilanza geologica ubicato in piena area calderica, emanasse all’occorrenza una segnalazione di pericolo al dipartimento della protezione civile, che riunirebbe la commissione grandi rischi deputata a valutare la portata delle informazioni ricevute. Le conclusioni di questo comitato ristretto di esperti ai massimi livelli scientifici, sarebbero poste all’attenzione del presidente del consiglio dei ministri, a cui spetta la decisione ultima sull’emanazione o meno dell’ordine di abbandonare la zona rossa flegrea, con tutto ciò che una tale scelta comporterebbe.

Il provvedimento di allarme e quindi la successiva evacuazione dovrebbe concludersi in un tempo limite di 72 ore (tre giorni). Trattasi di un tempo netto però, che non comprende quello lordo necessario per consentire all’equipe scientifica e poi politica di addivenire a una conclusione sul livello di rischio incombente nell’area vulcanica. L’Osservatorio Vesuviano per contratto non è titolato a diffondere direttamente allarmi.

Nel nostro sistema nazionale, il Sindaco è certamente l’autorità locale di immediato riferimento dei cittadini, quello su cui ricadono in prima battuta la maggior parte dei problemi di protezione civile; a seguire il presidente della Regione e poi il dipartimento della protezione civile quale organo connesso alla presidenza del consiglio dei ministri. A dirla in breve, il presidente Draghi è il vertice del nostro sistema nazionale di salvaguardia dai pericoli naturali e indotti dall’uomo, quando per vastità dell’evento si richiede un intervento coordinato di livello nazionale. Il Vesuvio e i Campi Flegrei sono un problema nazionale. Ischia non lo sappiamo ancora perché l’isola non è stata vagliata geologicamente in una misura ufficiale e sufficientemente approfondita da poter teorizzare e prospettare scenari eruttivi futuri.

Quando si utilizza il termine protezione civile, il cittadino in genere immagina prevalentemente operatori volontari dalle divise sgargianti che aiutano ai gazebi; altre volte che spalano fango o gestiscono tendopoli e cucine da campo. In realtà quando diciamo protezione civile e a prescindere dal livello chiamato in causa, intendiamo innanzitutto tutte le attività che afferiscono alla previsione delle catastrofi, alla prevenzione delle catastrofi, e poi alle misure per fronteggiare la catastrofe. In un secondo momento si attivano tutte le iniziative necessarie per il ritorno alla normalità.

Mentre il Vesuvio maestosamente e solo apparentemente sembra immoto e privo di fuoco vulcanico alla stregua dell’isola d’Ischia, i Campi Flegrei hanno sbalzi di umore geologico ben rappresentato dal bradisismo, dai microsismi e dai fenomeni di degassazione che in superficie disperdono molte tonnellate di anidride carbonica e altri gas pestilenziali, al punto che è risultato necessario inibire l’accesso nella zona di Pisciarelli, che sembra essere diventata la canna fumaria del sottosuolo ribollente.

Recentemente in una riunione tenutasi a Pozzuoli sul rischio eruttivo ai Campi Flegrei, il consesso ha visto la partecipazione delle massime autorità amministrative, scientifiche e del dipartimento della protezione civile. Durante l’assise sono circolati messaggi di grandi rassicurazioni, come quello che si riuscirà a monitorare il cammino del magma verso la superficie attraverso la strumentazione multi parametrica dislocata nell’area calderica dall’Osservatorio Vesuviano. Anche il responsabile dell’Ufficio emergenze del dipartimento della protezione civile ha dissipato i dubbi sull’argomento della salvaguardia, affermando che le popolazioni flegree esposte al rischio eruttivo saranno evacuate all’occorrenza molto prima delle dirompenze. L’immagine di una evacuazione con eruzione alle spalle, ha affermato il dirigente dipartimentale, è assolutamente da rigettare.

Nel 2012 alcuni articoli scientifici paventavano il successo di una previsione che era riuscita a prevedere il momento esatto di un’eruzione un’ora prima che si presentasse: un cotale anticipo che noi considereremmo inutile, gli scienziati lo classificarono in quel periodo un grande successo.

C’è poi un lavoro prodotto da alcuni famosissimi esperti della vulcanologia nazionale, report classificato molto confidenziale (nell’attualità forse rimosso dalla rete), che hanno scritto a proposito del sottosuolo flegreo che:<<… la visione d’insieme mostra un reservoir di grandi dimensioni a circa 7-9 km di profondità, che corrisponde assai bene a quello messo in evidenza dalla tomografia sismica dove risiedono magmi a composizione variabile da shoshonite a trachite, e numerosi reservoirs di più piccole dimensioni messisi in posto a profondità variabili fino a meno di 2 km, dove magmi più profondi periodicamente giungono mescolandosi col magma residente e in via di differenziazione. I dati suggeriscono che processi di mixing tra magmi composizionalmente diversi siano continuamente avvenuti a varie profondità nel corso della storia magmatica dei Campi Flegrei, e che in numerose occasioni l’arrivo di magma profondo in una camera magmatica abbia preceduto anche di pochi giorni il verificarsi di una eruzione. In tale visione, la magnitudo dell’eruzione non necessariamente riflette il volume della camera magmatica più superficiale, in quanto più reservoirs a diversa profondità possono essere interessati. Questo sembra essere avvenuto, ad esempio, per l’eruzione di Agnano Monte Spina, la maggiore dell’ultima epoca di attività per intensità e magnitudo. Nel caso di tale eruzione le ricostruzioni petrologiche mostrano una camera magmatica superficiale (2-3 km di profondità), di piccole dimensioni e ospitante magma di composizione fonolitica, invasa probabilmente 1-2 giorni prima dell’eruzione da magma di composizione trachitica e di provenienza più profonda…>>.

