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domenica 16 giugno 2013

Vulcani napoletani: pericolo e ricchezza...di Malko

Le isole flegree

Napoli, il Vesuvio i Campi Flegrei e Ischia

Il Vesuvio, i Campi Flegrei e l’Isola d’Ischia, sono i tre distretti vulcanici che caratterizzano l’area provinciale di Napoli. Bisogna subito notare che nonostante la vicinanza presentano caratteristiche completamente diverse con apparati vulcanici dissimili per forma ed estensione.
Il Vesuvio è certamente il più noto tra i vulcani menzionati, non solo perché il suo edificio è esterno e particolarmente riconoscibile, ma anche perché è stato protagonista di eruzioni recenti (1944) e altre famose come quella pliniana che seppellì nel 79 d.C. le città di Pompei ed Ercolano, poi riportate alla luce a tutto vantaggio del patrimonio archeologico internazionale.
L’isola d’Ischia è la parte aerea di un vulcano sottomarino. Circa 55.000 anni fa si ebbe l’eruzione esplosiva detta del tufo verde Epomeo, che fu la più importante per intensità e geomorfologia successiva dei luoghi. La violenza dell’eruzione, infatti, originò una caldera invasa dal mare e in seguito riempita dall’accumulo dei prodotti piroclastici eruttati dalle numerose bocche crateriche che costellavano quei luoghi.
Il Monte Epomeo non è un vulcano ma una sorta di pilastro tufaceo spinto in alto dal magma sottostante. Rappresenta il rilievo più alto dell’isola con i suoi 787 metri di altezza, e nella sua corona di base e verso est, si evidenziano numerosi centri eruttivi con attività passata effusiva ed esplosiva manifestatasi anche dopo lunghe quiescenze. L’ultima eruzione fu quella dell’Arso nel 1302 d.C. Oggi l’isola presenta un’importante attività fumarolica e idrotermale che ne attesta comunque una mai sopita vivacità di fondo. Pochi anni fa un boato sul versante di Forio destò allarme, ma si trattò di un getto di vapore che si era liberato rapidamente dal sottosuolo collinare.
Il tufo si lascia erodere dagli elementi naturali come il vento, il sole e l’acqua. Questo spiega una gran quantità di massi in bilico lungo i versanti più acclivati del Monte Epomeo. Un evento sismico potrebbe scuotere e far precipitare a valle le pietre. Incredibile a dirsi, uno di questi massi, molto grande, venuto giù nel passato, è stato scavato e modellato per essere adibito a dimora.
Monte Nuovo (1538)

