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giovedì 3 ottobre 2019

Terremoto e Vesuvio: analogie da Tribunale...di MalKo


Terremoto dell'Aquila 6 aprile 2009

Nella città dell’Aquila, sul finire di marzo del 2009, un tecnico di laboratorio al Gran Sasso, Giampaolo Giuliani, in riferimento a eventi sismici a bassa energia che da alcuni mesi martellavano incessantemente l’aquilano, lanciò un allarme, affermando che il terremoto, quello violento, sarebbe arrivato da lì a poco. La poco rassicurante previsione pare sia stato frutto dei suoi originali strumenti che misurano, non si sa con quanta efficacia, le concentrazioni di radon provenienti dal sottosuolo.

Il Sindaco dell’Aquila Cialente, incalzato dai cittadini in ansia per l’estenuante percezione dei sussulti litosferici, decise di chiedere supporto alle istituzioni competenti, soprattutto al Dipartimento della Protezione Civile, che il 31 marzo 2009 inviò nel capoluogo abruzzese uno stuolo di scienziati per fare il punto della situazione.

Il responso degli accademici di quella che alla fine si rivelò come una informale commissione grandi rischi (CGR), fu incredibilmente rassicurante, in quanto costoro, pur con distingui e silenzi, indicarono nella ripetitività dei sismi un fattore addirittura positivo per evitare concentrazioni di energia che diversamente potevano essere rilasciate pericolosamente in un unico e catastrofico evento. Purtroppo, a distanza di pochi giorni, il 6 aprile 2009, una violenta scossa di terremoto colpì duramente gli aquilani che dovettero contare 309 morti e 1600 feriti.La commissione grandi rischi, ovvero gli scienziati che intervennero una settimana prima del rovinoso sisma, furono processati perché più cittadini in seguito alle inopportune rassicurazioni formulate soprattutto da uno di questi esperti, avevano abbandonato pratiche precauzionali consistenti nel ripararsi in luoghi all’aperto, o comunque non confinati da muratura sismicamente e visibilmente sofferente.

Nel processo di primo grado, i sette componenti della commissione grandi rischi, furono condannati per negligenza e superficialità, per poi essere assolti quasi tutti nei successivi due gradi di giudizio. Il presidente della commissione se la cavò per il rotto della cuffia perché le sue affermazioni pubbliche furono ritenute principalmente di contrapposizione alle tesi di Giampaolo Giuliani, quale personaggio che a torto o a ragione, da più parti si era deciso di ridimensionare se non stroncare dalla scena pubblica con una denuncia per procurato allarme.

Il vice capo dipartimento della protezione civile, invece, vantò subito un ruolo operativo e non accademico, dilungandosi in affermazioni eccessivamente rassicuranti, con chiari riferimenti acchè i cittadini se ne tornassero a casa e si ristorassero: fu condannato a meno di due anni di carcere, per negligenza e imprudenza. Pena lieve perché il nesso di causalità tra le confortanti esternazioni e il cambio di abitudini, fu ricollegato “solo” a 13 vittime…

Da notare, che la maggior parte della stampa e degli opinion leader di quei momenti, così come una folta schiera di ricercatori di ogni ordine e grado, si mossero con appelli a difesa degli scienziati italiani ritenuti vittime di un assurdo processo alla scienza, minacciando velatamente, in caso di condanna, la presentazione di dimissioni o di diserzioni da quelle situazioni che richiedevano un parere scientifico.

I sostenitori pro commissione gridarono allo scandalo, scomodando e forzando una discutibile analogia con il caso Galileo Galilei e la sua teoria eliocentrica che nel 1633 gli costò l’accusa di eresia… I terremoti non si possono prevedere, affermavano i simpatizzanti della commissione: quindi perché accusare chi non ha previsto l’imprevedibile? In realtà questa affermazione sbandierata come mantra a difesa del consesso di esperti incriminati è monca, perché se i terremoti non si possono prevedere, ovviamente non si possono neanche escludere…

Agli scienziati della commissione grande rischi è stato contestato di aver influito sulle abitudini della popolazione attraverso l’errata comunicazione, inducendo gli aquilani ad assumere un comportamento altamente lesivo per la propria incolumità fisica (responsabilità psichica), in quanto abbandonarono le pratiche di salvaguardia in un contesto di manifesto pericolo sismico.

Questa visione induttiva e ispiratrice di un cambio di abitudini è stata contestata da tesi opposte che ribadivano l’immutata facoltà delle vittime di permanere all’interno delle proprie abitazioni; un diritto che va inteso come autodeterminazione personale e non come imposizione o induzione della commissione grandi rischi, che tra l’altro formalmente non era neanche tale e non era quindi tenuta a dare indicazioni di ordine operativo ai cittadini. La corte decise di analizzare il caso di ogni vittima e non di conglobare la morte di tutti i caduti alla responsabilità di chi imprudentemente rassicurò.