Di contro una recentissima conferenza online proposta da esperti della Università Federico II di Napoli ad oggetto sempre il rischio vulcanico flegreo, ha dato spazio a una tesi forse la più tranquillizzante degli ultimi anni, che è quella che la probabilità che si verifichi un’eruzione è la più bassa in assoluta da 500 anni a questa parte e dovrebbe ulteriormente diminuire col tempo. Lo scenario può cambiare prosegue la ricercatrice che ha curato questa edizione online, se arriva magma dal profondo nella camera di alimentazione dei Campi Flegrei. In questo caso si presuppone che il modello di deformazione del suolo cambierebbe notevolmente.

Questa tesi come altre ha la sua dignità propositiva, anche se bisogna notare che nel 2012 è stato dichiarato lo stato di attenzione vulcanica che perdura tutt’ora e che in pratica poco si attaglierebbe a una condizione di pacatezza geologica.

Al Professore Giuseppe Mastrolorenzo, noto vulcanologo dell’Osservatorio Vesuviano (INGV) e importante voce scientifica che spesso dai media ci illustra l’attualità dei distretti vulcanici napoletani, ci sembra naturale chiedere a fronte di numerose teorie, catastrofiste o rassicuranti, quali ipotesi devono essere ispiratrici per l’azione del mondo istituzionale, deputato ad affrontare il complesso nodo della sicurezza nei distretti vulcanici napoletani. Di seguito la risposta…

Il Prof. Giuseppe Mastrolorenzo col cane Zeus

La quantificazione della pericolosità per eventi naturali, quindi della probabilità che un dato evento disastroso si verifichi in un dato intervallo di tempo, presenta sempre gravi criticità per carenze di conoscenze spesso incolmabili. Nel caso specifico del rischio vulcanico nell’area napoletana, comprendente Vesuvio, Campi Flegrei e isola di Ischia, benché siano state riconosciute per ognuno dei distretti vulcanici menzionati numerose decine di eruzioni nelle ultime decine di migliaia di anni, le conoscenze acquisite rimangono assolutamente insufficienti per valutazioni probabilistiche capaci di fornirci la quantificazione della pericolosità per ogni singola classe di eruzione.

Di fatto, le decine di eventi riconosciuti, sono dispersi in un estesissimo intervallo di classi di eruzioni che, per i Campi Flegrei ad esempio, spaziano da piccole eruzioni stromboliane a super eruzioni con differenze di volume di magma eruttato tra i due estremi di oltre diecimila volte.

Un’ulteriore criticità deriva dalla distribuzione estremamente disomogenea nel tempo degli eventi che tendono a concentrarsi in alcuni periodi e a diradarsi in altri. Di conseguenza, qualsiasi valutazione statistica avrebbe l’effetto di mediare sui volumi eruttivi e sui tempi di ritorno in modo inaccettabile ai fini previsionistici. Per tali motivi, il valore del rischio resta arbitrario per le troppe incognite che inficiano un’adeguata valutazione della pericolosità vulcanica. Tuttavia, su tali approcci statistici sono basati i piani di emergenza nazionali, ed in particolare la definizione degli scenari di riferimento e il valore di pericolosità relativo a tale scenario.

A titolo di puro esempio, una ipotetica valutazione del rischio fatta immediatamente prima della super eruzione dell’ignimbrite campana, dopo un lungo periodo di attività rara e modesta, sarebbe stata estremamente tranquillizzante. Di contro, l’evento che stava per verificarsi, si sarebbe rivelato invece il più devastante dell’intera storia geologica dell’area mediterranea.

D’altro canto, verso la metà di settembre del 1538, una ipotetica valutazione del rischio vulcanico, avrebbe suggerito un prossimo evento di portata sub pliniana, analogo a quello previsto dallo scenario attualmente adottato nel piano di emergenza per i Campi Flegrei. Ma tra la fine di settembre e gli inizi di ottobre, si verificò l’eruzione del Monte Nuovo, classificabile tra i minori eventi eruttivi nella storia dei Campi Flegrei, con un volume di magma eruttato, di almeno dieci volte inferiore ad un evento subplinano.

Oltre gli approcci probabilistici, fondamentalmente inattendibili, negli ultimi decenni, abbiamo sviluppato diversi modelli concettuali sui sistemi vulcanici dell’area napoletana e sui processi che potenzialmente potrebbero portare ad una eruzione.

In particolare, per i Campi Flegrei, che al momento destano la maggiore preoccupazione a causa degli eventi bradisismici in atto, quasi ogni mese vengono pubblicati nuovi articoli scientifici sulle maggiori riviste mondiali.

I dati geofisici e geochimici sul sistema vulcanico dei Campi Flegrei, si arricchiscono continuamente, grazie al monitoraggio H24 e alle numerose campagne di indagine di dettaglio. Gli elementi così raccolti sono di pubblico dominio, e lo scambio di dati, informazioni, ipotesi e modelli tra ricercatori e gruppi di ricerca, è sempre più efficace, grazie alle sempre maggiori potenzialità della rete.

La coesistenza di modelli interpretativi sullo stato del vulcano con diverse formulazioni e conclusioni, in merito alla possibile evoluzione a medio e a lungo termine, rivela un quadro di estrema complessità del sistema vulcanico.