I Campi Flegrei sono un distretto vulcanico particolarmente complesso ed esteso con numerosi centri eruttivi. Tra le eruzioni particolarmente violente che si manifestarono in quest’area, vanno annoverate sicuramente quella dell’ignimbrite campana avvenuta circa 39.000 anni fa, così come   l’eruzione detta del tufo giallo napoletano risalente a poco più di 15.000 anni fa. L’ultima eruzione che si segnala è quella che nel 1538 diede origine in pochi giorni alla nascita di un edificio vulcanico chiamato appunto Monte Nuovo (foto sopra).
L’iconografia classica ha sempre accomunato anche come immagine la città partenopea al Vesuvio. In realtà i Campi Flegrei sono il vero vulcano di Napoli, perché la metropoli sorge in buona parte sui suoli tufacei originatisi proprio dai numerosi  eventi eruttivi esplosivi dell’area flegrea.
Pure l’edilizia della città nel corso dei secoli si è caratterizzata dal grande uso delle pietre di tufo giallo estratto da cave a cielo aperto, in galleria ma anche in sotterranea con prelievi effettuati addirittura in verticale sotto la casa da costruire. Una tecnica estrattiva manuale delle rocce che generava dei grandi vuoti (vedi figura in basso) sotterranei che erano destinati, dopo l’intonacatura, a cisterne di accumulo dell’acqua piovana.
Cava di tufo sotterranea appena scoperta
in località Piscinola (NA)
Il sottosuolo di Napoli quindi è particolarmente traforato con cunicoli e cisterne che diedero vita già in epoca greca e romana a importanti e moderni servizi come gli acquedotti a pelo libero.
Sarà proprio questa incredibile rete di canali e cisterne e pozzi che raggiungevano cortili e casse scale e interni delle case, a richiedere l’opera di particolari operai idraulici manutentori del sottosuolo chiamati pozzari. Per lavorare e inoltrarsi in dedali molto stretti, era necessario essere di piccola statura e bastava ricoprirsi con una tela di sacco  per non patire il freddo e non sporcarsi o lacerarsi gli abiti in quello che era un ambiente tanto stretto da richiedere di avanzare strusciando le pareti. Non è da escludere che da queste profondità sia nata la leggenda del monaciello, quale figura eterea di bambino, spiritello generoso e a volte dispettoso. Questo personaggio fiabesco molto amato dai napoletani,  potrebbe avere qualche nesso interpretativo, giusto per sbrogliare la leggenda, con l’acquedotto sotterraneo partenopeo e i suoi protagonisti (pozzari), che portavano i figli e fin da piccoli, nella Napoli di sotto col fine di insegnarli un mestiere. Forse il mito non è solo partenopeo ma più in generale dove il tufo è presente a  banchi, come ad esempio sulla costiera sorrentina, che rimane un'altra zona prediletta dal monaciello.  Per noi rimarrà sempre uno spiritello e per questo motivo non togliamo il tozzo di pane dalla tavola dopo cena…
Il tufo grigio di Sorrento si giustifica con la ricaduta dei prodotti piroclastici dell’eruzione ignimbritica flegrea (Archiflegreo). Il litoide a banchi è affiorante  soprattutto nei versanti marini a strapiombo. Le grotte realizzate dalle popolazioni locali nel corso dei secoli, furono scavate per estrarre e squadrare pietre a uso edile, utilizzando poi i vuoti come ricoveri o cantieri per le barche (monazeni): gli antri sono ancora oggi ben visibili soprattutto per chi proviene dal mare.
Nella figura sopra si nota “l’occhio di monte”, cioè la parte iniziale e circolare dello scavo che poi a mano a mano scendendo si allargava a campana. Si notano poi gli scalini incisi sulle pareti, e le macchie di nerofumo a destra lasciate dalle lucerne a olio dei cavatori.
Tratto dell'acquedotto sotterraneo romano
che adduce a una cisterna in località
Chiatamone (NA)
Nell’immagine a lato invece, si nota un ramo dell’acquedotto. In primo piano il canale dell’acqua a forma rettangolare capovolta intonacato alla base (il tufo non è impermeabile) dove l’acqua era padrona di scorrere a pelo libero. Da canale a canale e da cisterna a cisterna, la rete serviva in definitiva l’intera città. In epoca greca e romana l’acquedotto fu chiamato della Bolla e per estensione era secondo solo a quello dell’antica Cartagine.
Nel 1629 Don Cesare Carmignano, collaborato dall’ingegner Alessandro Ciminello progettò l’ampliamento della rete idrica cittadina, oramai insufficiente per i crescenti bisogni pure industriali, rifornendola di nuove acque carpite e canalizzate dalle zone beneventane di Sant’Agata dei Goti. Quest’opera idraulica detta appunto del Carmignano, restò in uso fino al 1885; dopodiché si utilizzò l’acquedotto  intubato a causa delle numerose epidemie che colpirono la città.
Il tufo elargito dalle eruzioni vulcaniche esplosive, la pozzolana ma anche la cenere e i lapilli vesuviani, si sono rivelati materiali insostituibili per l’edilizia. I suoli vulcanici poi, sono ancora oggi ineguagliabili per dare nutrimento ai pregiati vitigni e agli alberi da frutta e ai pomodori della vicina piana nocerino - sarnese.   Il tufo poi, vero dono del Signore, si è lasciato lavorare per tramutarsi in loculi e tombe e templi e cisterne e castelli e cattedrali e acquedotti. E poi ancora ha fornito materiale per le mura di cinta e le fortificazione. Nell’ultimo conflitto mondiale il sottosuolo di Napoli si prestò come ricovero antiaereo salvando numerose persone, così come ai primordi servì da rifugio ai cristiani perseguitati.  
La salubrità dei luoghi e la fertilità dei suoli, fecero e fanno dei Campi Flegrei, delle isole flegree e del litorale vesuviano, meta privilegiata e turistica di un certo turismo internazionale colto e riverente dei fasti romani .

La realtà che possiamo cogliere da questo piccolissimo excursus è questa: esiste e sussiste un incredibile rapporto tra la popolazione napoletana e i suoi vulcani. Un rapporto controverso e illogico, ma anche romantico e fatalista con non poche convenienze. Un connubio però, che oggi è particolarmente difficile da accettare soprattutto perché nel corso dei secoli è aumentata a dismisura la quantità di popolazione che invece di proliferare lontano dai vulcani li ha invece stretti in una sorta di abbraccio demografico. Purtroppo non ci sono segni neanche di controtendenza. E’ un po’ come vivere davanti al fusto di un cannone: la salvezza dipenderà dalla lunghezza della miccia e da quanto tempo prima riusciremo a cogliere lo scintillìo dell’innesco. Tutto qui! 

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