È interessante notare che il tribunale ebbe a ricalcare il concetto che le decisioni operative, cioè il da farsi magari per salvarsi, e quindi le eventuali e necessarie informazione che devono essere rese alla cittadinanza in frangenti di pericolo o presunto tale, spettano al mondo politico e alle sue diramazioni amministrative. In tale condivisibile conclusione, l'ente responsabile s'inquadra in ragione della vastità dell'evento e del pericolo prospettato: il Dipartimento, la Regione e l'onnipresente Sindaco, sono i principali attori per far fronte insieme alle istituzioni operative, a tutte le problematiche di ordine naturale o indotte dall'uomo che generano rischi per le popolazioni.
Col senno del poi, ci vien da pensare che il sindaco dell’Aquila, Cialente, forse avrebbe potuto avere meno titubanze perché le sue valutazioni sul rischio sismico erano diverse da quelle dei luminari provenienti da Roma. Questi ultimi non avevano il polso diretto della situazione in città, a iniziare dalla vulnerabilità dei fabbricati e dall’allarme sociale che si stava generando. Da qui il sospetto che la presenza degli accademici era forse legata principalmente alla necessità di zittire l’imbecille Giuliani, le cui affermazioni allarmavano in un momento di impegni internazionali, scompigliando un po’ quel dicastero istituzionalmente legato alle calamità ma impropriamente pure ai grandi eventi.

La presenza di scienziati di fama nazionale, così come del vice capo dipartimento, ebbero una ridondanza eccessiva che portarono ad una sorta di declassamento del ruolo istituzionale del sindaco, in una condizione amministrativa anomala, perché di fatto, come dicevamo, non c’era un conclamato stato d’emergenza. La catena degli eventi in questo caso e inopportunamente, portò al risultato del ubi maior minor cessat

La corte di appello del capoluogo abruzzese, nel valutare le colpe e le innocenze della commissione grandi rischi, ebbe a individuare due diversi profili di responsabilità:
  1. una possibile responsabilità per il contenuto delle valutazioni scientifiche emerse durante la riunione tenutasi all'Aquila il pomeriggio del 31 marzo 2009. 
  2. Una possibile responsabilità per l'attività di informazione alla popolazione aquilana.
Nel primo caso, premesso che notoriamente i terremoti non si prevedono e quella zona era già classificata ad alto rischio sismico,e quindi esistevano di fatto già delle valutazioni citate in letteratura scientifica, c’era ben poco da aggiungere in termini di pericolosità. Non si capisce quindi il tentativo di mitigare a chiacchiere un pericolo sismico non prevedibile e purtroppo immanente in quell’area. In altre parole il paradosso: se non ci fosse stato l'intervento dello Stato con le sue diramazioni, le cose sarebbero andate meglio.

Per quanto riguarda invece l’attività di informazione alla popolazione, il dato importante che emerge nelle sentenze è che questa attività non competeva all’organo scientifico ma a quello operativo: nella fattispecie al sindaco, perché mancandoci la dichiarazione dello stato di emergenza, il Dipartimento della Protezione Civile non poteva avere un ruolo presenzialista o agire per surroga.

I sindaci sono autorità locale di protezione civile ancorchè responsabili dell’informazione che una volta era in capo ai prefetti (Legge 3 agosto 1999, n. 265). Il vice capo dipartimento si assunse un onere che non gli competeva e per questo fu condannato. Il Sindaco Cialente in tutta franchezza fece quello che potè, cioè più di far arrivare la massima autorità scientifica sul posto che poteva fare: impartire disposizioni di senso opposto al gotha accademico e operativo nazionale?

Volendo usare un metro di paragone simile a quello adottato per l’Aquila calandolo sul Vesuvio, possiamo incominciare col dire che la commissione grandi rischi per il rischio vulcanico, nel 2012 concluse che lo scenario eruttivo (VEI4) è quello da cui doversi difendere obliando quello massimo pliniano (VEI5). Partendo da questa valutazione del pericolo, si definì l'estensione territoriale della zona rossa da evacuare all’occorrenza.

Statistica applicata alla tipologia eruttiva futura

Tali conclusioni prospettate al Dipartimento della Protezione Civile sono state da questi accettate e condivise procedendo con la realizzazione del piano di emergenza e di evacuazione (ancora in itinere), in quanto il Vesuvio è un problema tale da richiede un piano di tutela di rilevanza nazionale.

Il problema che pesa come un macigno sull’intera pianificazione, è legato alla eruzione che si è scelta come riferimento (VEI4), e che è frutto di un’analisi statistica e quindi è il convitato di pietra di tutte le riunioni operative.