Tale complessità comune a gran parte dei sistemi naturali, ha come conseguenza la non prevedibilità dell’evoluzione dei processi, per il coinvolgimento di un elevato numero di variabili, tra loro interconnesse, con relazioni note al più in termini generali. Infatti, le conoscenze del sottosuolo ed in particolare della natura e dello stato del sistema magmatico, e delle sue interazioni con le formazioni geologiche profonde e superficiali, non sono indagabili con dettaglio adeguato alla definizione univoca dei processi fisici e chimico-fisici in atto...

D’altra parte, per la intrinseca imprevedibilità dei sistemi complessi, anche nell’eventualità del tutto ipotetica di poter indagare e monitorare direttamente il sistema vulcanico in tutta la sua estensione, dalla camera e fino alla superficie, resterebbe comunque imprevedibile l’evoluzione del sistema nel breve, medio e lungo termine.

Questo proprio per la natura dei sistemi complessi, la cui evoluzione può differire drasticamente anche per minime variazioni di uno solo degli svariati parametri che influenzano il sistema.

Per tali ragioni, i diversi modelli proposti su quella che potrebbe essere l’evoluzione e la pericolosità vulcanica dei Campi Flegrei, spesso divergono nelle conclusioni, talora più allarmistiche, talora relativamente più tranquillizzanti. I modelli concettuali e fenomenologici pur fornendo un fondamentale supporto alla conoscenza, non possono costituire uno strumento certamente affidabile per i fini di Protezione Civile, e quindi con diretta implicazione sulla sicurezza di milioni di persone.

Di fatto, mentre le posizioni scientifiche di un singolo ricercatore o gruppo di ricerca, restano un semplice contributo alla conoscenza, quelle espresse ufficialmente da istituzioni o commissioni incaricate di fornire scenari agli organi di protezione civile, seppure basate su analoghe conoscenze, ancorché condizionate dai medesimi quanto insuperabili limiti scientifici, costituiscono pareri ufficiali. Tali pareri, con finalità operative e decisionali, pertanto implicano una assunzione di responsabilità per le eventuali conseguenze.

Il fatto che i pareri istituzionali, in genere, rappresentino una mediazione tra le diverse opinioni e i diversi modelli disponibili, non conferisce maggiore attendibilità alle argomentazioni.  Pertanto, la percezione, spesso indotta dalle comunicazioni istituzionali e dai mass-media, che i pareri ufficiali siano frutto di “ipotetiche conoscenze superiori “non opinabili, è priva di fondamento. È vero invece, che i soggetti responsabili, possono rispondere anche giuridicamente per le tesi sostenute.

Per quanto detto, è evidente come, a fronte di ogni valutazione di natura statistica o derivante da pur raffinati modelli scientifici, la gestione del rischio vulcanico debba essere basata fondamentalmente sulla prevenzione, che è garantita esclusivamente da piani di emergenza basati su scenari adeguati, e di tempestiva attuazione anche a rischio di incorrere in falsi allarmi. L’alternativa a un falso allarme è il mancato allarme, che può comportare la perdita di milioni di vite umane. Va da sé, che una scelta di massima tutela della sicurezza implica una assunzione di responsabilità da parte delle autorità governative nell’adozione di decisioni in base alla massima precauzione e non semplicemente sulla base di pur complessi modelli probabilistici o fenomenologici, che per quanto detto, conservano una rilevante arbitrarietà.

A tal fine, sarebbe doveroso da parte dei ricercatori e delle istituzioni preposte, evidenziare sempre, agli organi di protezione civile e alla popolazione, attraverso i mass-media, i limiti sostanziali e attualmente non superabili delle conoscenze scientifiche e della capacità di previsione dei sistemi vulcanici.

Per tali motivazioni, pur avendo svolto personalmente, già da decenni ricerche sulla pericolosità vulcanica al Vesuvio e ai Campi Flegrei, nonché sui processi di risalita del magma, ho ritenuto più opportuno in queste brevi considerazioni, soffermarmi sulle criticità e sulle carenze del trasferimento delle conoscenze scientifiche in strategie di protezione civile. Questo anche in considerazione di quanto abbiamo sperimentato a livello nazionale e mondiale in merito ai piani pandemici.

Di fatto, a fronte delle migliaia di ricerche scientifiche disponibili in ambito di virologia e pandemie, si è sperimentata una pressoché totale impreparazione nell’affrontare almeno le prime fasi decisive della pandemia. In prima battuta infatti, non era probabilmente cruciale una ulteriore conoscenza virologica, ma l’attuazione tempestiva, accurata e diffusa delle comuni procedure di protezione dal contagio, e quindi di un piano pandemico adeguato, efficace e di rapida applicazione, indipendentemente dalla natura del virus e dalla sua effettiva diffusione.

Ringraziamo il Professor Giuseppe Mastrolorenzo per la disponibilità e la chiarezza esplicativa che ci ha consentito di avere le idee più chiare sul grande tema del rischio vulcanico.

A voler tracciare delle conclusioni possiamo così riassumerle: la condizione geochimica e geofisica del vulcano flegreo nelle profondità chilometriche non sono note con una precisione che possa consentire agli esperti di determinare in anticipo l'intensità eruttiva o i tempi di accadimento del fenomeno con precisione. D’altra parte la previsione corta del fenomeno vulcanico non può spingersi a pronosticare l’ora e i minuti e i secondi che mancano alle dirompenze: quindi è il peso antropico che grava sull’area a dettare limiti di incompatibilità visto che il calcolo evacuativo si basa su 72 ore a disposizione. Per l’autorità scientifica una previsione oscillante su più o meno dieci giorni è comunque una previsione azzeccatissima, ma per il piano di evacuazione potrebbe non esserlo…

A fronte delle incognite geologiche, i centri di competenza e la commissione grandi rischi si sono assunti la responsabilità di una proiezione di quelli che potrebbero essere gli scenari eruttivi futuri, congiuntamente a una previsione utile dell’insorgere del fenomeno. In ogni caso resta salva la responsabilità ultima del presidente del consiglio dei ministri nel decidere in quale momento bisognerà premere il pulsante dell’allarme evacuativo.

Non resta che suggerire alle popolazioni dei Campi Flegrei e del Vesuvio, che è forse un errore limitare il loro interesse ai soli aspetti geo vulcanologici, perché lì non ci sono grosse mancanze a fronte delle numerose incertezze racchiuse in questa disciplina scientifica costretta ad operare su orizzonti non visibili. Non può dirsi lo stesso per le tattiche e le strategie evacuative però, che rimangono l’unica strada per mitigare le incertezze sul diritto alla sicurezza, che deve essere corroborato e perfezionato con interventi mirati di prevenzione attiva, spesso riconducibili al riordino territoriale che cammina di pari passo con le prospettive antropiche future.





 

sabato 20 giugno 2020

Rischio vulcanico ai Campi Flegrei: la geotermia d'assalto... di MalKo



Foto tratta dal Corriere del Mezzogiorno web- 2020 - Perforazione a Scarfoglio (Pozzuoli).


Le operazioni di trivellazione che stavano interessando qualche giorno fa la cittadina di Pozzuoli in località Scarfoglio, pur nel dichiarato impegno degli autori di limitarsi a perforare solo per alcune centinaia di metri, non hanno evitato un certo allarmismo tra la popolazione, atteso che la zona è vulcanica e come tutto il comprensorio è in una condizione di livello di allerta tarato sullo stato di attenzione.

Gli scopi di questa attività di scavo meccanico, pare siano legati a sperimentazioni sull’utilizzo della risorsa geotermica in una misura residenziale, che in quel determinato punto si avvale di temperature dei fluidi già produttivi a bassa profondità. La società che gestisce l’operazione usufruisce della consulenza dell’INGV e delle maggiori università campane, che sono interessate a nuove tecnologie e sistemi non convenzionali per sfruttare la risorsa geotermica onde produrre elettricità e calore. Presumibilmente, secondo le convinzioni dei progettisti, lo scavo poco profondo ancorché supportato scientificamente da molte rinomate strutture statali come l’Osservatorio Vesuviano, necessitava della sola autorizzazione della Regione Campania, ente erogante incentivi, senza bisogno di procedere a valutazioni più ampie circa l’impatto ambientale e le perturbazioni eventualmente che si sarebbero cagionate agli equilibri complessivi e puntiformi in quel sito. In una zona calderica ancorché soggetta a bradisismo e allerta gialla, non coinvolgere l’autorità comunale è stato un errore, e bene ha fatto il sindaco di Pozzuoli a bloccare i lavori, a prescindere dalla bontà del progetto che andava in ogni caso pubblicizzato e approvato.

Ben pochi sanno che un grande progetto di trivellazione prevedeva nel 2011 di carpire la risorsa geotermica ad alta entalpia, direttamente dai fianchi del vulcano sommerso Marsili. Se l’iniziativa supportata da un cast scientifico di tutto rispetto (INGV) fosse andata avanti, l’Italia avrebbe forse potuto vantare la più grande centrale geotermica offshore del mondo, in mare aperto ma a ciclo aperto, e lontana decine di miglia dai centri abitati. Un progetto francamente affascinante, ma che partiva col piede sbagliato, in quanto i proponenti ritenevano che i circa 80 chilometri che separavano il vulcano dal centro abitato più vicino, fosse una distanza garantista per l’incolumità delle genti, e quindi da non necessitare di una procedura di valutazione d’impatto ambientale (VIA) a cura della commissione del Ministero dell’Ambiente.

Il vulcano Marsili

La società proponente ebbe a scrivere che il rischio geologico vulcanologico connesso alla perforazione, dai dati acquisiti non sembra presentare livelli di rischio importanti. La commissione ritenne che la parola sembra non poteva essere accettata nella definizione di un rischio. Il problema serio infatti, era rappresentato dai materiali poco coesi in deposito sui versanti acclivati del Sea Mount tirrenico che potevano franare. Le operazioni di trivellazioni che avrebbero potuto cagionare sollecitazioni ma anche esplosioni di vapore, potevano causare disequilibri e vibrazioni forse sufficienti per innescare un massiccio movimento franoso dai pendii. In tal caso si sarebbe generato uno tsunami molto pericoloso per le isole Eolie e la terraferma peninsulare interessando più regioni. Il progetto Marsili in assenza di certezze fu dichiarato assoggettabile alla procedura ministeriale di valutazione d’impatto ambientale (VIA): da allora non è stato più ripresentato. L’elemento importante di questo iter, è racchiuso nella necessità di valutare a cura delle società votate all’energetico, ogni conseguenza diretta o indiretta che possa discendere dalla manomissione del territorio, anche in tempi diversi e a notevole distanza dal centro produttivo.