Ergo, nell’attualità la protezione delle popolazioni vesuviane è assicurata da elementi probabilistici passati come deterministici. Orbene dalla taglia dell’eruzione, dicevamo, si definisce l’ampiezza della zona rossa da evacuare. È ovvio che adottando un’eruzione media (VEI4), la zona rossa sarà mediamente ampia e quindi è inevitabile l’introduzione per quanto remota di un ulteriore elemento di incertezza che lascia aumentare a tre le possibili matrici di una ipotetica fase di allarme vulcanico:
  1. mancato allarme eruttivo (l’allarme evacuativo viene diffuso in tempi non utili per l’evacuazione della popolazione).
  2. Falso allarme eruttivo (l’allarme eruttivo viene diffuso in tempi utili per l’evacuazione ma l’eruzione non si manifesta).
  3. Successo evacuativo con catastrofe vulcanica (l’allarme evacuativo viene lanciato in tempo utile per l’evacuazione della zona rossa, ma l’eruzione che si presenta è di taglia superiore a quella prevista nel piano o sbilanciata energeticamente, e quindi un certo numero di abitanti che si riterranno al sicuro e quindi immoti, possono essere travolti dalle dirompenze vulcaniche).

Ricordiamo pure che nella strategia difensiva della commissione grandi rischi all'Aquila, si tentò di dare ampio spazio alla inadeguata fattura dei fabbricati che non erano antisismici ancorchè gravanti su terreni dichiaratamente sismici. Quindi, se da un lato la natura ha la sua imprevedibilità specialmente per le cose che riguardano il sottosuolo, l’uomo, si è detto, poteva difendersi adeguando prevedibilmente i fabbricati con misure antisismiche.

Semmai dovesse presentarsi un evento eruttivo al Vesuvio di una taglia superiore a quella su cui si è pianificato, alla stregua, un tribunale potrebbe arrivare alle stesse conclusioni dell’Aquila, cioè non è colpa della comunità scientifica ma dell’autorità politica che ha accettato lo scenario eruttivo medio proposto. 

Poi si lascerebbe notare che il pericolo vulcanico è imponderabile e immanente. Ed ancora che le eruzioni, fatto anch'esso notorio, non sono deterministicamente prevedibili almeno con largo anticipo e che non è possibile stabilirne la taglia eruttiva se non dopo l'evento: quindi, la responsabilità di un eventuale disastro alla fine sarà di chi ha deciso di insediarsi nella zona rossa ad alta pericolosità vulcanica… 

Allora intuirete che c’è una grande discordanza tra le tesi giuridiche di colpa, e il fatto che lo Stato non emani una legge che vieti ad esempio nel super vulcano dei Campi Flegrei, di costruire ancora residenze sulla spianata di Bagnoli. Oppure è illogico che lo Stato non operi in surroga in quei comuni che ancora non mettono a punto il loro piani di evacuazione. Che dire poi della inesistente lotta all’abusivismo edilizio in zona rossa: con queste premesse lo Stato non può concedere sanatorie a chi volutamente e contravvenendo alle leggi ha edificato senza licenza.

Il fatto che a volte il libero pensiero guasti l’immagine di efficienza del Dipartimento della Protezione Civile, non dovrebbe essere motivo sufficiente per zittire o isolare i dissidenti, innanzitutto perché i confronti sono importanti, e poi perché, come i fatti dell’Aquila hanno ampiamente dimostrato, la scienza non è sempre cristallina e la politica a volte condiziona quella parte del mondo accademico, magari minima, che non rifugge dal fascino del potere...

A proposito della statistica che nelle aule giudiziarie è stata catalogata come sapere incerto, ecco cosa ebbe a scrivere un ex direttore dell’Osservatorio Vesuviano qualche anno fa:
<<…purtroppo non è oggi possibile definire i tempi di ritorno di qualsivoglia tipologia di eruzione, per tutti i vulcani in generale ma in particolare riguardo alle eruzioni pliniane del Vesuvio. Il concetto stesso di tempo di ritorno presuppone una regolarità (periodicità) che non sussiste in generale per alcuna eruzione vulcanica. Per quanto riguarda poi le eruzioni pliniane del Vesuvio, quelle a noi note sono in numero talmente esiguo, che qualunque analisi statistica ha una significatività estremamente bassa>>.

Per le conclusioni ci affidiamo ancora una volta allo spunto offertoci dalle sedi togate dell'Aquila: "L'organo della protezione civile, che provvede a fornire informazioni alla pubblica opinione circa la previsione, l'entità o la natura di paventati eventi rischiosi per la pubblica incolumità, esercita una concreta funzione operativa di prevenzione e di protezione, ed è a tal fine tenuto ad adeguare il contenuto della comunicazione pubblica ad un livello ottimale di trasparenza e correttezza scientifica delle informazioni diffuse, e ad adattare il linguaggio comunicativo ai canoni della chiarezza, oggettiva comprensibilità e inequivocità espressiva".

In altre parole che dicano la verità fino in fondo per offrire al cittadino il diritto di conoscere per scegliere... 



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