Il progetto “Campi Flegrei Deep Drilling Project”, prevedeva che lo scalpello rotante doveva raggiungere da Bagnoli e verso il porto di Pozzuoli, i 4 Km. di profondità, per fungere da “periscopio” nel sottosuolo calderico più ingobbito della zona. Il sindaco di Napoli Iervolino si oppose bloccando i lavori. Sarebbe il caso che lo Stato pretendesse e applicasse anche agli organismi scientifici (INGV) che intendono trivellare, la necessità di assoggettarsi a una completa valutazione d’impatto ambientale (VIA), in modo che la salute e la sicurezza pubblica dei cittadini siano in tutti i casi assicurati da soggetti terzi. Occorre aggiungere che non è la finalità del progetto o la natura pubblica o privata del richiedente a rendere immuni pericoli e processi di alterazione del territorio, bensì la rinuncia a procedere, quando sussistono elementi d’incertezza che dovrebbero suggerire ampi margini di precauzione.

Nella valutazione d’impatto ambientale del progetto geotermico di Serrara Fontana (Ischia), nonostante le assicurazioni basate sul supporto scientifico dell’INGV, rimaneva concretamente e di fatto la scarsa conoscenza del sottosuolo ischitano. Un vero azzardo allora presentare un piano di scavo capace di apportare modifiche o inquinamento alle collaudate acque idrotermali di superficie, che da secoli garantiscono una rinomata attività termale fondamentale per l’economia dell’isola. Pure la notevole moltitudine di massi che costellano il Monte Epomeo potevano trasformarsi in pericolo a seguito delle attività di trivellazione e reiniezione dei liquidi emunti dal profondo. Nel caso di Ischia quindi, l’impossibilità di classificare adeguatamente il rischio sismico indotto e le sollecitazioni al sistema vulcanico in un quadro di notevoli criticità idrogeologiche anche subacquee, alla stregua del Marsili, hanno convinto la commissione tecnica del Ministero dell’Ambiente ad esprimersi negativamente per l’industria del geotermico sull’isola.

Un business interessante fu individuato da una società operante nel geotermico, in località Scarfoglio a Pozzuoli, dove in loco le temperature dei fluidi idrotermali che schizzano anche dal sottosuolo sono industrialmente molto interessanti. Il problema è che tale centrale pilota si pensava di realizzarla a ridosso della Solfatara, in un settore dove le quantità di emanazioni gassose che si riversano in atmosfera sono veramente tante, in un contesto di allerta gialla e un bradisismo areale che sta mettendo a secco alcune zone del porto puteolano. Pure nel caso di Scarfoglio, le perplessità sul rischio sismico naturale e indotto e le possibili sollecitazioni al sottosuolo vulcanico saturo di gas, hanno fatto propendere la commissione tecnica ministeriale, a chiedere analisi e documentazione supplementari alquanto complesse, che non sono arrivate, comportando di conseguenza l’archiviazione del progetto.
    
Nella Tuscia e lungo i territori del lago di Bolsena e dei monti Vulsinii invece, un’autorizzazione a procedere col geotermico è già arrivata a Castel Giorgio. Un gruppo di sindaci sta cercando di far revocare tale autorizzazioni facendo ricorso al TAR: il pronunciamento potrà risultare deludente, perché non essendo una struttura tecnica, l’analisi dei giudici amministrativi verterà praticamente sui documenti esistenti. D’altro canto pare che alcuni primi cittadini si siano rivolti pure al Dipartimento della Protezione Civile, secondo logiche di prevenzione delle catastrofi, perché l’attività perforativa e di reiniezione dei fluidi idrotermali, proprio non li rassicura. D’altro canto neanche la scienza ha ancora elementi per dare certezze conclusive sulla possibilità di danno derivanti dalle attività invasive proprie del geotermico. La Protezione Civile in seguito a questa richiesta, dovrà presumibilmente assumere il parere della commissione grandi rischi congiunta per il rischio sismico e vulcanico, che probabilmente dovrà fare un grosso lavoro pure di distinguo sulle zone dov’è possibile lo sfruttamento geotermico.

La produzione di energia elettrica sfruttando i fluidi idrotermali profondi ovviamente, è il fine delle progettualità pilota in itinere, che intendono operare col metodo binario. Rispetto alle più vecchie centrali che rilasciano vapori nell’atmosfera ma non solo, i sistemi di nuova concezione risultano meno inquinanti per la parte atmosferica, ma più problematici per la parte sotterranea. Detti impianti emungono fluidi termali fino alla superficie, carpendone il calore che viene ceduto a un altro liquido organico (scambiatore di calore) che opera direttamente nel sistema di produzione dell’elettricità.  

I liquidi idrotermali raffreddatisi nei processi di scambio, vengono reiniettati nel sottosuolo a distanza dal punto di captazione, per consentire attraverso un percorso pseudo orizzontale negli interstizi del sottosuolo, il reriscaldamento del geo fluido che ripeterà daccapo il ciclo iniziale: il sistema rinnovabile andrebbe avanti finché sono assicurati acqua e calore. Il tutto avverrebbe secondo logiche da circuito chiuso, alla stregua di un impianto di raffreddamento utilizzato negli autoveicoli. Purtuttavia occorre precisare che il sottosuolo non è un radiatore, e quindi non è confinato dalla lamiera metallica in nessuna direzione.

Il problema di fondo del geotermico binario, pare sia dettato dal fatto che le operazioni di trivellazione e quindi di emungimento e poi di reiniezione dei fluidi, possono generare una sismicità indotta e anche subsidenza e sovrappressioni nei pozzi. Occorre poi dire che in ogni caso le perforazioni chilometriche trapasserebbero gli strati contenenti i giacimenti idrici potabili, che semmai e malauguratamente dovessero inquinarsi per effetto di quegli elementi tossici che la natura ha ritenuto necessario stipare nel profondo sottosuolo, causerebbero un grande danno per la salute pubblica e per le attività irrigue.

Ritornando alla questione iniziale della trivellazione a Scarfoglio, ricordiamo per offrire analogie, che nella località salernitana di Oliveto Citra, da una buca ubicata in mezzo alla campagna, fuoriusciva e fuoriesce a permanenza un flusso di gas freddo visibilmente deleterio per la vegetazione limitrofa, ma anche per gli animali di bassa taglia che stramazzano se si avvicinano troppo al pertugio, e certamente anche per gli esseri umani se si chinano sui bordi del fosso. La nostra investigazione campale con kit chimici, consolidò l’ipotesi iniziale che da quel buco fuoriusciva anidride carbonica (CO2) e idrogeno solforato (H2S) e tracce di altri elementi tossici. L’anidride carbonica è un gas asfissiante più pesante dell’aria, che diventa particolarmente pericoloso soprattutto in assenza di vento e con temperature fredde che ne aumentano la densità, dando al prodotto gassoso un comportamento simile alle sostanze liquide, stagnando così sul terreno avvallato o riversandosi in buche e anfratti. L’idrogeno solforato invece, è un elemento tossico più leggero dell'anidride carbonica ma un po' più pesante dell'aria, che produce effetti irritanti alla gola inducendo tosse, e agli occhi la lacrimazione, già a concentrazioni minime di 50/100 parti per milione. In quantità dieci volte superiore è letale.

Oliveto Citra - Emissioni mefitiche (Il drappo è spinto in alto dal flusso gassoso).


Nel caso di Oliveto Citra, ritenemmo necessario relazionare al sindaco il potenziale pericolo della sorgente mefitica, e questi provvide a recintarla con transenne e cartelli che avvisavano del rischio rappresentato dalle emissioni gassose. Alcuni coloni ci dissero pure che a più riprese tentarono il riempimento a terriccio dell'anfratto, ma senza nessun esito risolutivo. Alla stregua, anche nel caso di questa trivellazione estemporanea a Scarfoglio, il sindaco dovrebbe intervenire, cosa che sicuramente avrà già fatto, facendo analizzare i gas, valutandone poi le concentrazioni anche a quote prossime al piano di campagna per poi decidere in qualità di autorità locale di protezione civile il da farsi. Con risultati alla mano potrà assumere decisioni protettive, imponendo ai misurati trivellatori l’obbligo di eliminare il pericolo qualora lo si accertasse, anche perché i gas insiti nei vapori che fuoriescono dal foro, possono variare la loro concentrazione nel tempo o in seno a sommovimenti sismici e rimescolamento dei fluidi idrotermali, e non sono per loro natura contenibili dalla recinzione del cantiere…

Dal punto di vista della sicurezza, il geotermico, fino a quando non si accerterà l’assenza di correlazione con la sismicità, dovrebbe essere non demonizzato o bandito ma posto in stand by, in attesa che la scienza chiarisca i rischi e la tecnologia individui strumenti per procedere con sempre maggiore sicurezza e controllo in un ambiente che non ha un orizzonte visibile. Tra l’altro parliamo del geotermico quale risorsa rinnovabile, e quindi non c’è l’urgenza dettata dalla possibilità che il “business” scappi di mano, a meno che il business non lo si inquadri nell'incentivo statale: questo sì che può variare con un nuovo quadro politico. Ci sono   giacimenti di petrolio che vengono congelati in attesa di un mercato più redditizio o sistemi di captazione più economici: niente di strano quindi a ritardare certi sfruttamenti, soprattutto in assenza di condizioni da fame energetica che potrebbero condizionare fortemente le scelte politiche.   

D’altra parte il progetto TAP (Trans Adriatic Pipeline) consolida l’utilizzo del metano in Italia, magari rendendolo meno costoso e più usufruibile e sicuro, così da convertire a gas pure le centrali elettriche di Brindisi e Civitavecchia i cui impianti funzionano ancora a carbone, e almeno fino al 2025. Il fotovoltaico non sostituisce ancora la lattina di benzina, mentre l’eolico deturpa il paesaggio e annienta l’avifauna e soprattutto i rapaci notturni. L’idroelettrico è fenomenale ma limitato a poche stazioni sul territorio nazionale. L’energia dalle onde è ancora sperimentale e il nucleare è troppo pericoloso. I biocarburanti pare che tolgano troppo spazio all’agricoltura per fini alimentari… Esiste poi un'altra energia che è quella degli incentivi statali, capace di mettere insieme e movimentare progetti e promesse per trarre elettricità finanche dalle cozze…


Il sottosuolo è un ambiente sconosciuto, e in alcune località del mondo le perforazioni in qualche caso hanno causato danni catastrofici, come quelle che nel 2010 caratterizzarono l’inquinamento nel Golfo del Messico. Fuoriuscirono dal fondo marino 8000 barili al giorno, perché la valvola di sicurezza non riuscì a entrare in funzione: occorsero cinque mesi per tappare la falla in testa di pozzo e le richieste di risarcimento furono 390.000.
Anche in Italia si annoverano incidenti, come quello che si verificò nel 1994 nel novarese, a causa di un’eruzione di petrolio dal pozzo di Tricate con violenta fuoriuscita di gas e greggio per due giorni. L’inconveniente fu arginato da una fortuita frana che si verificò all’interno del pozzo. Il 13 ottobre del 1991 invece, durante la fase di perforazione del pozzo Agip nel tenimento di Policoro in Basilicata, si ebbe un’eruzione di fango dalle aste senza che si potesse intervenire in qualche modo, poi seguita da emissioni gassose che presero fuoco con un boato che asperse petrolio tutt’intorno: la cronaca racconta del ribollire di pozzi d’acqua nelle vicinanze evidentemente perché i gas in pressione avevano raggiunto attraverso fratturazioni e interstizi delle rocce, i siti d’accumulo del prezioso e vitale liquido. A Giava una banale trivellazione (2006) fu all’origine di inarrestabili eruzioni di fango che fanno temere oggi fenomeni di subsidenza particolarmente accentuati dell’ordine delle decine di metri. Problemi sismici indotti si sono avuti pure alle Canarie e in Svizzera e in California e in Emilia Romagna e in altri siti che contano gli effetti diretti e indiretti provocati dalle trivellazioni e dalla pratica di reiniezione dei liquidi in profondità.  

Per concludere, i Campi Flegrei sono un territorio calderico caratterizzato da un sottosuolo in perenne metamorfosi, con un calore che si diffonde in superficie insieme a una gran quantità di acqua che circola dissipando quei gas che sono propri dei distretti vulcanici. Il passato della zona tra l’altro lo conferma, tant’è che il Lago d’Averno ha questo nome che sottintende senza uccelli. I volatili evidentemente morivano quando passavano sulla superficie del lago per imbeccare insetti, in una condizione di forti emanazioni mefitiche che creavano strati assolutamente irrespirabili. D’altra parte anche il tragico incidente che capitò alla Solfatara nel 2017, causò, purtroppo, la morte accidentale di tre turisti, scivolati in un buco saturo di anidride carbonica: una vera trappola mortale.

Dal giornale online La Repubblica . Solfatara di Pozzuoli: la micidiale buca.


Nei Campi Flegrei c’è “irrequietezza” nel sottosuolo, e questo consiglia di muoversi con prudenza, evitando di interessare con trivellazioni una zona dove persiste la possibilità di eruzioni freatiche e quella di emissioni di anidride carbonica in un settore territoriale che già ne produce naturalmente una quantità industriale.
Per le attività geotermiche, i comuni che cercano di battersi per evitare insediamenti intesi a sfruttare le acque calde idrotermali, come quelli della Tuscia e dei territori dei Monti Vulsini che ricadono a ridosso del lago di Bolsena, sarebbe opportuno che le loro osservazioni vadano in una direzione diversa, e formulate anche al Ministero dell’Ambiente, per conoscere se il rischio sismico ed eruttivo freatico e inquinante che accompagna i progetti geotermici, devono essere inseriti nell'analisi dei rischi che incombono sui territori comunali. Chiedere ad esempio che vengano fornite  pure le istruzioni per intervenire in caso di inquinamento delle falde di acqua potabile, è un modo per evidenziare i rischi connessi a una insostituibile risorsa per la vita ordinaria e per le attività produttive agricole.

D’altra parte ed è intuitivo che la risorsa idrica potabile ha una indiscutibile priorità conservativa, e non può essere minacciata nella sua salubrità da una pratica perforativa ed estrattiva dei fluidi idrotermali per produrre elettricità e calore in presenza di alternative accettabili come il metano, fonte purtroppo o per fortuna non rinnovabile, ma certamente nell’attualità meno inquinante dei confratelli liquidi e solidi. 

Il Prof. Giuseppe Mastrolorenzo, primo ricercatore dell’INGV, Osservatorio Vesuviano, conosce benissimo sia le problematiche delle trivellazioni in area vulcanica che quelle che si prefigurano nei territori toscani e del Lazio per lo sfruttamento del geotermico.

Prof. Mastrolorenzo, questa recentissima trivellazione a Scarfoglio e più in generale quelle che si volevano realizzare nei Campi Flegrei, presentano delle criticità insuperabili?

Certamente lo zona della Solfatara nel suo bordo orientale è quella a massima fragilità e criticità, perché è ubicata al centro della zona rossa dove ci sono le più forti manifestazioni termiche e sismiche con epicentri sufficientemente localizzati e associati al fenomeno bradisismico. Un fenomeno quest’ultimo in atto e che ha avuto diverse fasi a partire dagli anni ‘70. Nella zona ad est della Solfatara, vengono rilasciate naturalmente dal sottosuolo, alcune migliaia di tonnellate di anidride carbonica al giorno, insieme a una enorme quantità di vapore acqueo. Negli ultimi anni si è assistito tra l’altro in questa zona, a un notevole aumento della temperatura delle fumarole, e l’insieme dei fenomeni ha portato ad elevare da diversi anni il livello di allerta vulcanica che è passato nel 2012 da base ad attenzione. Prospezioni geofisiche hanno rivelato che l’area è interessata da forti discontinuità superficiali e profonde che interessano le varie falde idrotermali a diverse profondità che nella zona si sovrappongono fino alla superficie. Questa è anche l’area che in diversi modelli sviluppati dai vari gruppi di ricerca risulta a maggiore probabilità di aperture di bocche eruttive in caso di ripresa dell’attività vulcanica. Una ulteriore criticità è data dalla morfologia del territorio: infatti, l‘estesa piana di Agnano si estende proprio al di sotto del bordo orientale della Solfatara prolungandosi fino all’area densamente popolata di Bagnoli e Fuorigrotta. Questo implica che in caso di fenomenologie esplosive o di drastiche modificazioni del campo fumarolico con dati quantitativi al rialzo, la conca di Agnano potrebbe essere interessata da concentrazioni anomale di anidride carbonica e altre sostanze nocive, soprattutto nelle condizioni di prevalente circolazione dei venti verso i quadranti orientali. Le modificazioni dei parametri geofisici e geochimici hanno fatto ritenere a molti ricercatori che sia in atto una possibile evoluzione verso uno stato critico e potenzialmente eruttivo. Per tutte queste motivazioni ebbi a denunciare in passato contrarietà alla realizzazione di una centrale geotermica a Scarfoglio. Qualsiasi attività di trivellazione anche superficiale nell’area indicata soprattutto se caratterizzata dalle pratiche di estrazione e reiniezione dei liquidi idrotermali, può innescare terremoti oltre che favorire la dispersione in atmosfera di gas e altre sostanze nocive, senza escludere il rischio di eruzioni freatiche che causerebbero danni a centinaia di metri di distanza dai siti di perforazioni. Le trivellazioni sono processi intrinsecamente irreversibili e dagli effetti imprevedibili che possono alterare l’equilibrio del sistema crostale zonale, con innesco di processi non lineari e di natura caotica tali da trasformare piccole perturbazioni in drastiche modificazioni del sistema in profondità. Essendo l’area sede di siti cruciali nel sistema di monitoraggio, le modificazioni artificiali potrebbero comportare significative alterazioni dei parametri monitorati, non discriminabili rispetto all’azione antropica dell’uomo.

Nella cosiddetta Tuscia e nel territorio dei Monti Vulsini che si affacciano sul lago Bolsena, vogliono realizzare alcune centrali geotermiche per la produzione di elettricità, attraverso sistemi binari che necessitano di pozzi profondi per l’emungimento e la reiniezione di fluidi idrotermali. Lei è contrario a questa pratica almeno in questi luoghi?

L’esteso territorio che comprende il distretto vulcanico Vulsino e il lago di Bolsena, e caratterizzato da un rischio sismico medio alto con magnitudo max attesa prossima al 6° grado della scala Richter. Geologicamente parlando, i vulcani non più attivi del distretto Vulsino e più a nord dell’Amiata, si sviluppano all’interno di una estesa struttura tettonica, in un bacino tettonico definito il graben di Siena-Radicofani. Questo come altri bacini tettonici che sono intercalati ai rilievi della catena appenninica, sono dovuti a processi distensivi attivi controllati da faglie dirette che bordano la catena appenninica. L’attivazione di queste faglie storicamente ha generato forti terremoti che, data la bassa profondità ipocentrale, in genere compresa entro i 10 chilometri,  hanno creato non pochi danni ai centri storici. Oltre a queste importanti strutture tettoniche, più in superficie, nei primi chilometri, sono presenti poi, strutture vulcano tettoniche associate all’evoluzione di apparati vulcanici tra i quali i più rilevanti sono la vasta caldera che ingloba il lago di Bolsena, e il complesso vulcanico del monte Amiata.

Il Lago di Bolsena - Foto Mastrolorenzo

Come ho rilevato nelle mie osservazioni alla Regione Toscana relativamente a un progetto geotermico da 10 MW in Val di Paglia, le centrali geotermiche in questo contesto geologico sono assolutamente da evitare, perché i processi di trivellazione estrazione e reiniezione di fluidi geotermici, a tassi dell’ordine di centinaia di tonnellate l’ora, possono indurre terremoti anche di magnitudo superiore al 4° grado Richter in prossimità dei pozzi, e addirittura innescare terremoti della max magnitudo attesa nelle faglie attive a maggiore profondità. Tali effetti dell’attività geotermica, sono stati ampiamente documentati a livello mondiale, e anche in Italia la commissione Ichese, costituita a seguito della sequenza sismica in Emilia nel 2012, non escluse la possibilità che i terremoti di elevata magnitudo fossero stati innescati da attività antropiche. L’elevata discontinuità difficilmente indagabile nei dettagli, del sottosuolo e in particolare delle estese falde idrotermali, può comportare induzione e innesco di terremoti, così come non si può escludere il mescolamento delle falde a diversa quota, con conseguente risalita in superficie di fluidi geotermici carichi di sostanze nocive come l’arsenico e l’anidride carbonica. Il rischio più temuto e che tali sostanze possano disperdersi all’interno delle falde idropotabili superficiali e nello stesso lago di Bolsena con gravi conseguenze per le popolazione e l’ambiente. A tali criticità va aggiunto il rischio esplosione sempre presente in perforazioni che attraversano orizzonti ad alta pressione e temperatura, quali eventi che già si sono manifestati in passato per effetto di trivellazioni nel settore nord del Bolsena. Altre problematiche denunciate riguardano i danni alla cultura artistica, storica e paesaggistica, in un’area che conta tremila anni di storia.

Ringraziamo il Prof. Giuseppe Mastrolorenzo, noto vulcanologo e ricercatore, per averci consentito di conoscere il suo parere personale ancorchè scientifico su aspetti attuali e molto rilevanti che interessano i territori del nostro impareggiabile Paese. Il suo istituto di appartenenza (INGV) ha ricevuto in ogni caso relazioni su questo argomento, essendo tra l'altro centro di competenza della Protezione Civile nazionale.